Quando, durante la scorsa Mostra del Cinema di Venezia, si diffuse la voce del ritiro di Hayao Miyazaki, in molti si sono ricordati che non era la prima volta che veniva fatto un annuncio del genere. Già all'indomani di "Principessa Mononoke" (1997) il Maestro meditava sul possibile addio ma poi arrivò il successo globale de "La città incantata", con l'Orso d'oro a Berlino e l'Oscar come miglior film d'animazione: insomma, non era ancora il momento giusto per andarsene. Stavolta, però, la notizia è stata più volte confermata da Miyazaki: "Si alza il vento" sarà la sua ultima regia. Pertanto, questo suo undicesimo lungometraggio è stato salutato sia come un'anomalia nel suo percorso autoriale, più vicino al cinema del socio Isao Takahata[1], sia come un testamento spirituale. Invero, proprio l'andare in controtendenza rispetto a uno stile che predilige il fantastico e la fantasmagoria visiva rende "Si alza il vento" l'opera più intima e personale di Miyazaki, che incide nelle tavole disegnate a mano le stimmate del proprio testamento.
Sappiamo bene che "Il mio vicino Totoro" aveva come spunto l'infanzia dell'autore, vissuta lontana dalla madre che si trovava in sanatorio per curare il morbo di Pott (una forma di tubercolosi che colpisce la colonna vertebrale), e che dietro i cupi scenari bellici del "Castello errante di Howl" si celavano i precoci ricordi dei bombardamenti, l'orrore di una guerra che per il pacifista Miyazaki non è mai una necessità: e si potrebbe andare avanti, spigolando le altre opere e trovando le convergenze biografiche che, insieme alle ossessioni tematiche, hanno dato vita a uno dei mondi cinematografici più rilevanti degli ultimi trent'anni, nel quale l'immaginazione e la fantasia trasfigurano e allegorizzano problematiche di levatura filosofica (l'aspetto che più di ogni altro ha sorpreso il pubblico occidentale, abituato alle fiabe Disney che si sono fatte via via più rassicuranti). Ma reinventando le vicende biografiche di Jirō Horikoshi, uno degli ingegneri che ha rinnovato l'arretrata aeronautica giapponese, Miyazaki getta la maschera o, per meglio dire, utilizza un alter-ego umano nel quale potersi specchiare e attraverso il quale parlare con sincerità della sua vita e delle sue ambizioni. Cosicché, quando nella prima parte facciamo la conoscenza di Jirō, che si attesta precocemente all'idea di creare un velivolo sotto l'egida spirituale del conte Giovanni Battista Caproni, stiamo conoscendo in realtà Hayao, il quale, oltre a essere appassionato di aviazione (suo padre era il direttore della Miyazaki Airplane che fabbricava i caccia progettati da Horikoshi), decise molto presto di diventare un disegnatore avendo come modello il mangake Osamu Tezuka[2].
L'attacco onirico di "Si alza il vento", con il protagonista che sogna di pilotare un caccia, finché un manipolo di mostri-aviatori non lo abbatte, ci conduce al fil rouge della narrazione, quella del sogno che si tramuta in incubo, della possibile caduta di Icaro che desiderava volare: al contempo, la sequenza, bellissima e muta, sembra confermare l'ipotesi che si stia assistendo all'"8 ½" miyazakiano.
Una volta studente, Jirō inizia a essere sempre più arso dall'ambizione, ammettendo nella sua vita solo la compagnia del collega Honjō, col quale conversa di ingegneria aeronautica, delle difficoltà sociali ed economiche del Giappone, fumando insieme un'indefinita quantità di sigarette: per il resto, ogni attimo della giornata, dal mangiare sgombro al fare calcoli matematici, viene dedicato a un progetto che solo dopo molti anni potrà veder realizzato. In un sogno, Caproni gli confesserà che sta per ritirarsi, poiché i suoi dieci anni di creatività, validi per il progettista come per l'artista, si erano conclusi e che ora toccava a lui essere abile nel non dissiparli. A questo punto, l'identificazione è completa: Miyazaki che ci guida per mano nella progettazione di un aereo, con l'insuperabile ricchezza di dettagli - tecnici - che solitamente riserva agli spiriti o ai magici elementi della natura, non fa altro che mostrarci in modo pratico il suo sogno, quello di poter disegnare in indipendenza creativa, di immaginare e realizzare mondi alternativi nei quali perdersi. Jirō, esattamente come colui che ne canta le gesta, è un visionario immerso nei suoi sogni che, manifestandosi, fratturano l'impianto realista del racconto con improvvisi trasvoli immaginativi. Il segno grafico dello slittamento dalla realtà verso la visione è dato dalla sovrimpressione: si veda la sequenza in cui il protagonista bambino guarda le stelle con la sorella e sul suo volto si materializzano, in trasparenza, degli aerei volare nel cielo; in altri casi intervengono veri e propri episodi onirici di incredibile suggestione evocativa, come quello in cui Jirō osserva, di notte, un aereo giapponese abbattuto sbriciolarsi in mille rivoli di fuoco che cadono sul manto innevato. La composizione cromatica del cielo, che in Miyazaki è sempre foriero di novità e di avventure, è acquarellata in maniera cangiante, passando dall'azzurro a quella densità pittorica donata dalla luce del tramonto; tuttavia, mai come in questa occasione, il regista si è concentrato nel dare vita a luoghi reali attraverso i quali poter riflettere anche sulla storia del Giappone e, a latere, sulle autodistruttive manipolazioni che si compiono sui progressi tecnologici, in barba al popolo che brulica per le strade e che soffre la povertà. Ma la cosiddetta realtà si sostanzia come lo spazio che accoglie la concretizzazione dell'unico elemento magico dell'uomo, la capacità di sognare. Di conseguenza, "Si alza il vento" non poteva avere un set fantastico, anche a costo di pagare pegno per un'architettura narrativa più convenzionale, spiazzando lo spettatore affezionato ai mondi in cui realismo e magia si ibridano e dei quali Miyazaki è uno dei rari costruttori mitopoietici.
Il plot romantico, estraneo alla biografia di Horikoshi, è basato su "Kaze Tachinu" (traduzione giapponese di "Si alza il vento", da un verso de "Le cimetière marin" di Paul Valéry), romanzo di Tatsuo Hori, il quale attingeva alla sua travagliata storia d'amore con una ragazza malata di tubercolosi. Il primo incontro tra il protagonista e Nahoko avviene durante il terremoto del Kanto del 1923, che il regista mette in scena come una sorta di tsunami terrestre, con un misterioso boato che si sprigiona nell'aria avvertendo dell'imminente catastrofe.
Nella seconda parte, Jirō, ormai ingegnere, va in villeggiatura re-incontrando la ragazza che aveva aiutato anni prima e in questa oasi di pace, che rimanda alla "Montagna incantata" di Thomas Mann[3], sboccia l'amore tra i due giovani. Nemmeno qui manca l'elemento ossessivo per la progettazione, ma è commutato in toni scanzonati, facendo dell'aereo (di carta) il messaggero d'amore che lega, tramite le sue imprevedibili traiettorie, le anime dei due ragazzi. In contiguità all'identificazione di cui si diceva prima, il regista mette in rilievo l'ardore di Nahoko (degna eroina mizoguchiana) e la sofferta assenza di Jirō, le cui energie sono prosciugate dal lavoro, totalmente incapace di rinunciare alle proprie ambizioni.[4] A ulteriore conferma che Miyazaki non è solo un animatore di genio ma un cineasta sopraffino, va sottolineata la tenera compostezza con cui l'autore tratteggia il rapporto tra i due, tenendosi quasi sempre a un passo di distanza; memore della lezione dei maestri Ozu e Naruse, usa inquadrature ad altezza tatami e campi medi che disegnano con semplicità l'affetto più sincero, come nella scena in cui il giovane, tornato a casa, si rimette subito a lavorare pur tenendo la mano all'amata, malata di tisi.
Quando il prototipo del Mitsubishi Ka-14 si libra finalmente in cielo senza perdere pezzi, l'ingegner Horikoshi ottiene l'agognato trionfo, ma l'uomo non ha alcun moto di esultanza: una folata di vento lo distrae, premonizione della prossimità della morte e di una guerra ormai inevitabile, di una catastrofe umana e storica di cui si è reso complice. L'egocentrico e autoindulgente Jirō viene quindi posto di fronte a quella verità che si è sempre rifiutato di vedere, rifugiandosi nella fittizia armonia del proprio iperuranio; nella sequenza conclusiva, camminando in quella terra di mezzo che è il regno del sogno, si accorge di passare tra i rottami dei suoi aerei: "Nemmeno uno è tornato", confessa mestamente a Caproni. Lo scenario, intriso di malinconica poesia e di un amaro senso di sconfitta, viene però vivificato da un incontro inaspettato, mentre in sottofondo cresce il tema principale composto da Joe Hisaishi, il cui dialogo tra archi e fiati fa vibrare di commozione questo magnifico commiato. Hayao Miyazaki sa quando far salire la temperatura emotiva delle proprie opere e il finale di "Si alza il vento" è l'ultimo colpo al cuore della sua arte. Facendo propri i versi di Valéry, "Le vent se lève!... Il faut tenter de vivre!", il Maestro ci lascia con un mantra profondo e maturo, invitandoci a non soccombere nemmeno davanti a quei sogni che divengono il tormento della nostra esistenza. Perché solo se i sogni si cristallizzano nella realtà, l'uomo ha compiuto il proprio destino.
[1] E anche Takahata, che ha quasi 79 anni, potrebbe essere vicino al ritiro; si tratterebbe dunque di un passaggio generazionale epocale sia per lo Studio Ghibli che per il mondo degli anime.
[2] Miyazaki conosce bene anche la storia di Caproni, difatti il nome del suo Studio proviene dal "Ghibli" o Caproni Ca.309, bimotore progettato dal pioniere italiano.
[3] Horikoshi, una sera, incontra e conversa con un gentiluomo tedesco in fuga dal regime nazista che si chiama Castorp, e Hans Castorp è il nome del protagonista del romanzo di Thomas Mann.
[4] Pare quasi che l'autore faccia un inconscio mea culpa, avendo spesso sacrificato gli affetti in favore di un'attività febbrile vissuta in maniera ossessiva. È infatti noto che il talento di Miyazaki sia pari solo alla maniacalità perfezionista con la quale cura le sue opere, osservando ritmi stakanovisti (sostenuti fin da giovane) e disposto a non tornare a casa per più giorni pur di terminare il proprio lavoro. Senza contare il trauma per la prematura scomparsa dell'amico e pupillo Yoshifumi Kondō (avvenuta nel 1998, a ridosso dell'uscita di "Principessa Mononoke"), di cui si sentì responsabile, e le frizioni avute col figlio Gorō, ai tempi della produzione de "I racconti di Terramare".
regia:
Hayao Miyazaki
titolo originale:
Kaze Tachinu
distribuzione:
Lucky Red
durata:
126'
produzione:
Studio Ghibli
sceneggiatura:
Hayao Miyazaki
fotografia:
Atsushi Okui
montaggio:
Takeshi Seyama
musiche:
Joe Hisaishi