Arrivati a questo punto, sembra evidente che Nicolas Winding Refn, da bravo bastian contrario, consideri "Drive" un'opera minore, una deviazione, se non un mezzo passo falso. Lo splendido, anomalo neo-noir - se così si può classificare - rispondeva a una formula perfetta: il fascino di un protagonista, scisso tra l'audacia imperturbabile del supereroe e l'inettitudine (ai limiti dell'autismo) dell'antieroe, la violenza grafica più efferata, stilizzata e unita a un romanticismo tenero, puro, redentivo, poi le corse in macchina, i guanti di cuoio, lo stuzzicadenti tra le labbra, le luci della notte, la metropoli, l'elettronica malinconica di Cliff Martinez, il tutto messo a sistema da un folgorante talento registico, pienamente maturato. Una gioia per gli occhi. E così il consenso pressoché unanime di critica e spettatori, al netto di qualche perplesso, e il riconoscimento cannense hanno fatto uscire il suo nome, impronunciabile, dall'alveo delle videoteche cinefile per consegnarlo all'attenzione del pubblico internazionale. A questo punto è successo qualcosa di interessante. Dietro l'equilibrio calibrato, per certi versi rassicurante e anche furbo, di quella pellicola - l'unica nella quale il cineasta non ha messo mano né al soggetto né alla sceneggiatura - si celava, e nemmeno tanto, per chi conoscesse già i pregressi della sua carriera, una tensione formale trattenuta a stento, un latente garbuglio di tormenti e manie pronti a deflagrare. Così, all'apice della visibilità, sentendosi frainteso, Refn rompe gli indugi e decide di rinunciare ai compromessi e chiarire definitivamente, alla prova successiva, le proprie prerogative. "Solo Dio perdona" è un catalogo di ossessioni, un sublime e onanistico crocevia di pulsioni: i topoi della tragedia greca e le arti marziali, pansessualismo freudiano e lampi di follia da B-movie, estasi, psiche e sangue. Ma, prima di tutto, il culto dell'immagine. Tutto converge, infatti, in una mistica esaltazione della forma cinematografica tanto più gratuita e pretenziosa quanto depurata, quintessenziale, capace di raggiungere punte di lirismo e fascinazione inaudite. Niente premi sulla Croisette, in sala piovono fischi e ovazioni, i delusi e gli estasiati, chi grida al bluff e chi esalta il genio: missione compiuta. Messe da parte le reazioni, c'è poco da sorprendersi: il percorso autoriale del Danese ha sempre più un'identità netta, una rotta precisa che il cineasta continua a seguire, alzando la posta in gioco, con "The Neon Demon".
Disgiuntosi dagli indimenticabili corpi maschili intorno ai quali il suo cinema ha sempre gravitato (e che ha contribuito a lanciare, come nei casi di Mads Mikkelsen e di Ryan Gosling), Refn va alla ricerca della "sedicenne che è in lui": la timida Jesse, orfana adolescente che, col suo candore virginale e la sua grazia innata, conquista le passerelle di Los Angeles in men che non si dica, scatenando la furia (e gli appetiti) delle voraci avversarie. Non c'è contesto più allettante dell'universo mortifero e depravato della moda (e, per estensione, dell'età dell'apparenza) per lo sguardo del regista di Copenaghen; uno sguardo, al solito, smaniosamente tattile, epidermico, orgogliosamente superficiale, in barba agli strali dei suoi denigratori. Del resto, mai come in questo caso, la superficie "non è tutto, è l'unica cosa": non c'è altro da vedere, nient'altro da osservare. Nulla si cela al suo interno, è assolutamente vuota, come vuoto è tutto il primo segmento del film, il più esteso, che diluisce l'iniziazione di Jesse al culto mortale della propria bellezza con una rassegna sconfinata e stupefacente di patine, involucri e pelli. Protagonista assoluto lo splendore angelico della fanciulla, la sua carne tenera e perlacea, al cui cospetto la cute levigata delle colleghe rivela la consistenza sintetica della scorza inorganica, morta. Lo scarto abissale tra cosmesi e bellezza.
Non c'è descrizione né sviluppo, bensì una minima traccia narrativa, il pretesto che consente l'abbandono totale, senza filtri critici o distanze di sicurezza, allo sfolgorio degli abiti, al bagliore dei fari, all'ammaliante luccichio dei brillanti, delle ciprie e delle dorature. Il risaputo feticismo del cineasta si ripropone in ogni accezione, da quella psicologica, con l'attenzione erotica al singolo dettaglio, a quella antropologica, con l'esaltazione di un nuovo feticcio antropomorfo che ritiene abitato da un essere soprannaturale - questa volta si tratta della magnifica e acerba Elle Fanning. Eppure la foga gelida ed estetizzante, col consueto profluvio di epifanie al ralenti, movimenti galleggianti, visioni cristalline e di altre innumerevoli delizie rigorosamente arbitrarie e fini a se stesse, mai come in questo caso, è funzionale alla completa metabolizzazione visiva di un mondo circoscritto e a sé stante, rispetto al quale anche la città è lontana e campeggia solo nel marchio effimero dello skyline all'orizzonte. Un sistema chiuso e isolato che stabilisce a chiare lettere il suo codice (a)morale, e non tollera infrazioni: un personaggio, ritenendo che dietro le meraviglie dell'involucro si celi necessariamente qualcosa di più significativo e sostanziale, svanisce di colpo, bandito, e con lui si spegne il fatuo fuocherello di una storia d'amore.
Una cesura, drastica, dà avvio al secondo atto, l'ultima tranche: con un défilé psichedelico, Jesse per la prima volta vede quel che gli altri vedono in lei, incontra, nella formidabile superficie del suo corpo, il proprio spirito pericoloso, the neon demon; finalmente si riconosce. L'agnizione non può avere altra forma se non quella sensuale e rutilante dello spot pubblicitario. Comincia la festa. Dopo aver assimilato a fondo l'essenza diabolica di quell'universo, Refn ne restituisce una parodia assurda e sanguinaria. Non condanna né ripudia nulla, anzi alza di colpo l'asticella e sguazza, con euforico sadismo, nelle acque limacciose del vizio aberrante, dell'efferatezza, dell'abominio. Onorando la regola aurea dell'eccesso, realizza una caricatura depravata, incardinata esclusivamente sull'esplicito. Di fatti, se la superficie, l'involucro, è l'unica verità possibile e non nasconde altro, l'immagine non può che mostrarsi, senza cautele o pudori di sorta, nella sua inequivocabile evidenza. Espliciti ed elementari fino al ridicolo sono allora i dialoghi il cui straniamento telecomandato sembra rispondere a una perfida ironia. Espliciti i simboli che assommano, appianandole, pulsioni sessuali e pulsioni di morte e che trasformano qualsiasi corpo o figura in oggetto inanimato, quindi in imago mortis, servendosi di una sintassi pseudo-pubblicitaria e svelandone, senza mezzi termini, l'intrinseca necrofilia.
Altrettanto esplicita è la valanga di citazioni che chiamano all'appello, uno a uno, ispiratori e referenti depredati: Lynch, Cronenberg, Hitchcock, Polanski, Bava, Argento, Deodato, Zulawski, De Palma, Buñuel, tutto finisce nella centrifuga di un cinema ultraderivativo che però non rinnega né contamina mai la propria identità puro-visibilista. Esplicito è, come sempre, il mezzo-cinema che si palesa nella compulsiva manipolazione delle immagini, sempre più manierate, finte, artefatte. Eppure l'esplicito e la provocazione urlata, qui al limite del trash, diventano, sorprendentemente, anticamera del più bizzarro ed efficace didascalismo. L'ebbrezza estetizzante del regista non comporta alcun grado di sublimazione edonistica, come accade in "Only God Forgives" o "Valhalla Rising", conduce bensì alla deformazione mostruosa: quanto più l'immagine è limpida e sofisticata, tanto più il suo impatto è orripilante, disgustoso. Al piacere sensuale della visione si accosta un senso crescente di malessere, nausea e repulsione, in uno spasmodico cortocircuito che sfida la resistenza dello spettatore. E, paradossalmente, quasi lo educa. Se infatti a proposito dell'apparenza e del suo potere letale e fagocitante esistono inesauribili letterature e sterminate filmografie (da Bauman a Bret Easton Ellis, da Cronenberg all'ultimo Harmony Korine, per fare qualche nome a caso) è difficile pensare a una messa in scena che, introiettando scandalosamente l'immaginario che vuole scandagliare, riesca a generare in chi la guarda una miscela così esplosiva di attrazione e raccapriccio.
Inutile soffermarsi sulle qualità ormai consolidate di Nicolas Winding Refn, sulla sua capacità di amalgamare linguaggi incoerenti in un uniforme e densissimo fluido audiovisivo, di esaltare la forza esperienziale della settima arte e di esercitare un completo dominio sensoriale sullo spettatore, sempre e solo attraverso l'astrazione e la forma. Vale nel suo caso un discorso che può estendersi parimenti ad altri esteti-provocatori di professione come Lars von Trier, Peter Greenaway o il sodale Gaspar Noè, autori anch'essi di un cinema liminare, di confine: il legittimo sdegno, sempre più aspro e perentorio, dei detrattori riesce a mettere in luce, molto meglio degli elogi dei più convinti estimatori, il valore ambiguo e ammaliante della sua ricerca, la vanità e l'urgenza della sua opera.
cast:
Elle Fanning, Abbey Lee, Desmond Harrington, Christina Hendricks, Jena Malone, Bella Heathcote, Karl Glusman, Keanu Reeves
regia:
Nicolas Winding Refn
distribuzione:
Koch Media, Italian International Film, Midnight Factory
durata:
110'
produzione:
Nicolas Winding Refn, Lene Børglum, Sidonie Dumas, Vincent Maraval
sceneggiatura:
Nicolas Winding Refn, Mary Laws, Polly Stenham
fotografia:
Natasha Braier
scenografie:
Elliott Hostetter
montaggio:
Matthew Newman
costumi:
Erin Benach
musiche:
Cliff Martinez