Operatore: Signor Ford, cosa possiamo filmare qua fuori?
John Ford: Cosa possiamo riprendere? La cosa più interessante ed eccitante di tutto il mondo, un volto umano.
Tornare a "La schivata" e al suo intertesto, cioè "Il gioco dell'amore e del caso" di Marivaux, è un utile preambolo per introdurre l'ultima fatica di Abdellatif Kechiche, meritata Palma d'Oro al Festival di Cannes. Nel film del 2003, il regista maghrebino gettava lo sguardo sul meticciato socio-linguistico delle banlieue parigine attraverso la più banale delle storie adolescenziali, l'amore non corrisposto; attraverso l'escamotage della rappresentazione teatrale, perlustrava la zona d'ombra esistenziale di questi ragazzi incapaci di entrare in un'altra condizione, ingabbiati dal loro asfittico retaggio comunitario.
Il quinto lungometraggio di Kechiche inizia con la lettura in classe di un'altra opera di Marivaux, il monumentale "La vie de Marianne", da cui il regista ha adattato il titolo per la sua protagonista. Il suo film diviene un'intersezione tra il bildungsroman dello scrittore francese e "Le Bleu est une couleur chaude", graphic novel di Julie Maroh; il fumetto è però soltanto un pre-testo fuso insieme a un'altra vecchia idea del regista, il racconto di una ragazza con l'umile sogno di diventare insegnante. Dell'opera della Maroh, Kechiche cambia il nome della protagonista (Adèle al posto di Clementine) e ne sconvolge la cronologia; "Le Bleu est une couleur chaude" si svolge come un lungo flashback costruito intorno alla lettura del diario intimo di Clementine da parte del suo primo amore, Emma: il regista evita ogni forma melodrammatica, elimina tale stratagemma diegetico e attualizza gli eventi (il fumetto è ambientato a cavallo tra XX e XXI secolo).
Siamo a Lille ai giorni nostri. Adèle è una quindicenne che ogni mattina si sveglia presto e deve correre per non perdere l'autobus che la porterà a scuola. Un tipo carino dell'ultimo anno le fa il filo e lei accetta di vedersi con lui in un tranquillo pomeriggio; proprio quando lo sta per raggiungere, il suo sguardo incrocia quello di una ragazza più grande, dai capelli tagliati alla maschietta e colorati di blu. Un flash, un ralenti e qualcosa salta, percepisce una mancanza: come nella lettura in classe di un passo de "La vie de Marianne", Adèle si confronta con quello che volgarmente possiamo chiamare "colpo di fulmine", un amore folle, che incendia le viscere e da cui è impossibile ripararsi [1]. Nella notte, durante l'unica scena onirica di un film che addenta con voracità il reale, Adèle non sognerà il ragazzo, ma quella giovane dalla chioma blu che come un serpente le scivola addosso provocandole un orgasmo. Nell'adolescente qualcosa cambia: cominciando a cercare quella che sembra un'emanazione dei suoi desideri e che ritroverà, casualmente, una notte, inizia il suo personale romanzo di formazione, la cui parabola assume connotati cinematografici pressoché definitivi.
Se ne "La schivata" Marivaux serviva per mascherare le persone in personaggi e far sviluppare il sentimento tramite il travestimento, quest'opera di Kechiche si propone di essere un'analisi senza filtro alcuno. "La vie d'Adèle" sono tre ore di caméra-stylo che seguono fino all'ultimo respiro i volti e i corpi della protagonista e di Emma. Il tracciato sentimentale non si allontana mai dal riflesso corporeo che lo incarna: la macchina, raramente piazzata lontana dal volto dei personaggi, è un sismografo dalla sensibilità icastica e immediata; ogni cambiamento di umore è rilevato in tempo reale e l'abilità nello scorgere una particolare occhiata o un'espressione possiede una naturalità impressionante. Esaltante, infatti, la perizia di Kechiche nel rapprendere i dettagli dei volti e dei corpi, nel soffermarsi sui primissimi piani, per poi allargare, con improvvisi movimenti di macchina, le inquadrature anche ad altro, quando gli altri divengono attrazione per lo sguardo di Adèle, come nei momenti di convivialità in classe, in cucina, in discoteca. Di Adèle sorprende la fame con la quale abbraccia l'esistenza: per raccontare la concretezza di quest'eroina che desidera la via mediana, Kechiche sceglie la bocca come figura metonimica e la inquadra mentre mangia, beve, bacia, parla, seguendo anche solo le contrazioni delle labbra, lo smalto dei bianchi incisivi.
Le due attrici si sono disciolte dentro i propri ruoli, fino, forse, alla totale compenetrazione emozionale [2]: per Adèle Exarchopoulos, la cui carriera è ancora tutta da scrivere, sarà difficile confrontarsi con l'omonimo personaggio di quest'opera e Léa Seydoux sfodera uno sguardo felino dall'irresistibile forza magnetica. Gli amplessi prolungati e abbastanza dettagliati in cui si profondono con una fisicità completa possono fornire facile scandalo per i giornalisti a cui servono futilità per riempire sciatti articoli, mentre non c'è niente di volgare né di morboso nel sesso tra Adèle ed Emma. Se con la storia di Sarah Baartman, Kechiche cercava di spingere la propria macchina da presa oltre i confini del filmabile per sondare il limiti dell'etica dello sguardo, ne "La vie d'Adèle" si viene invece investiti dal calore di un'umanissima esplosione di energia. Il sesso è un altro strumento volto all'eccitante scoperta dell'altro: gli amplessi sono ripresi con inquadrature ben lontane dal pornografico, rilasciando piuttosto la bellezza del plastico intreccio di due corpi senza soluzione di continuità.
Il regista franco-tunisino non dimentica la verticalità del proprio sguardo, sempre rivolto alla società francese, alle divisioni sociali e culturali. Fa delle due protagoniste un osservatorio privilegiato anche per l'incontro/scontro tra mondi differenti: Adèle viene da una famiglia petite bourgeois dedita al culto del lavoro sicuro, senza troppe ambizioni se non quella di fare la maestra, mentre Emma è figlia della borghesia intellettuale, lesbica dichiarata con la ferma volontà di diventare artista. Kechiche suggerisce questa linea invisibile eppur concreta, la cui ideologia si è espressa con più veemenza nelle opere precedenti (fino all'analisi post-coloniale di "Venere nera"), concentrandosi innanzitutto sul percorso amoroso che unisce i propri personaggi. Questo confine emerge però nella divisione in "Chapitre 1 & 2" del titolo originale che rivela l'edificio narrativo squadernato dal regista: la prima parte dedicata all'educazione sentimentale e alla formazione sessuale, la seconda alla fine dell'idillio, alla presunta maturità. Senza quasi accorgercene, il flusso della narrazione salta in avanti di mesi, poi anni, molti, finché i segni del tempo non si scorgono sul volto di Emma, tornata al suo colore di capelli naturale, crucciata solo dalla sua carriera, mentre Adèle, giovanissima maestra, dovrà confrontarsi con i propri limiti. Alla fine, nel grigiore della quotidinità, l'assenza di obiettivi comuni, la differenza di intesa (e di pretesa) intellettuale tra le due donne diviene logorante: durante la frastornante scena del litigio si ratifica il tragico e ineluttabile fallimento, circondato dallo squallore, dal panico di un mondo che crolla addoso.
Depurata da qualsiasi -ismo, l'arte di Kechiche raggiunge il suo zenith. Il reale, cercato con puntiglio intellettuale tra meta-rappresentazioni teatrali e il (neo)verismo di "Cous Cous", trova nella vita di Adèle una foce per potersi esprimere anche oltre la fine dei titoli di coda. L'autore maghrebino compone il ritratto esistenziale di un essere umano senza indulgenze, disegnandone pregi e difetti, la vitale curiosità, le paure e anche le meschinità.
Se c'è una forza nel cinema, è quello della persistenza delle immagini nella nostra memoria. Di Adèle e di Emma, Kechiche ci racconta la tranche de vie che li legherà per sempre nella pellicola del regista, così come Emma ha immortalato sulle sue tele la giovinezza di Adèle. Nel cinema contemporaneo è ormai raro che ci si ritrovi a chiedersi cosa succederà ai protagonisti, in questo caso ad Adèle, dopo che avrà voltato l'angolo di quella stradina; un po' come quando Antoine Doinel, alla fine de "I 400 colpi", ci guardava negli occhi, invocando anche il nostro intervento, allora vorremmo raggiungere Adèle, abbracciarla, e poterle dire che per andare avanti bisogna lasciarsi qualcosa alle spalle.
[1] Da notare l'uso della musica diegetica (un ragazzo per strada suona l'hang) che fa da vibrante colonna sonora a quest'incontro: il pezzo tornerà nel finale, unica infrazione extradiegetica prima dei titoli di coda.
[2] Dalle interviste rilasciate durante la promozione americane, questo dubbio pare dissolto. Le due interpreti sono protagoniste di un tour de force attoriale che le ha prosciugate ma la cui resa sullo schermo lascia sbalorditi. Non ci interessa la polemica, ma è ovvio che per girare un'opera di queste dimensioni sia necessario avere tempo e pazienza e Kechiche ne ha avuto più che a sufficienza, ottenendo dalle sue attrici esattamente ciò che cercava.
cast:
Adèle Exarchopoulos, Léa Seydoux, Salim Kechiouche, Jeremie Laheurte, Aurelien Recoing
regia:
Abdellatif Kechiche
titolo originale:
La vie d'Adèle – Chapitre 1 & 2
distribuzione:
Lucky Red
durata:
179'
produzione:
Wild Bunch, Vertigo Films, Scope Pictures
sceneggiatura:
Abdellatif Kechiche, Ghalia Lacroix
fotografia:
Sofian El Fani
scenografie:
Julia Lemaire
montaggio:
Camille Toubkis, Albertine Lastera, Jean-Marie Lengelle, Ghalya Lacroix