Moretti, ormai distante dall'autarchia del primo periodo, non è mai stato tanto equilibrato, ponderato, ben temprato quanto in "Mia madre".
A volte il senso di un film è nascosto nell'incipit. Nella prima sequenza di "Mia madre", dedicata al film nel film che sta girando la protagonista Margherita (interpretata da Margherita Buy in una performance finalmente degna di una duttilità interpretativa altrove sacrificata), viene posta una questione di linguaggio cinematografico. Sul set dove sono contrapposti polizia e manifestanti, Margherita critica un operatore che sta troppo dentro la scena, troppo vicino alla violenza. Ne fa una questione etica: "Tu stai coi poliziotti o coi manifestanti?". Stare dentro un conflitto con riprese pseudodocumentarie che montano l'adrenalina è stilema adottato dal cinema statunitense (mutuato dal cinema d'autore europeo), e fra gli altri proprio da quella Kathryn Bigelow ("The Hurt Locker"; "Zero Dark Thirty") di cui Moretti punzecchiò "Strange days" in una battuta di "Aprile". A un moralista dello sguardo come Moretti immaginiamo non piaccia l'ambiguità di un cinema che da un lato problematizza la guerra e dall'altro la spettacolarizza e la rende seducente. Rispetto al temperamento oggi moderato di Moretti, non potrebbe esservi temperamento più distante di quello intransigente di Godard, eppure "Adieu au langage" pone una questione analoga: come fare in modo che il cinema sia ancora veicolo di autenticità, capace di decifrare la realtà, invece di innescare ambiguità e generare finzioni.
Difficoltà di comunicazione. Sono significative quelle con Barry Huggins, l'ingestibile attore americano interpretato da John Turturro, così come i suoi inceppamenti linguistici. E i problemi con il latino di Livia, la figlia quattordicenne di Margherita. "Perché è importante, il latino?" chiede alla madre. Per la logica, si sente rispondere. La nonna, professoressa di latino (come era davvero la madre di Moretti), le suggerirà che tutto sta a saper interpretare il verbo, senza fermarsi al primo significato in cui ci si imbatte nel vocabolario.
L'analisi logica, dunque. La sintassi del latino come quella del cinema.
Tutto il film s'interroga sul rapporto tra verità e finzione. La preoccupazione di Moretti è di restare aderente alla realtà più autentica. "Odio la retorica", dice Margherita. Persino una frase d'incoraggiamento su uno striscione dell'ospedale le appare ingannatoria, lontana dalla verità. Le cose van dette per quello che sono, come fa con lei il fratello Giovanni (interpretato da Moretti stesso in un ruolo secondario, in cui si è messo più che mai da parte), quando non usa mezzi termini per spiegarle che "mamma sta morendo".
"Mia madre" racconta di un lutto elaborato in anticipo, come avviene quando si sa che i propri cari non guariranno da una malattia. E' un film sullo smarrimento, sul disorientamento. Margherita è disorientata sul set come nella vita. Il film scivola spesso nei ricordi e nel sogno: momenti in cui Moretti gioca a disorientare anche lo spettatore insieme alla protagonista. A controbilanciare il dramma, in un cocktail accuratamente dosato, la vanità gigionesca del personaggio di Turturro - che regala una prestazione di irresistibile verve comica. Non fa che millantare e dissimulare, continuamente: sino alla cena in cui cala la maschera, svelando la sua fragilità. E' un personaggio iperbolico, ma riflette bene le menzogne che spesso raccontiamo a noi stessi.
In "Mia madre" è netta l'autocritica di Moretti, che non si risparmia niente come uomo e come regista. Sono severe le accuse di egocentrismo che si rivolge, per tramite di quanto viene rinfacciato a Margherita dal proprio compagno. Come regista, l'autocritica è imbevuta di autoironia. Sempre a Margherita, Moretti affida alcune idiosincrasie, come il tormentone di raccomandare agli attori di "mantenere l'attore accanto al personaggio"; a un certo punto Margherita sbotta, urlando ai collaboratori che avrebbero fatto male ad assecondarla: "Un regista è uno stronzo, cui permettete di fare tutto!".
Ecco: si percepisce lungo tutto il film come Moretti avverta, a livello professionale ed esistenziale, responsabilità non lontane da quello di Guido nell'"Otto e mezzo" di Fellini. Rifiuta il ruolo di interprete della realtà che gli è stato cucito addosso. Sente di non possedere l'acutezza necessaria per essere (ancora) l'interprete dei tempi (1). Eppure non si dà per vinto, e il film sta a dimostrarlo.
La grandezza di "Mia madre" risiede nella capacità di descrivere con disarmante autenticità un disorientamento interiore che rispecchia un disorientamento collettivo: l'opacizzarsi, nei nostri tempi, della capacità di cogliere l'essenziale - su di un piano sia sociale che personale. Un disorientamento che la perdita della madre ha reso più acuto (affidandosi a una protagonista femminile, Moretti ha fra l'altro evitato il rischio di inoltrarsi nel complesso di Edipo). La perdita di colei che ci ha generati è un venir meno delle radici più profonde (si veda "Diario d'inverno" di Paul Auster). Confrontarsi con questo distacco definitivo è amaro e duro più di quanto lo è vedere i libri di una vita sigillati in scatoloni di cartone.
Un film intimista, dunque? Ripiegato su se stesso e sul proprio milieu borghese? Non esattamente. "Mia madre" è anche l'ennesimo film politico di Moretti. Giovanni è un ingegnere in aspettativa, che può permettersi persino di licenziarsi, semplicemente perché "è stanco". Non c'è, da parte di Moretti, la minima condiscendenza: proprio nella scena successiva si parla di licenziamenti collettivi di operai. Sul set del film, certo, ma pur sempre di licenziamenti si tratta: tragedie, non il lusso che Giovanni può permettersi. La tematica sociale è sfiorata più acutamente di quanto appaia: affidate al film nel film, Moretti ritrae due condizioni sociali ben diverse, e punta il dito contro la propria.
Diversamente dal fratello, Margherita non smette di lavorare, ma, pur avvertendo l'inautenticità del suo film, si limita a piccole insofferenze come quella verso il trucco degli attori. Nel disagio che si avverte sul suo set si sente il cattivo sapore del cattivo cinema, un cinema che non riesce più a cogliere la realtà, né a dire il vero. Per contrasto, brilla maggiormente l'intimità della cronaca interiore di cui Moretti ci rende partecipi, consegnandoci alla fine - in un finale di squisita fattura, commovente ma mai ricattatorio - un tesoro prezioso da custodire. Si esce dalla sala con la sensazione di essere ancora in tempo per tornare a sfrondare il superfluo dal quotidiano alla ricerca dell'essenziale. E si ha la sensazione che il film, piuttosto che limitarsi a denunciare un disorientamento, voglia scuoterci dall'opacità, stimolare la lucidità. Dismettere le maschere, disarmare la finzione, recuperare l'autenticità del reale. Nel cinema come nella vita.
Alcune altre note di merito a margine. Anzitutto per due attrici: la grandissima Giulia Lazzarini, nel ruolo della madre, e la giovanissima Beatrice Mancini, qui al suo esordio, nel ruolo di Livia. Quindi per la colonna sonora, interamente di musiche di repertorio, tutte sfruttate magnificamente: dagli splendidi brani di Arvo Pärt, alla struggente "Famous Blue Raincoat" di Leonard Cohen.
(1) Moretti sembra confessare un proprio disorientamento, ansioso però di mantenersi capace di interpretare la realtà. E' indizio di questo dilemma anche l'ammiccamento a Wenders (nel ricordo di Margherita al cinema Capranichetta si riconosce la locandina de "Il cielo sopra Berlino"). Col cinema di Wenders, Moretti ha già dialogato: il primo episodio di "Caro Diario" esplorava Roma, ad esempio, con la stessa curiosità delle esplorazioni di Wenders in giro per il mondo ("Tokyo Ga", "Lisbon Story").
Per saperne di più: Nanni Moretti, Margherita Buy - Speciale "Mia madre"
cast:
Margherita Buy, Nanni Moretti, Giulia Lazzarini, John Turturro, Beatrice Mancini, Enrico Ianniello, Pietro Ragusa, Tony Laudadio, Stefano Abbati
regia:
Nanni Moretti
distribuzione:
01 Distribution
durata:
106'
produzione:
Sacher Cinema, Fandango, Rai Cinema, Le Pacte
sceneggiatura:
Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Valia Santella
fotografia:
Arnaldo Catinari
scenografie:
Paola Bizzarri
montaggio:
Clelio Benevento
costumi:
Valentina Taviani