Cercare di anticipare e decifrare all'istante la "mappa" di David Cronenberg in questo inizio di millennio richiede uno sforzo notevole. Da quando il body horror ha lasciato progressivamente spazio a melodrammi passionali, torbide ricerche sulla psicoanalisi, a pungenti apologhi sul capitalismo, qualcosa è inevitabilmente cambiato nel fare cinema dell'autore canadese. Oppure no? A voler prendere in considerazione sia le sue opere più rappresentative, sia quelle apparentemente estranee, non si può negare come l'intera carriera del regista sia, alla fine, di una coerenza straordinaria e questo prova che la repentina e continua trasformazione del regista non riguarda certo il contenuto. Ogni singolo fotogramma può tranquillamente coesistere all'interno di un altro, anche tra pellicole differenti. Questo perché la sua cifra stilistica riconduce sempre a una mappatura circoscritta, connessa da fili sottili e invisibili che riconducono irrimediabilmente alle medesime tematiche: il corpo, la mutazione e il deforme, l'innata natura sessuale, l'infezione virale, la morte. Non può essere altrimenti in "Maps to The Stars", il suo diciannovesimo lungometraggio in quarant'anni, in concorso al 67° Festival di Cannes. È piuttosto la forma a spiazzare ogni volta lo spettatore. A spiazzare così tanto da non riuscire, in certi casi, a riconoscere la matrice cronenberghiana dietro a trasformazioni radicali, a involucri patinati mascherati da simbologie sempre più enigmatiche e intriganti.
"Maps to The Stars" è una storia putrida, sorretta da personaggi mostruosi, ambientata in una Hollywood malata. Havana è un'attrice messa in secondo piano dalla spietata legge dello star system: è infelice, paranoica, egoista, materialista, ossessionata dal fantasma della madre, che in vita ha abusato di lei sessualmente. I coniugi Weiss sono in realtà fratello e sorella: Sanford è un avido ciarlatano televisivo, Cristina è l'abulica manager del figlioletto, Benjie, teen star tossicodipendente che infesta le inquadrature con sudici sproloqui, perseguitato dal fantasma del suo stesso senso di colpa. I Weiss hanno anche una figlia, Agatha, rimasta a lungo rinchiusa in un ospedale psichiatrico per aver appiccato un incendio nella loro casa, ora decisa a "chiedere ammenda" alla sua famiglia. A chiudere la torbida girandola di personaggi nel racconto è Jerome, autista di Limousine e aspirante sceneggiatore, alter ego dello sceneggiatore reale della pellicola e unica personalità che non appare deforme alla lente della macchina da presa. La storia di queste vite ripugnanti evolve sempre più in maniera meschina, volgare e lercia, accelerando lo stadio della stella di Hollywood, già non più fulgida, e destinata a implodere in una nana bianca.
Almeno nell'intento, il racconto di Wagner parte con un handicap evidente, visto che lo sgretolamento e infine la caduta dell'impero cinematografico losangelino nella sua amoralità e corruzione non è materiale per così dire "freschissimo." In origine vi erano i cadaveri a occupare le piscine delle star hollywoodiane, come nel capolavoro di Wilder "Viale del tramonto" (ora sono i fantasmi). Poi arrivarono le inquietanti visioni oniriche figlie della nostra epoca, quelle di Lynch in "Mulholland Drive" e "INLAND EMPIRE". Recentemente c'è stato il ritorno di Monte Hellman che ha allestito un metacinema dove realtà e finzione si alternano scatenando pericolosi effetti ("Road to Nowhere") mentre Paul Schrader ha adattato un romanzo malato di Bret Easton Ellis ("The Canyons") per mettere in scena una cupa visione di sesso e morte all'interno della dream factory.
La chiave di volta nella sceneggiatura di Wagner è allora, senza ombra di dubbio, nella esagerata schiettezza nel rappresentare una disaffezione umana che ha del diabolico, nella forma caricaturale e ostentata di una Hollywood letteralmente infernale, lambendo momenti surreali e grotteschi al punto tale da non poter definire l'opera propriamente un dramma o una tragedia. "Maps to The Star" potrebbe essere una commedia nera capace di far ridere, come ha anche confermato il regista in una recente intervista, potrebbe essere un horror, un thriller. Potrebbe essere un bizzarro documentario per il modo asettico, a tratti svogliato del regista di girare con uno stile elementare, piatto. Per Cronenberg è stata l'occasione per ribaltare tutto completamente e nuovamente spiazzando ancora una volta il proprio pubblico. "Maps to The Star" è una pellicola che obiettivamente sintetizza in maniera efficace la forma mentis di un jet set in stato terminale e corroso da una brutalità raccapricciante, dove il desiderio si materializza unicamente nel successo e nei soldi, e si è disposti a tutto pur di riuscire ad ottenerli, senza vergogna. E senza troppe elucubrazioni, Cronenberg, di riflesso, si limita ad esaltare l'abominio dello schifo mediante orge, masturbazioni, incesti, peti in bagno, esultanze di fronte alla morte di un bambino, dialoghi insani (la fan disposta ad acquistare la merda del proprio divo). E nel parossismo della violenza, i padri picchiano duro le figlie e i bambini cercano di uccidersi tra loro. Lo sguardo più terrificante del nuovo lavoro cronenberghiano è proprio questa mostruosa deformità della fanciullezza nel contesto del circuito hollywoodiano un po' come le strane creature partorite da Nola Carveth in "Brood".
Paradossalmente, non solo l'immagine di Hollywood ma anche la pellicola stessa è destinata a implodere di minuto in minuto. Il racconto si dissolve nel loop delle continue peripezie infernali vissute dai personaggi, fino all'escalation finale, senza soluzione di continuità. La già di per sé scialba regia di Cronenberg deraglia nella parte centrale del film, senza rendercene conto, abbandonando le sue creature a sé stesse e al loro tragico destino. È l'atmosfera di Los Angeles a riempire racconto e personaggi, a risucchiarli tra i gironi infernali di Rodeo Drive, Chateau Marmont, Hollywood Boulevard.
A livello superficiale e per i primissimi minuti dopo la visione, "Maps to The Stars" lascia un senso di vuoto e di disorientamento che non può non ricordare le due precedenti pellicole, operazione che se letta sotto una particolare chiave di lettura sembra volersi avvicinare sempre più dal macro al micro: la volubilità della mente umana che anticipa uno dei più grandi errori commessi dall'umanità, il capitalismo, che a sua volta anticipa il dettaglio rilevante del lato oscuro della più grande industria cinematografica del mondo. In "Maps to The Stars" Cronenberg dissemina molteplici richiami appartenenti a "A Dangerous Method" (il dottor Weiss è uno psicanalista, nella mente di Havana regna il caos e il personaggio di Agatha, il più importante del film, va letto sotto un'attenta chiave psicologica) e a "Cosmopolis" (il binomio Pattinson/limousine, il primissimo piano della pistola maneggiata dal bambino).
Un film che gode di una sceneggiatura "consumata", diretto a sorpresa in modo del tutto impersonale, sospeso in un racconto kafkiano. Sensazioni che sfuggono a una logica. Tutto sfugge a una logica in "Maps to The Stars". Eppure la gestazione del film è andata avanti per quasi dieci anni, è il terzo lungometraggio, dopo "Inseparabili" e "A Dangerous Method", a cui Cronenberg lavora così a lungo. È lo stesso regista a investire fortemente sul progetto di Bruce Wagner e a voler finalmente girare per la prima volta, dopo quarant'anni di carriera, negli Stati Uniti.
La sensazione è dunque di un effetto volutamente ridondante e indisponente, dove non esiste racconto perché non esiste un genere di contenimento, se non l'incessante rappresentazione della crudeltà, della violenza e del sudicio umano di fronte all'ambizione e al dio denaro, dove ciò che si mostra è ciò che importa (e tanto basta) e quello che si prova davvero deve essere represso, dove il lato veritiero delle cose è irrilevante in questa Hollywood, microcosmo incestuoso (per le acrobazie delle attività produttive ed economiche) e albergato da fantasmi (come l'ossessione per il mito della star e della sua morte, uno su tutti quella di James Dean che assimila la coppia Cronenberg/Ballard al punto da doverne ricreare il mortifero incidente automobilistico in "Crash"). La famiglia Weiss è figlia di una Hollywood che sta lentamente bruciando.
Nel finale Cronenberg torna però al timone alleviando le sofferenze di Agatha (da ustioni/cicatrici/pillole), proclamatrice della libertà eluardiana (alla mappa delle star di Hollywood manca la libertà di una propria identità), unico personaggio capace di trovare una sua identità, in uno degli epiloghi più compassionevoli e premurosi della sua filmografia.
Dunque il bisogno autoriale c'e, come abbiamo visto. Quello che stride è forse un richiamo eccessivamente aderente alle atmosfere wilderiane (la combinazione tra la sfumatura horror e gli inserti da commedia) e lynchiane (il silenzio ambientale e i dialoghi grotteschi che si respirano, ad esempio, durante la sequenza della visita in ospedale o quella dell'incontro al tavolo tra bimbo prodigio, manager e procuratori) che annacquano e stemperano quelle del genio di Toronto. Havana Segrand come Norma Desmond come Dyane Selwyn, vittime dell'ossessione per l'anzianità incombente che minano il loro desiderio di levarsi a dee immortali, oltre che vittime della spietata avversità dello star system ("è lei la ragazza"). "Acque rubate" come "Il buio cielo del domani", prospettive nerissime di un (meta)cinema riciclato e in evidente stato di decomposizione.
E così, "Maps to the Stars" conferma l'ennesima, essenziale e sorprendente mutazione del regista ma non riesce a toccare le corde del capolavoro come successo due anni fa con "Cosmopolis".
cast:
Julianne Moore, Mia Wasikowska, John Cusack, Robert Pattinson, Olivia Williams, Sarah Gadon, Evan Bird
regia:
David Cronenberg
titolo originale:
Maps to the Stars
distribuzione:
Adler Entertainment
durata:
95'
produzione:
Prospero Pictures, Sentient Entertainment, SBS Productions, Integral Film
sceneggiatura:
Bruce Wagner
fotografia:
Peter Suschitzky
scenografie:
Carol Spier
montaggio:
Ronald Sanders
musiche:
Howard Shore