"Un affare di famiglia", che regala a Kore-eda il suo primo, meritato riconoscimento importante, e al cinema giapponese una nuova Palma d'Oro dopo due decenni, è un film che cambia pelle e ritmo nell'ultimo quarto, dopo aver raccontato la quotidianità di quella che appare, per circa un'ora e mezza, una sorta di famiglia allargata, dai legami non proprio chiari, ma all'apparenza comunque di natura familiare. E che sono, prima di tutto, legami di natura solidale. Sin dalla prima sequenza siamo avvertiti che le relazioni non sono esclusive, sono aperte al mondo esterno, tese all'accoglienza: proprio all'inizio assistiamo infatti all'"adozione" (di fatto) di una bambina, da parte di un uomo e di un bambino che sembra suo figlio, di ritorno da uno dei furtarelli in un supermercato che scopriremo essere la loro principale fonte di sostentamento. Un'"adozione" che avviene in tutta evidenza per ragioni a cui è estranea ogni logica di sfruttamento, per puro soccorso caritatevole. E difatti, pur trattandosi di una "bocca in più da sfamare", come viene incidentalmente osservato, la piccola viene accolta da tutti con affetto, in un quadro di solidarietà che sembrerebbe riflettere la capacità, da parte di chi è disagiato, di saper meglio leggere nell'animo del prossimo. E' proprio questo che suggerisce una delle scene più delicate del film, quella della chatroom in cui la ragazza che lavora in un peepshow incontra di persona un suo cliente: Kore Eda parla di solidarietà fra solitudini, e con brevi digressioni che ritraggono altre solitudini, apre il film ad altri contesti, personaggi, realtà esterne al microcosmo familiare.
Il film è uno squarcio - l'ennesimo nella filmografia di Kore-eda - su un Giappone marginale, in cui le tensioni sociali sono messe a fuoco dal basso. Quello del divario socio-economico è un tema che il regista nipponico ama incrociare alla sua tematica prediletta, quella dei rapporti fra generazioni diverse. "Un affare di famiglia" condivide il tema della genitorialità in particolare con "Father and Son": si concentra esplicitamente sul confronto fra l'affetto tra figli e genitori "d'elezione", da un lato, e l'affetto (mancato, o carente) da parte dei genitori di sangue (più benestanti) per i propri figli. Come abituale nel cinema di Kore-eda, il tema non manca di essere affrontato nei dialoghi, con attenzione quasi didascalica.
Come quello di Ozu, anche quello di Kore-eda è un cinema soprattutto di interni. E fate caso a un aspetto, in particolare: gli interni dei film di Kore-eda, quanto meno sono abbienti le famiglie che ci vivono, tanto più sono stipati, congestionati, ricolmi di oggetti di varia natura, accumulati senza gusto. Opprimenti. Eppure, questo disagio nell'accumulo degli oggetti non è semplicemente indice di status economico, in quanto - a ben pensarci - l'assenza di "bello" che esprimono gli interni non fa che riflettere l'assenza di senso estetico che pervade la cementificazione urbana che deturpa il Giappone e che colpisce tutti, non solo determinati gruppi sociali. Nel guardare un film di Kore-eda si assiste a una società a quanto pare dimentica dell'importanza della grazia estetica - circostanza particolarmente significativa, dal momento che si tratta della civiltà nipponica, in cui tradizionalmente ogni dettaglio formale riveste o dovrebbe rivestire un valore sostanziale. Delle bellezze paesaggistiche del Giappone ci vengono offerti solo pochi sprazzi: qua e là un campo verdeggiante, magari attraversato da uno di quei treni corti, a due o tre vagoni, cari a Kore-eda quanto a Ozu.
Torniamo alla nostra "famiglia". E' una famiglia di "taccheggiatori": così va tradotto il titolo internazionale "Shoplifters", che espunge l'altro termine presente nel titolo giapponese, il quale per esteso dovrebbe suonare "famiglia di taccheggiatori" (edulcorato nel titolo scelto dai distributori italiani). Sono, in effetti, dei ladri. Vivono di espedienti, ai margini o fuori dalla legalità. Dei fuorilegge, dunque. Non solo per il modo in cui si procurano il cibo (a proposito: si mangia spesso e di gusto). Anche dal punto di vista sociale, questa "famiglia" si colloca in condizioni di consapevole clandestinità rispetto al consesso civile. Così come il regista indica chiaramente i limiti morali del microcosmo che descrive (a più riprese, ad esempio, pone l'accento sull'equivocità di educare dei bambini al furto), non disdegna neppure tocchi di ironia, nel tratteggiare gli stessi limiti morali: come quando si sofferma sul disappunto della "nonna" che, contati dei soldi che le son stati elargiti, manifesta disappunto trattandosi di una cifra per lei troppo bassa.
Nella sezione finale del film, si intravede l'influenza dei toni noir del precedente film di Kore-eda, quel "The Third Murder" che avevamo molto apprezzato meno di un anno fa, in concorso nel 2017 alla mostra del cinema di Venezia. Il rapporto fra le due pellicole si fa esplicito nel momento in cui assistiamo a un dialogo attraverso un vetro nel parlatorio di un carcere, esattamente come avveniva in molte scene del film precedente. Tutta l'ultima parte di "Un affare di famiglia" è una resa dei conti, un disvelamento, prima per lo spettatore, poi per i personaggi stessi. Numerosi gli interrogatori: primi piani frontali, fissi, inquisitori - a volte, sottolineati da lenti, quasi impercettibili movimenti di macchina a stringere sui volti. E' nel finale che vengono a galla i dilemmi morali su cui il film è costruito. A prima vista si sarebbe portati a credere che Kore-eda stia mettendo in scena il conflitto fra il senso comune e la Legge, che appare ingiusta in quanto incapace di riconoscere e apprezzare l'eccezione. In realtà, siamo in territori distanti da Ken Loach, più vicini semmai ai Dardenne, o ancor più forse a Kieslowski. Per molti versi, infatti, non possiamo che riconoscere le ragioni delle pubbliche autorità, dei servizi sociali - così come sin dall'inizio Kore-eda ci ha indicato chiaramente i limiti etici di fondo su cui si reggeva il suo consesso umano. Ma la cifra stilistica di Kore-eda, intrinsecamente giapponese e poco propensa a lasciarsi accostare ad autori occidentali, sta nell'armonia pervasiva, nella capacità di evitare qualsiasi retorica drammatica. E' su questo crinale che il regista si gioca le carte migliori e ci presenta il fulcro del dramma, mettendoci faccia a faccia con l'irresolubilità dei dilemmi che ha sin qui rappresentato.
Ci guida così per mano verso la sequenza conclusiva, forse una delle più struggenti del suo cinema. Protagonisti assoluti rimangono i bambini, che come in altri film (si pensi a "I wish", a "Nessuno lo sa" e naturalmente a "Father and Son") diventano chiave di lettura privilegiata dell'opera. Un "padre" corre appresso al bus che sta portando via un bambino che non è suo figlio, ma il bambino, senza poter più essere ascoltato, si volta indietro e mormora "papà...". E la bambina dell'inizio, tornata sola, viene inquadrata all'interno di quello stesso balcone dove l'avevamo vista, la prima volta, dall'esterno. Nel più completo silenzio. Dalle grate di quel balcone che sembra farle da prigione, lei guarda fuori, ma, come nel caso del "fratello", nessuno raccoglie il suo sguardo malinconico.
cast:
Kirin Kiki, Lily Franky, Sōsuke Ikematsu, Sakura Andō
regia:
Hirokazu Kore-eda
titolo originale:
Manbiki Kazoku
distribuzione:
Bim Distribuzione
durata:
121'
produzione:
AOI Promotion, Fuji Television Network, GAGA
sceneggiatura:
Hirokazu Kore-eda
fotografia:
Ryūto Kondō
montaggio:
Hirokazu Kore'eda
costumi:
Kazuko Kurosawa
musiche:
Haruomi Hosono