Sono passati dieci anni (e qualche mese) da quella prima recensione di "Gomorra" che inaugurò ufficialmente la webzine. Da allora, tanti amici che si sono succeduti nel tempo hanno creato questo luogo di ritrovo per appassionati di cinema. E ora, prima di ripartire, ci fermiamo per riflettere su quanto accaduto finora
Musica e cinema, due passioni in un sito solo. All'incirca era questa l'idea, all'alba del nuovo Millennio, mentre mi accingevo (del tutto inconsapevolmente) a varare, con OndaRock, una delle più seguite webzine italiane di informazione musicale. Il cinema non poteva non farne parte, perché l'ho sempre immaginato profondamente compenetrato alla musica, e non solo per il tramite delle colonne sonore e delle musiche da film (anche immaginari). Così in principio fu Cinemania, una specie di mini-inserto cinematografico contenuto all'interno di OndaRock, con il contributo delle recensioni di pochi volontari, spesso anche esterni alla nostra galassia. Poi però, grazie anche al forum di OndaRock - ineffabile contenitore di discussioni su ogni aspetto dello scibile umano - emerse sempre più dirompente il desiderio di sviluppare ulteriormente la sezione sul cinema e, perché no, finalmente emanciparla dall'ormai ingombrante fratello maggiore. Possibilmente preservando la stessa ratio di OndaRock: un sito curioso, dinamico, con un occhio aperto sull'attualità e l'altro sul passato, in modo da mescolare con il giusto equilibrio aspetti storici e contemporaneità, recensioni di nuove uscite e pietre miliari, news e archivio monografico.
Per riuscire nell'impresa, però, serviva un malcapitato coordinatore redazionale, in grado di sobbarcarsi l'impegno enorme di reclutare i collaboratori, gestirne il lavoro e revisionarne quotidianamente i testi. E fu proprio grazie alla disponibilità di questa persona, fondatrice morale a tutti gli effetti della webzine, che OndaCinema finalmente vide la luce nel giugno del 2008, dieci anni fa. "Elisa, ce la fai?". "Boh, meglio non pensarci, intanto ci provo". Lo spirito era grosso modo questo, unito a una scrupolosità e una serietà che raramente ho ritrovato nelle mie frequentazioni giornalistiche professionali.
Elisa Goolvart purtroppo non c'è più, ce l'ha portata via un assurdo, orribile incidente stradale nell'autunno del 2010. Però è rimasto in tutti noi il fermo proposito di onorarne la memoria, anche attraverso questo sito, il suo sito, che del suo entusiasmo contagioso ha mantenuto negli anni l'essenza più preziosa, ma direi anche l'apertura mentale che, fin dall'inizio, aveva saputo infondere. Insieme a lei, è doveroso ricordare anche un altro redattore scomparso, Rocco Castagnoli, "quello che ha dato 10 ad Avatar", come auto-ironizzava sul suo profilo. Ci manca anche lui, con la sua passione, la sua competenza e il suo umorismo sottile.
Il 2008, dunque, come spartiacque di questa temeraria impresa di nome OndaCinema, con la prima recensione - su "Gomorra" di Matteo Garrone - firmata da Diego Capuano, redattore storico che è ancora una colonna del sito. Un punto di partenza preciso e non casuale: sia per il film scelto, sia per il tipo di analisi effettuata. Fin da subito è emerso il bisogno di raccontare il cinema in modo non precotto, mai superficiale, men che meno ostaggio di pregiudizi e steccati. Con una varietà di "anime" all'interno della redazione in grado di coprire un ampio arco di gusti e approcci cinematografici. Dalla pietra miliare di "The Great Train Robbery" del 1903 all'ultimo capitolo di "Mission Impossible".
Qualcuno scambiò (e scambia tuttora) tutto questo per mancanza di una linea editoriale. A me piace invece pensare che sia una ricchezza unica di questo progetto, nato - come il gemello OndaRock - proprio per scardinare un certo modo pregiudiziale e vetusto di fare critica. Gli horror "off" di Annamaria Pelella e i blockbuster di Alex Poltronieri, tanto per citare due esempi primordiali, furono già una risposta chiara a chi immaginava l'ennesimo sito snob impegnato a reiterare cliché cinefili autoreferenziali.
Ma il cinema d'autore è sempre stato il nostro vero "core business", da quello classico europeo e statunitense a quello di realtà meno note e reclamizzate del mondo (dall'Iran al continente africano), con il desiderio di donare finalmente il massimo spazio a quelle pellicole meritevoli che altrove non ne avrebbero avuto affatto.
Il modello di OndaRock - nuove uscite post-2000, pietre miliari sui classici, monografie e interviste - ci forniva già lo scheletro su cui impostare il progetto. Ma sarebbe stato tutto velleitario in assenza delle persone che hanno dato anima, sudore e personalità al sito. Impossibile citarli tutti, ma non si può non ricordare figure che hanno fatto la storia di OndaCinema e oggi non sono più attive - da Claudio Zito a Francesca D'Ettorre, da Simone Pecetta a Pietro Bonaffini - così come l'attuale corpo redazionale, che vede in pista l'ex-coordinatore Giancarlo Usai - persona alla quale sento di dovere più di un ringraziamento - Diego Capuano, Carlo Cerofolini, Matteo De Simei, Giuseppe Gangi, Stefano Guerini Rocco, Matteo Pennacchia, Matteo Pernini, Antonio Pettierre, Eugenio Radin, Emanuele Richetti, Matteo Zucchi, più i contributi più sporadici ma sempre preziosi di Pietro Calò, Valerio Carta, Alessandro Corda, Davide De Lucca, Alberto Mazzoni, Mirko Salvini, Stefano Santoli, Alessandro Viale, Ivan Barbieri, Alessio Bottone, Cristiano Ciliberti, Domenico Ippolito.
È grazie alle persone, insomma, che il sito è cresciuto, sia come popolarità, sia come autorevolezza, aprendosi anche alle nuove realtà social (Facebook in primis) e rinnovandosi costantemente. Se infatti i nostri punti fermi sono rimasti sempre gli stessi (profondità d'analisi, curiosità verso il cinema "altro", visione a-pregiudiziale sui blockbuster, approccio storico) è cambiato nel frattempo il mondo attorno a noi, a cominciare dalla tecnologia e dalle piattaforme in cui si fa cinema oggi. Impossibile, dunque, ignorare la produzione televisiva, a cui oggi dedichiamo uno spazio ad hoc per le serie e un altro sul calendario settimanale dei film trasmessi. Ma impossibile anche ignorare realtà come Netflix, YouTube e tutte le realtà streaming, il crowdfunding, il nuovo cinema indipendente che piove da tutte le parti ma spesso in sala non compare nemmeno. E soprattutto diventa necessario svecchiare il sito e adeguarlo all'attualità anche dal punto di vista del design e dello sviluppo tecnologico. Proprio da questa esigenza è nata la riforma grafica che stiamo portando avanti grazie al nostro art director Edoardo Cappuccio, lo stesso di OndaRock, a garanzia anche di una uniformità grafica di fondo tra i due siti.
Continuità nel rinnovamento è dunque la ricetta che abbiamo adottato nei "nostri primi dieci anni" e che contiamo di portare avanti ancora a lungo, grazie anche al supporto manifestato dai lettori in questa prima fase della nostra esperienza. Con tanta fiducia, ma senza temere le critiche: rivolgetecele sempre e senza paura, magari non fermandovi al voto, ma cercando davvero di aiutarci a capire meglio quali strade intraprendere. Siamo pronti a fare ancora tanta strada insieme, e vogliamo coinvolgervi sempre di più. Buon cinema a tutti!
(Claudio Fabretti)
All'amante del Cinema piace lamentarsi della qualità media sempre più mediocre che il panorama odierno offre. Tuttavia nel ripercorrere gli ultimi dieci anni della Settima Arte si ravvisa una quantità di titoli eccezionali davvero notevole, ma soprattutto una serie di opere capaci di dedicarsi a temi esistenzialistici primitivi quanto necessari. Vita, morte e aldilà si intrecciano in un impeto inarrestabile che costituisce la linfa del monumentale "Tree of Life" di Malick, forse l'unica opera che per ambizione e profondità (sebbene il punto di partenza sia di natura completamente opposta) può trovare posto a fianco del "2001" di Kubrick. Un vero capolavoro insomma, di cui probabilmente si parlerà anche tra un secolo. E tale è pure il testamento definitivo del Cinema di Clint Eastwood, almeno idealmente: il riferimento è naturalmente al crepuscolare "Hereafter". Opera dolorosa, toccante, necessaria e ovviamente sottovalutata, in grado di incidere le proprie scene e i propri eroi nel cuore degli spettatori più sensibili. Un ibrido tra il classicismo di Easwood e i grovigli narrativi del primo Inarritu, condito da un pizzico di favolismo dickensiano. Se questi due film rappresentano personalmente gli emblemi di questo decennio, la stesura di questa breve classifica costituisce per le restanti posizioni un vezzo giocoso. E alla fine, ad aggiudicarsi i restanti posti, sono opere altrettanto filosofiche ed esistenziali.
The Tree of Life di Terrence Malick (2011)
Hereafter di Clint Eastwood (2011)
Solo Dio perdona di Nicolas Winding Refn (2013)
Wolf Children di Mamoru Hosoda (2012)
Mia madre di Nanni Moretti (2015)
In anni in cui sottrarsi alle schizofrenie circensi della cronaca, della politica e dell'accelerato vivere (a)sociale (e social) per interrogarsi sullo statuto reale e ideale del proprio comportamento somigliava sempre più a un atto donchisciottesco, il cinema europeo e non solo ha dimostrato di essere tutt'altro che insensibile alla domanda kantiana del "Che cosa devo fare?", a tal punto che guardando indietro al decennio raccontato dalla nostra webzine si potranno scorgere anche i segnali diffusi di un cinema etico. Individui comuni e misantropi divenuti eroi di umanità come Walt Kowalski, padri di famiglia condannati all'afflizione da gesti istintivi di sopravvivenza e autoconservazione ("Forza maggiore") o da dilemmi morali nati dall'amore per i figli ("Un padre, una figlia"). Ma il tormento per le leggi dell'agire, come si sa, riguarda pure il vivere nella sua dimensione trascendentale e allora il cinema etico si fa cinema di fede, di dubbi, castighi e martiri che dallo schermo si infrangono sullo spettatore, grazie ai sodali di un tempo Martin Scorsese e Paul Schrader. Infine le responsabilità del singolo possono intrecciarsi ai sentieri della Storia, descrivendone il generarsi come nella "trilogia della libertà" di Steven Spielberg ("Lincoln", "Il ponte delle spie", "The Post") o tramutandosi in ossessioni ispirate da epifanie umanistiche vissute nel recinto concentrazionario. E in riva al mare un agile levriero corre in circolo, specchio biblico di un'ironica aspirazione alla libertà dalle colpe e dalle macchie dell'anima.
Gran Torino di Clint Eastwood (2008)
Il club di Pablo Larrain (2015)
Il figlio di Saul di László Nemes (2015)
Silence di Martin Scorsese (2016)
First Reformed - La creazione a rischio di Paul Schrader (2017)
Giudicare un intero decennio, e pure senza un distacco, anche minimo, ma comunque necessario, è difficile.
Questo decennio è esattamente come il cinema: presente, passato e futuro, tutto insieme. E questo è anche il senso del fotogramma, un saluto, un addio, un arrivederci, un ben arrivato. Dalla terra di dove nasce il Sole, il cielo è azzurro e gli sguardi irrisolti: il dilemma di Kulesov vive e regna.
Dieci anni, cinque film: il valore di questi due lustri, più che dalle presenze, si evidenzia nelle assenze.
L'affetto e la maestria dei vecchiacci terribili, Cronenberg, Scorsese, Lynch, ognuno con le sue evoluzioni, in una Twin Peaks totalmente riconcettualizzata, o sulle piste di un lupo dell'alta finanza che non ne vuol sapere né di invecchiare né di mettere giudizio.
Il western dei fratelli Coen e di Quentin Tarantino.
Il pessimismo cosmico di Michael Haneke e Lars Von Trier.
Il 3D di Avatar e Gravity.
La magniloquenza di Chris Nolan.
La personalità di Garrone e Sorrentino, ma anche quella di Stefano Sollima, arrivato fino a Hollywood, e, buon ultimo, quella di chi è arrivato alla tomba lasciandoci in eredità un gioiellino: "Non essere cattivo", Claudio Caligari.
La mano sicura e il genio multiforme di Pablo Larrain.
La coerenza e il rigore drammatico, sorprendentemente anche prolifico, in questo decennio, di Terrence Malick.
Le tracce di chi se ne ispira a mani basse, Bruno Dumont e Carlos Reygadas.
L'irriverenza cheap&trash dei "Guardiani della Galassia".
Il bipolarismo del fintamente leggero Alexander Payne e della gravità esemplare di Jeff Nichols.
Come quella dei quasi omonimi Anderson, Wes e P.T., quest'ultimo completato dalla prova attoriale di Daniel Day Lewis.
Aggiungiamo infine una nuova moda della moderna visione, il crossing: le serie con attori, budget e ricchezza narrativa e formale proprie del cinema e approdate in televisione, e le opere d'arte, concerti, balletti e spettacoli circensi, da godersi sul grande schermo.
Un decennio decisamente interessante, suvvia.
Holy Motors di Leos Carax (2012)
Il cavallo di Torino di Béla Tarr e Agnes Hranitzky (2011)
The Tree of Life di Terrence Malick (2011)
The Sky Crawlers - I cavalieri del cielo di Mamoru Oshii (2008)
Still Walking di Hirokazu Kore'eda (2008)
Contemplavo assorto i titoli dei cinque migliori film del decennio in ottimistica attesa che un segreto stame, un arcano fil rouge emergesse da sè, balenando tra le immagini. Che mai avranno in comune un documentario sulla purga anticomunista indonesiana, una pièce intimista ambientata nel Giappone contemporaneo, uno psicodramma in odor di fantascienza, una cupa teodicea sviluppata in un villaggio protestante e l'avventurosa parodia postmoderna di un Bildungsfilm? Diversi spazi, diversi generi, perfino diverse rappresentazioni del tempo (memoria storica, memoria soggettiva, eventualità, eternità, ciclicità). E mentre mi arrendevo alla disarmonia lampante, scoprivo che in questo si cela il valore inafferrabile del cinema di oggi: la proteiforme infinità dei nessi, l'inesauribile immanità degli orizzonti.
L'atto di uccidere di Joshua Oppenheimer (2012)
Still Walking di Hirokazu Kore'eda (2008)
Melancholia di Lars Von Trier (2011)
Il nastro bianco di Michael Haneke (2009)
The Master di Paul Thomas Anderson (2012)
Quando nel maggio del 2008 scrivevo la recensione di "Gomorra" per inaugurare la home page di OndaCinema due erano le certezze dell'immediato: l'aver analizzato un film che si presentava già epocale ai miei occhi e l'entusiasmo per un progetto che nasceva, dopo mesi di ipotesi e discussioni, con i migliori auspici. Meno prevedibile, forse, che avrei scelto il film di Garrone tra i cinque preferiti dell'ultimo decennio e, soprattutto, di ritrovarmi dieci anni dopo a parlarne nel luogo stesso dove tutto cominciò; non fosse altro che di rado si ragiona su distanze tanto lunghe. Impossibile invece sapere che non molti mesi dopo sarebbe approdato nelle sale e nel mio cuore il film di riferimento del periodo storico in questione: "Gran Torino" di Clint Eastwood, capolavoro assoluto che mi risulta tale per più ragioni. Perché - al di là del proverbiale classicismo eastwoodiano che con impassibile coerenza giganteggia in era ipertecnologica - chiude per il suo autore un decennio ineguagliabile e, spiritualmente, una carriera ed un'idea di cinema e di vita, perché si rifugia in un microcosmo per raccontare un'interna nazione, in umili e marginali vite per scandagliare morali e coscienze, perché sintetizza l'esperienza di una vita non facendo a meno né di autocritica né di ironia. E, ancora, perché sa donare al prossimo e al futuro un insegnamento con tono né predicatorio né definitivo. Nel passaggio di Clint Eastwood tra l'al di qua e un altrove si stabilisce un ponte tra un grande cinema che è stato ed un possibile cinema che sarà. I successivi film della mia lista sono dunque legati da un flusso che parte dal passato, dipanandosi nel tempo con variazioni, talvolta minime, di un cinema che non si limita a farsi guardare, ma che ha la forza (ed il coraggio) di comunicare con lo spettatore. Il corpo cinematografico di Walt Kowalski/Clint Eastwwood è al contempo tramonto sul passato e luce sul futuro.
Gomorra di Matteo Garrone (2008)
Gran Torino di Clint Eastwood (2008)
L'altra Heimat - Cronaca di un sogno di Edgar Reitz (2013)
Paterson di Jim Jarmusch (2016)
Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson (2017)
Sarà perché esiste solo in rete e nella testa dei lettori, fatto sta che non sono mai riuscito a considerare Ondacinema come qualcosa di reale in senso fisico e materiale. Celebrarne la nascita almeno per me equivale a fare i conti con un trascorso sentimentale ancora in atto e dunque con i sentimenti lasciatimi in eredità dai film di cui mi è capitato di scrivere. Considerandoli luoghi della mia anima e quindi, parte di ciò che sono diventato è difficile documentarne i meriti come pure di farne una selezione virtuosa, avendo, anche quelli meno riusciti, o forse quelli più di altri, contribuito a sviluppare una consapevolezza cinematografica che prima di ondacinema esisteva solo in parte. La prevalenza di titoli italiani nella cinquina in calce è proporzionale al desiderio che ho sempre avuto di parlarne e di fargli lustro su queste pagine. L'Alice Rohrwacher di "Lazzaro Felice", il Roberto Minervini di "Stop the Pounding Heart", il Matteo Garrone di "Reality" sono sguardi di purezza rivolti all'infinito e perciò indimenticabili, come tutte le loro opere. Nel consesso degli angeli trovano posto "Mektoub My Love: canto uno" e "The Fighters - Addestramento di vita": non lo sanno ma anche loro hanno contribuito alla pulizia del mio cuore.
Reality di Matteo Garrone (2012)
Stop the Pounding Heart di Roberto Minervini (2013)
The Fighters - Addestramento di vita di Thomas Cailley (2014)
Mektoub, My Love: Canto Uno di Abdellatif Kechiche (2017)
Lazzaro felice di Alice Rohrwacher (2018)
Il mondo che, dopo essere stato scosso dall'11 settembre, nel 2008 conosce la più grave e profonda crisi economica del nuovo millennio, è un mondo ormai orfano delle Grandi Narrazioni novecentesche e che ne ricerca disperatamente di nuove. È una partita nella quale il cinema gioca un ruolo cruciale probabilmente perché è l'arte che più di tutte è chiamata a guardarsi allo specchio e riscoprirsi nella più grande narrazione del nostro tempo: la rete e tutto ciò che da essa deriva.
Sconquassata dai colpi del nuovo universo ipertestuale di cui è composta, la realtà, e di riflesso il cinema che di quella realtà ne è una sublimata propagazione, si popola di fantasmi, di simulacri, di doppi.
Alter ego digitali di cui Fincher ha raccontato la genesi, una sorta di big ben del mondo per come lo conosciamo oggi. Un mondo in cui i miti vengono deformati, distorti, finanche i più sinceri come quello irruente della ribelle giovinezza. O reinventati e ridiscussi in una centrifuga metonimica in cui Narciso viene divorato dalla sua stessa antropomorfica vanità. Finanche possono ritrovare corpo, seppur sotto forma di fragili ed effimeri ologrammi, illusione di riconciliazione con ciò che è stato e non può più essere.
Quello che rimane non è che un'umanità, e con essa un cinema, in cerca di un'immagine in cui riconoscersi, magari mentre cerca, inquieta, l'abito migliore di cui vestirsi.
The Social Network di David Fincher (2010)
Spring Breakers - Una vacanza da sballo di Harmony Korine (2012)
The Neon Demon di Nicolas Winding Refn (2016)
Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve (2017)
Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson (2018)
C'è qualcosa di antico in questo decennio di sfrenata tecnologia, di luminosi touch screen, smartphone super connessi e film in HD, streaming, con annesse infinite serie televisive. Di fronte a questa smisurata prateria digitale, il cinema sembra voler riprendere il suo antico passo. Vecchi maestri d'un tempo volgono lo sguardo indietro, senza nostalgie, ma con rinnovato vigore verso ricordi personali o classici condivisi.
Un gruppo di carcerati si ritrova in scena, a provare tra le mura della prigionia, l'antico testo del poeta che avevano studiato a scuola. La forza dell'arte scuote i loro animi e smuove dentro qualcosa. È la forza anche del cinema che, in questo nuovo millennio, non smette di raccontare i fatti di cronaca nostrana più raccapriccianti con piglio neorealista e mixato con una nuova trascinante sensibilità. C'è qualcosa di antico nei ricordi d'infanzia di un uomo e un viaggio impossibile negli albori dell'universo: uno dei capolavori veri di questo decennio che racconta la Vita e il suo senso, come una nuova Odissea nello spazio.
Il cinema riscopre il gusto del racconto, riprendendo vecchie storie per parlare dell'oggi con al centro sempre l'uomo con le sue aspirazioni e debolezze. Lo fanno con immutata energia gli autori d'un tempo (Taviani, Scorsese, Malick) e i nuovi talenti (Garrone, Larrain, Villeneuve, Sorrentino): il cinema è più che mai vivo.
Gomorra di Matteo Garrone (2008)
The Tree of Life di Terrence Malick (2011)
Cesare deve morire di Vittorio e Paolo Taviani (2012)
The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (2013)
Neruda di Pablo Larrain (2016)
Nel 2008 Lehman Brothers dichiara fallimento: è la più grande bancarotta della storia degli Stati Uniti. "The Wolf of Wall Street" racconta quello che succede prima, con Jordan Belfort tremenda incarnazione della bulimia avida del sogno americano, che in questo fotogramma mette in atto per la prima volta il suo sistema e lancia un chiaro messaggio alle sue vittime, che in fondo siamo o saremo anche noi. Questi ultimi 10 anni di cinema non hanno potuto prescindere dalla crisi declinata nelle varie forme: economica, lavorativa, di valori, sociale. Crisi anche della forma, con il cinema che cerca di ritrovare se stesso, fagocitato, anche qui, da nuovi media, nuove forme di fruizione; il film di Charlie Kaufman si costruisce per labirintici frammenti di ricordi, di una mente affannata e annaspante per cercare di capire e conservare qualcosa. Ci piace ricordare anche le vertigini nel precipizio della depressione di "Melancholia", dove per Lars von Trier, sbeffeggiante e provocatorio come al solito, la risposta è molto semplice e chiara: non c'è speranza. O forse sì, nell'arte di raccontare storie ben congegnate/merce rara, come saprà fare Asghar Farhadi e in quell'elegante poesia del malinconico che è "L'illusionista", un omaggio alla magia dell'arte che ancora, nonostante i mali e gli egoismi del mondo, ci consente di sognare e sopravvivere.
Melancholia di Lars von Trier (2011)
The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (2013)
Synecdoche, New York di Charlie Kaufman (2008)
L'illusionista di Sylvain Chomet (2010)
About Elly di Asghar Farhadi (2009)
Dieci anni di Ondacinema. In questo fantastico percorso vissuto insieme, il nostro maggior rappresentante contemporaneo, Matteo Garrone, può vantare di aver realizzato l'opera apripista che ha, in questi ultimi anni, caratterizzato cinema, televisione e costume del nostro Paese. Con "Gomorra" la disamina sociale si arma infatti di un nuovo rigore cinico e chirurgico. Se con Garrone la parola chiave è regia, con Terrence Malick è ascetismo. "The Tree of Life" è l'opera definitiva del cineasta texano, quella che compendia panismo e filosofia all'interno della sua seconda fase di carriera. Famiglia e Universo in poco più di centoventi minuti di audiovisione. Missione impossibile per un cinema totale che ambisce all'essenza aristotelica. Nello stesso anno, il 2011, irrompe la mostruosa creatura di Steve McQueen, "Shame". Ovvero il significato del dolore nel ventunesimo secolo: alienazione digitale, disaffezione, solitudine. La meccanica del sesso è la cartina tornasole di un vissuto materialista, spogliato da sentimenti, ignobile e quindi privo di pudore, che il regista affronta con un'audacia encomiabile. La stessa audacia con la quale Abdellatif Kechiche ridefinisce il linguaggio cinematografico sull'amore. L'esplosione di carne, lacrime e gelosia ne "La vita di Adele" è un iperrealismo di emozioni e pulsioni che tratteggia splendidamente l'innamoramento ai tempi della Millennial Generation. E poi c'è "Neruda", l'opera che più di ogni altra in questo decennio ha saputo scompaginare il paradigma di forma e linguaggio cinematografico. Il Biopic e il metacinema, la creazione del falso, il racconto del vero. E viceversa. Sono le opere del cileno Pablo Larrain ad aver marchiato a fuoco gli anni dieci del duemila. Cinema del reale, del potere, della memoria, della Storia, del sogno, dell'arte. Cinema della "creazione".
Gomorra di Matteo Garrone (2008)
The Tree of Life di Terrence Malick (2011)
Shame di Steve McQueen (2011)
La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (2013)
Neruda di Pablo Larrain (2016)
Una cinquina senza apparenti punti di contatto, semplicemente cinque film che mi hanno lasciato un segno profondo in questo decennio di vita di OndaCinema. A cominciare dal primo, quel "Gomorra" con cui abbiamo proprio dato l'abbrivio a questa nuova avventura: una recensione, quella firmata da Diego Capuano, che ha posto le basi per tutti gli sviluppi futuri della webzine, e un film, quello di Garrone, semplicemente perfetto e destinato a indicare una nuova frontiera al cinema in Italia. Poi, la fantasia al potere, quella di Wes Anderson, alle prese con la delicata love-story adolescenziale virata a tinte pastello di "Moonrise Kingdom", e quella, non meno onirica e poetica, di Hayao Miyazaki, in una delle sue favole più belle, "Il castello del cielo". Ma non ho potuto dimenticare neanche la follia apocalittica e struggente del Von Trier di "Melancholia", né l'intrusione carnale, spirituale, commovente e definitiva nella "Vita di Adele" a cura di uno dei maggiori talenti emersi nel decennio, Abdellatif Kechiche. Cinque film che hanno raccontato questi dieci anni oscillando tra l'osservazione feroce della realtà e la fuga nel sogno.
Gomorra di Matteo Garrone (2008)
Melancholia di Lars Von Trier (2011)
Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore di Wes Anderson (2012)
La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (2013)
Si alza il vento di Hayao Miyazaki (2013)
OndaCinema ha dieci anni! Nella volatilità del web questa redazione taglia un traguardo di inestimabile valore: dieci anni in cui siamo cresciuti (e non solo d'età), mentre c'era chi arrivava, chi se ne andava, chi ha chiuso una porta e chi ha schiuso un portone. Un decennio trascorso vedendo e rivedendo film, scrivendo e riscrivendo da un'ottica particolare, con una consapevolezza diversa, aguzzando di volta in volta l'ingegno critico nella speranza che mai si consumi. Ricordi e fotogrammi si confondono ormai nella memoria di serate passate attendendo l'angolazione critica che ci illumini, la frase giusta da cui partire, la citazione che si addentella al film appena visto, restando lucidi e obiettivi anche di fronte alle opere dei registi del cuore, ai nuovi amori, alle scoperte private che diventano improvvisamente pop.
Scegliere cinque titoli non è dunque un esercizio di cinefilia estrema, ma un atto di cinemasochismo. Mancano gli autori che sono esplosi in questo decennio segnandone il panorama cinefilo, da Pablo Larraín a Xavier Dolan. Manca il maggiore talento italiano, Matteo Garrone e i grandi autori cinesi (Jia Zhang-ke e Wang Bing) e parecchi giapponesi. Mentre Jean-Luc Godard col suo "Adieu au Langage" continua a guardarci (e a guardare il cinema) dall'alto. I film scelti sono un elenco di prime volte: la prima volta in cui Jack guarda il mondo, i coup de foudre tra Adele ed Emma e tra Alma e Reynolds, Kaguya che, felice, vede i fiori di ciliegio cadere. E poi "Synechdoche, New York" in cui ogni aspetto della vita dell'autore si cristallizza nella ripetizione, ricominciando da capo, di volta in volta, finché la vita e il suo tempo non si esauriscono. Così come noi di OndaCinema che continueremo a vedere e a scrivere anche solo "per la bellezza del gesto" (bonus track: "Holy Motors").
Synechdoche, New York di Charlie Kaufman (2008)
The Tree of Life di Terrence Malick (2011)
La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (2013)
La storia della principessa splendente di Isao Takahata (2013)
Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson (2017)
I neorealisti del Secondo dopoguerra, i movie brats alle prese con gli scandali di Vietnam e Watergate, gli avanguardisti russi figli della Rivoluzione d'Ottobre. La storia del cinema è puntellata di esempi che dimostrano come a forti momenti di instabilità politico-sociale, spesso corrisponda la nascita di irrefrenabili spinte artistiche, straordinariamente vitalistiche e innovatrici. Questo primo decennio di attività di OndaCinema, inaugurato proprio in coincidenza della vigilia di una straziante crisi tanto economica quanto valoriale, ci ha regalato alcune piccole, grandi dimostrazioni di un cinema fortemente maturo e complesso, autoriflessivo e consapevole, capace di tradurre con rabbiosa vivacità e commovente sincerità lo Zeitgeist della nostra epoca. Un cinema politico e intimista al tempo stesso, capace di dare forma allo smarrimento esistenziale dell'uomo (e della donna) di oggi. Un cinema che interroga le molteplici possibilità di identità tormentate, erranti, sfaccettate, in trasformazione. Un cinema che sa mettere in discussione le istituzioni, fino ad arrivare a demistificarle, demolirle, trasfigurarle, ricodificarle. Un cinema che non ha paura nemmeno di confrontarsi con la Storia ufficiale e i suoi grandi personaggi, mostrando la caducità di miti che si credevano immortali. Un cinema che, siamo pronti a scommettere, passerà la prova del tempo.
Hunger di Steve McQueen (2008)
45 anni di Andrew Haigh (2015)
Forza maggiore di Ruben Östlund (2014)
Jackie di Pablo Larraín (2016)
Two Lovers di James Gray (2008)
Il cinema in questi dieci anni mi ha regalato un'infinità di emozioni e, grazie all'esperienza della nostra webzine, altrettanti spunti critici per (ri)leggere il mondo contemporaneo attraverso il momento della visione come una trottola onirica che continuerà a girare - se si osa non smettere di sognare - anche dopo l'ultimo cut. Così la mia è una lista delle emozioni, dei sogni e delle Storie: il sogno di una rivoluzione famigliare abortita nei disperati anni Cinquanta di Richard Yates, incarnata sullo schermo da una meravigliosa coppia di attori; il doppio, triplo, infinito incubo di un ladro della psiche, summa kolossal di numerose pellicole (sci-fiction e non) che hanno posto al centro della narrazione e come motore dell'azione la mente umana; l'evoluzione di un altro sogno, a lungo immaginato e stavolta dannatamente reale, nella saga d'amore più antieroica di sempre; un altro (anti)eroe, un rapace antropomorfo che, come la macchina da presa, si fa soggetto enunciatore attraverso il piano sequenza per rovesciare ogni possibile messa-in-scena; infine, la rilettura distopica e pop del Terzo Reich che si fa beffe della Storia grazie al cinema e all'infiammabilità della celluloide.
Birdman di Alejandro González Iñárritu (2014)
Before Midnight di Richard Linklater (2013)
Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino (2009)
Inception di Christopher Nolan (2010)
Revolutionary Road di Sam Mendes (2008)
Il cinema è il sogno collettivo dell'umanità, e come tutti i sogni porta in sè segni del futuro, specialmente di quello costruito dal sognatore. Viviamo chiaramente nell'era dell'Apocalisse e il cinema ce lo dice da tempo - è inarrivabile come segno il rombo di Melancholia che si avvicina. Nel fotogramma c'è la certezza assoluta della fine, e c'è la coscienza che anche al cospetto della fine è possibile non chinare la testa di fronte al reale, insieme. La prima questione quindi è la coscienza della fine. Nè Shannon nè Nichols ad esempio sono mai tornati più in alto della lucida sofferenza di Curtis.
Eppure
Le vent se lève! . . . il faut tenter de vivre!
E dentro l'apocalisse lottare con tutte le proprie forze, ad esempio per seppellire un figlio che si sa non essere il proprio, fino a che una mano non spunti dall'acqua (e dal bordo dell'inquadratura) per tirarci in salvo. E infine, forse, rinascere nudi e rasati come Denis Lavant e scoprire che ogni Apocalisse è solo una trasformazione e siamo pronti per iniziare una nuova storia.
Melancholia di Lars Von Trier (2011)
Take Shelter di Jeff Nichols (2012)
Holy Motors di Leos Carax (2013)
Si alza il vento di Hayao Miyazaki (2014)
Il figlio di Saul di László Nemes (2016)
Un occhio, delle parole (film... filmare...), la nascita di un nuovo corpo su base e imitazione di un vocabolario collaudato ma un corpo che è inevitabilmente qualcos'altro, qualcosa di altro. Sotto la pelle del cinema c'è la nuova carne che non parla ma si mostra, si rivela a se stessa testando la propria meccanica e studiando la propria anatomia come una Scarlett Johansson esplosiva e imperfetta davanti a uno specchio che restituisce un'immagine sconosciuta, da esplorare, priva di sintassi e forme di racconto, da (ri)comporre dentro la visione. Corpo-immagine vergine, come un arredo di scena che prende fuoco - involontariamente - davanti alla cinepresa che non stacca. Una logica dello sguardo da rifondare nell'inquadratura sospesa delle mani di Ryan Gosling, osservate ossessivamente; nelle soggettive senza soggetto di Brady Corbet; nei fantasmi digitali (cosa e chi stiamo vedendo?) che minano la sessualità di Kristen Stewart. Scrivere altri nomi su "ogni carne consentita", sul mito del fare cinema: ma è una pratica superata. Nel futuro post-verbale che ci crolla addosso, pochi registi vanno lì dove serve, seducono, spogliano e portano il medium nel loro campo: sotto la pelle, dentro la carne, dove implode tutto.
Under the Skin di Jonathan Glazer (2013)
Solo Dio perdona di Nicolas Winding Refn (2013)
Maps to the Stars di David Cronenberg (2014)
The Childhood of a Leader - L'infanzia di un capo di Brady Corbet (2015)
Personal Shopper di Olivier Assayas (2016)
Dieci anni di Ondacinema, dieci anni di Cinema. Non solo, ma di cinema vissuto assieme, vale a dire discusso, rivisto, ripensato. E, in più, il momento della scrittura, che non è un gesto a parte, ma l'atto stesso del prodursi di un'idea. Si vede, allora, quanto scrivere e parlare di cinema possa aver significato per noi che abbiamo tentato di tenere le fila di questa storia lunga un decennio. Impresa donchisciottesca, ma Alain Resnais ci aveva già avvertito con "Gli amori folli", opera senza bordo, che, come un romanzo dell'Herbert Quain di Borges, schiude a rizoma le possibilità di un racconto che è già tutti i racconti possibili, sulla scia dell'estro, della leggerezza, della divagazione. Un film pronto a sfaldarsi in ogni momento, come il "Personal Shopper" di Assayas, coi suoi segni sparsi, le improvvise deviazioni, la meravigliosa ingenuità di apparizioni, che ci rammentano le assolvenze con cui Weerasethakul dava corpo ai suoi fantasmi. Lo sguardo ferito di Kristen Stewart ci accompagnerà a lungo, come, del resto, quello di Adele, di cui ancora ci chiediamo cosa abbia trovato oltre quell'angolo di strada.
In questo racconto di racconti, anche il reale si confonde, diviene narrazione. E se, infine, Meryl Streep decidesse di non pubblicare i Pentagon Papers? Per un attimo, mentre Spielberg le ruota attorno nell'arena di voci del suo studio, lo temiamo, in barba alla storia. Dubitiamo, per un istante, del mondo e siamo nell'attimo del cinema, in uno squarcio di infinite possibilità.
Come in un film di Godard, histoire(s) du cinéma: toutes les histoires.
Gli amori folli di Alain Resnais (2009)
Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti di Apichatpong Weerasethakul (2010)
La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (2013)
Personal Shopper di Olivier Assayas (2017)
The Post di Steven Spielberg (2018)
L'immagine tratta da "Synecdoche, New York" rappresenta lo spirito di questo decennio di cinema, dove la realtà, nel momento della sua finzione, è modificata e, allo stesso tempo, ne viene commemorata la sconfitta. Il cinema si pone domande senza trovare risposte per un mondo in continua mutazione, in cui gli elementi cognitivi si sovrappongono, si de-strutturano, e vanno verso un'implosione inevitabile. L'uomo è sempre al centro, ma più debole, Sisifo nudo, di fronte alla vita che scorre in una veloce sequenza in cui non si riescono a cogliere tutti i dettagli, in una visione bulimica che cerca di rinchiudere il mondo all'interno di un set. E si arriva al fatidico The End senza una presa di coscienza completa. Il cinema di Charlie Kaufman (così come di tanti altri autori di questi anni) diventa emblematico, sineddoche appunto, di una comunità in cui i valori sociali si modificano troppo velocemente, subendone gli effetti, virtualizzando le relazioni parentali, dis-umanizzando il mondo. Evoluzione tecnologica che cammina di pari passo con l'involuzione emotiva; rapporti sociali che migrano dalla realtà nell'immaginario collettivo creato artatamente da reti informatiche. Un cinema che racconta una crisi epocale, dovuta a una metamorfosi che arriva nel profondo dell'anima. E ciò che rimane sono persone-personaggi, caoticamente presenti nei pressi di una tomba vuota (e piena) per assistere al funerale della Storia.
Synecdoche, New York di Charlie Kaufman (2008)
The Social Network di David Fincher (2010)
Gravity di Alfonso Cuarón (2013)
Sicario di Denis Villeneuve (2015)
Neruda di Pablo Larrain (2016)
Ogni fotogramma è un'affezione, ogni film l'attributo particolare di un'unica sostanza-cinema, che si snoda a spirale verso l'alto, verso la ricerca di un senso, verso il tentativo di rispondere al fondamentale interrogativo sulla propria essenza. Così, il cinema si chiede cosa sia il cinema, e la domanda risulta morfologicamente simile a quell'altra, riguardante l'Essere e il Tempo, riguardante la vita: spirale infinita sulla quale ogni pellicola proietta un varco di luce, una differente inquadratura e dunque una direzione.
Così come nel fotogramma tratto dall'opera malickiana ogni vetrata si inserisce in un progetto unitario, che le comprende tutte e si snoda verso la luce, così ogni opera si inserisce in un percorso-cinema, si interroga su una ragione particolare e contribuisce all'architettura del tutto. La hybris fincheriana, le pulsioni di vita e morte che regolano l'horror di Mitchell, la domanda esistenziale che si pone Bela Tarr e l'estetica violenta di Nicolas W. Refn si inseriscono in un progetto in grado di farci guardare con maggiore coscienza a questo decennio di cinema e a noi stessi. Ma il cinema non si esaurisce nei suoi modi e nelle sue emanazioni: diventa principio trascendentale, che risulta dalle sue parti, ma che allo stesso tempo ne coordina il moto verso l'alto, e possiamo capirlo soltanto accettando, a partire dalla critica, questa visione unitaria e totalizzante.
The Social Network di David Fincher (2010)
The Tree of Life di Terrence Malick (2011)
Il cavallo di Torino di Béla Tarr e Agnes Hranitzky (2011)
It Follows di David Robert Mitchell (2014)
The Neon Demon di Nicolas Winding Refn (2016)
Non tutti sono cresciuti con un amore viscerale per il cinema. C'è chi come me - e sono sicuro altri - ha iniziato questa relazione morbosa con la settima arte un po' più tardi: per curiosità, per dovere, per caso. Le strade che portano all'amore sono imperscrutabili e oscure; su e giù per valli e monti, mari e spiagge, poi all'improvviso decidono di arrestarsi in un luogo ben preciso. Di storie d'amore, in questi dieci anni, ne abbiamo viste tante: belle e brutte, buone e cattive, felici e malinconiche. Quale miglior occasione, se non attraverso di esse, per descrivere i mutamenti nel costume, nel pensiero, nelle strutture della nostra società? Però, alla base, c'è sempre la ferma e semplice volontà di emozionare. A volte basta quella. Ogni tanto capita anche di provarlo sulla propria pelle, l'amore; ed è stupendo innamorarsi. C'è chi poi, come me, a un certo punto si è innamorato di un'arte, di un universo in grado di plasmare la nostra realtà; e ha avuto la fortuna di trovare uno spazio in cui (e delle persone con cui) poter dare libero sfogo alla sua passione. Allora io voglio ricordare cinque racconti, cinque splendidi racconti con protagonista proprio lui, il sentimento più famoso del mondo. Le storie d'amore, dopotutto, rimangono le più belle da vivere, da raccontare, da ascoltare, da vedere.
Carol di Todd Haynes (2015)
Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino (2017)
La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (2013)
Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore di Wes Anderson (2012)
Two Lovers di James Gray (2008)
Scrivere di cinema in questi dieci anni che cosa ha significato? Ha significato portare l'attenzione su autori come Assayas, Cuaron, Koreeda e Lav Diaz, che conquistavano la critica e i grandi festival; assistere al ritorno dei maestri più amati, come Hou Hsiao Hsien, Wong Kar-wai o Bertolucci; assistere all'affermazione anche internazionale di registi italiani come Garrone, Rohrwacher e Guadagnino; scoprire talenti come Nemes, Chazelle o Guerra, dei quali sentiremo parlare per altri dieci anni e forse ancora di più...
Scrivere per Ondacinema invece cosa ha rappresentato? L'occasione di scrivere di cinema con continuità, come avevo immaginato di poter fare sin da quando ero studente. In verità non lo ero già più quando, nell'estate del 2008, scrissi per il sito il mio primo pezzo (il film si intitolava "Rovine", un b-movie uscito in verità abbastanza frettolosamente, non avrei il coraggio di andare a rileggere cosa scrissi, ma ricordo che il pezzo era lunghissimo...). Quindi al sito e alla redazione va tutta la mia riconoscenza, per l'accoglienza e per questi dieci anni così importanti.
Gomorra di Matteo Garrone (2008)
Melancholia di Lars Von Trier (2011)
The Assassin di Hou Hsiao-hsien (2015)
Gravity di Alfonso Cuarón (2013)
Un affare di famiglia di Hirokazu Kore'eda (2018)
Che poi si potrebbe dire: siamo sempre all'alternativa fra i Lumière e Méliès. Il cinema come occhio sulla realtà, oppure come apparato magico che immagina mondi. In realtà, in questi 10 anni le opportunità offerte dal digitale hanno estremizzato l'archetipica doppia anima del cinema. Con "Avatar", Cameron è stato ancora una volta pioniere (lo fu già con "Terminator 2") realizzando un film ancora insuperato quanto a capacità di immergerci in un mondo alternativo, stupefacente, che si riflette sulla stessa identità del protagonista/sognatore. Al polo opposto si colloca Lav Diaz, con i suoi film di 10 ore, traguardo estremo di una modalità di lavoro sul Tempo in precedenza solo sporadica (Rivette, Tarr...), che ambisce ad avvicinare il cinema alla realtà tendendo alla coincidenza fra tempo filmico e tempo della vita.
Insomma, la forbice tra Lumière e Méliès non è la stessa di inzio Novecento. Si è allargata. E ciò che si colloca all'interno dello spettro ha assunto nuove sfumature. Le novità maggiori che il cinema del XXI secolo sta iniziando a offrirci riguardano l'interlocuzione fra la finzione e la realtà. Vale a dire, Lumière e Méliès si parlano, interagiscono. Questo fa Oppenheimer, cortocircuitando realtà e finzione nel magistrale "The Act of Killing". E anche due capolavori assoluti come "Amour" e "Neruda", pur radicati in tradizioni del XX secolo, sono opere sfacciatamente aperte al futuro. Larraìn fa collassare qualsiasi appiglio: narratore e opera si creano e si disfano l'un l'altra, di continuo, su infiniti livelli. Haneke ci provoca a vivere un dilemma morale lancinante, portandoci dentro al film: forse mai una drammaturgia tutto sommato classica era stata altrettanto forte nel chiamare in causa lo spettatore.
Avatar di James Cameron (2009)
Amour di Michael Haneke (2012)
L'atto di uccidere di Joshua Oppenheimer (2013)
From What Is Before di Lav Diaz (2014)
Neruda di Pablo Larraín (2016)
L'immagine vive. Respira dentro al respiro di chi guarda, cresce e assieme accompagna piano piano uno sguardo che nasce. Istruisce l'occhio alle strutture del pensiero, rivelandogli molto di se stesso grazie a un confronto con qualcosa di simile: pulsioni inconfessabili, sogni stellari, domande esistenziali e vertigini trascendentali. Gli mostra le architetture del mondo, spingendo la sua interiorità nell'esteriorità e lasciandolo immergere nel dilemma del tempo, nella fragilità dello spazio e nella verità del mistero. Scava nel profondo della sua essenza organica per avvertirlo riguardo alle grandi questioni, alla libertà, all'amore, alla morte, alla coscienza. Perché? Come? Nessuna risposta precisa o puntuale, questa è solo un'impressione. L'immagine è più che una forma, è un'idea che coltiva la mente di chi guarda. Che sia una corsa rabbiosa dispiegata nella notte, una danza senza suoni sul palcoscenico del tempo, un cerchio posato sulla superficie della coscienza, una poesia piegata come un origami lasciato ai margini del quotidiano o la distanza tra due visi separati dal mondo, l'immagine ricorda all'occhio il suo futuro. Come la scultura che scolpisce lo scultore.
Shame di Steve McQueen (2011)
Interstellar di Christopher Nolan (2014)
Arrival di Denis Villeneuve (2016)
Paterson di Jim Jarmush (2016)
First Reformed - La creazione a rischio di Paul Schrader (2017)
Nel decennio trascorso il cinema è diventato anche espressione di rapporti privati, depotenziati della loro ragione pubblica e sociale, divenendo espressioni interstiziali dell'organismo storico in cui l'uomo e il cinema mutano e progrediscono.
Una significativa rappresentanza di questo cinema è quello dei padri, figure che guidano le traiettorie dei loro discendenti e predispongono lo spettatore a una posizione di inferiorità psicologica. Esponendo i film in lista a una lente psicoanalitica, i padri si fanno istanze a colloquio con l'Io, una volta come arbitri intransigenti, altre come opprimenti esempi assecondanti le loro pulsioni. Spesso queste figure guida sono veri e propri attanti, conducono con eloquenza i propri discepoli ("The Master") oppure ne sanciscono i limiti con felici metodi punitivi ("Solo Dio perdona"); al contrario il padre esempio di "Childhood of a Leader" cresce un mostro, sotto la malcelata bugia che i legami famigliari siano saldi, quando in realtà la stessa consanguineità è in dubbio. Altre volte questa figura sfugge alla rappresentazione, come nell'indeterminatezza visiva che "Tony Manero" dipinge di Augusto Pinochet nonostante la sua presenza sia palpabile; o come nella meta trascendente alla quale tendere nel viaggio del pellegrino verso il proprio padre in "Knight of Cups".
Se, per gioco, proviamo a spostare questa lente sulla critica e sul cinema, in questi dieci anni chi scrive sui film è diventato l'Io instancabile guidato dalle pulsioni e dal rigore che il cinema sa ancora muovere internamente.
Tony Manero di Pablo Larraìn (2008)
The Master di Paul Thomas Anderson (2012)
Solo Dio perdona di Nicolas Winding Refn (2013)
Knight of Cups di Terrence Malick (2015)
The Childhood of a Leader - L'infanzia di un capo di Brady Corbet (2015)
Quando dieci anni fa iniziammo questo viaggio nel mondo della critica cinematografica eravamo un gruppo di perfetti sconosciuti: pochi, spiantati e malati di cinema. Eravamo bulimici di ogni tipo di film: vedevamo tanti, tantissimi lungometraggi ogni settimana e ne scrivevamo su un forum, la nostra redazione virtuale, per discuterne insieme. Ora, noi che eravamo i pionieri siamo gli "anziani" di un gruppo che si è allargato, si è arricchito di sensibilità molto diverse (che ormai coprono varie generazioni). Ondacinema, per chi scrive, è stato sempre il porto sicuro, il rifugio dove poter sfogare la propria passione per l'arte cinematografica, ma anche il luogo dove poterla soddisfare insieme a un gruppo di persone, proveniente da tutta Italia, accomunato da questo interesse, prima di tutto. E dopo tutto questo tempo passato insieme, l'amicizia è diventata un legame che va oltre il grande schermo. E allora concentriamoci: quali sono i titoli che hanno segnato il mio decennio di cinema? Prima di tutto, una menzione a un autore, anziché a qualche opera in particolare: Richard Linklater, il cineasta che più di tutti è passato da oggetto misterioso amato dai cinefili a gran burattinaio dei più importanti cambiamenti del cinema americano e, di conseguenza, mondiale.
E poi, eccoli, i film. La lezione di Jonathan Demme su che cosa vuol dire girare un film indipendente che si faccia manifesto di emozioni fortissime; l'accorato omaggio di J.J. Abrams all'universo degli anni 80, al maestro Spielberg e al cinema dell'infanzia; il surrealismo immaginifico di Leos Carax, mai così acuto nel riflettere sullo stato dell'arte contemporanea; la trasformazione annichilente e inaspettata dello stile e del linguaggio di Quentin Tarantino, giunto a risultati ormai irraggiungibili per chiunque altro. E poi, ci resta qualcos'altro: il cinema monumentale di Michael Mann, che trasforma il digitale in pura poesia dell'azione e dell'immagine.
Rachel sta per sposarsi di Jonathan Demme (2008)
Nemico pubblico - Public Enemies di Michael Mann (2009)
Super 8 di J.J. Abrams (2011)
Holy Motors di Leos Carax (2013)
The Hateful Eight di Quentin Tarantino (2016)
Son tempi, dal 1895 a dire il vero, in cui il cinema lo si dà per morto con una leggerezza quantomeno curiosa. Il cinema inteso come film in sala (e, se si potesse, non dovrebbe esserci altro tipo di fruizione) ovviamente massacrato a suon di Netflix, Prime e compagnia bella. Il cinema come linguaggio, come arte, come informazione culturale, come industria, come intrattenimento etc.
Negli ultimi dieci anni il cinema sarà morto altrettante volte, eppure è sempre lì, per noi che in fondo non ne possiamo fare a meno. Perché al cinema riconosciamo uno status particolare, di poter essere così tante cose insieme, così complesso e stratificato da diventare un altro-mondo.
E allora scelgo un'immagine portata dal sentimento prima ancora che da altre riflessioni. L'emozione che suscita un film non è materia critica (diciamo che non dovrebbe esserlo), ma se la richiesta è pensare a un'immagine degli ultimi anni che abbia un peso, un valore, allora non posso che affidarmi alla sfera dei sentimenti.
"Dawson City - Il tempo tra i ghiacci" è un film straordinario, che nel raccontare una storia riflette sulla storia stessa, e riflette sul linguaggio cinematografico. Aprendo quello che è un raro vortice estatico. Non è meta-cinema o post-cinema, togliamo ogni suffisso contemporaneo per godere delle immagini e del senso che queste immagini ci sbattono in faccia. Scelgo un fotogramma in apertura di film, che mi pare beffardamente godardiano, non fosse che è invece pura informazione documentaria.
Belluscone - Una storia siciliana di Franco Maresco (2014)
Cave of Forgotten Dreams di Werner Herzog (2010)
Dawson City - Il tempo tra i ghiacci di Bill Morrison (2016)
Faust di Aleksandr Sokurov (2011)
Lourdes di Jessica Hausner (2009)
Dieci anni non sono pochi per una webzine, così come per il sottoscritto, ma anche per il cinema. Sempre più marginalizzato, serializzato, diffuso, spiaccicato in un flusso. In questa epoca di crisi d'identità e prove di reazione tali tematiche non possono che essere molto sentite nel medium, in forma di un problematico rapporto col passato e di tentativi più o meno riusciti di venirci a patti, venendo a patti con sé stessi. Che ci sia solo il nulla cosmico o una (vaga) possibilità di illuminazione poco importa, a differenza delle tecniche adoperati per giungervi, servendosi in modi molteplici del montaggio per mettere assieme realtà incoerenti (e inconsistenti). Perché ciò che comunica la cinquina esemplificativa è che ciò che esiste di questo retroterra mitico è solo il sehnsucht provato, una nostalgia spesso di maniera e non sostanziata, rivelante quel passato in tutta la sua impalpabilità, schiacciato come il faccione di bronzo dell'inesistente Mussolini in "Vincere" e ricostruito, con grande sforzo e arbitrarietà, a partire dalla sua inequivocabile assenza come ne "L'image manquante". Spiace pertanto che dalla scelta dei cinque film succitati siano escluse le pellicole uscite nella seconda metà del 2018: quale migliore celebrazione delle capacità del cinema di estrarre dalle "falde del passato" e (ri)costruire i trascorsi che il passato, presente e futuro ultimo film di Orson Welles? Sic transit gloria mundi.
Vincere di Marco Bellocchio (2009)
The Tree of Life di Terrence Malick (2011)
Il cavallo di Torino di Béla Tarr e Agnes Hranitzky (2011)
L’immagine mancante di Rithy Panh (2013)
It Follows di David Robert Mitchell (2014)