"Life's but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more: it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing"
(Shakespeare, Macbeth, Atto 5, Scena 5)
È un cinema di essenze, quello di
Nicolas Winding Refn che, fin dagli esordi
low budget, si è sempre posto come principale se non unico obiettivo la restituzione di un particolare universo percettivo attraverso le immagini in movimento. Consapevole di non essere il solo a girare film finalizzati a un'azione diretta sull'inconscio (
Lynch docet), il regista danese ha avviato un percorso di ricerca e autoanalisi che lo ha condotto, prima da spettatore, poi da giovane cineasta, infine da vero e proprio autore, a definire più o meno consapevolmente una base espressiva molto personale, punto d'equilibrio tra le vaste conoscenze da cinefilo e un forte temperamento registico. "Solo Dio perdona" è la chiave di volta del suo cinema, un compendio di figure, motivi stilistici, immagini e archetipi che, apparentemente svincolati da un disegno preciso, s'inseguono, si scontrano nel breve lasso di novanta minuti.
Con un esile pretesto da
revenge movie, "Only God Forgives" procede ermetico, evolvendosi in infernali labirinti di volumi, di pieni e di vuoti, di luci e di ombre. Ancora una volta, un cinema di corpi: il corpo di una
macbethiana e ossigenata Kristin Scott Thomas, madre perfida e incestuosa che costringe il figlio a insanguinarsi le mani prima perpetrando una vendetta ingiusta e poi reimmergendole nel desiderato ventre materno; il corpo del giustiziere Vithaya Pansringarm, unica figura inizialmente illuminata da tenui barlumi di eroismo, destinati a spegnersi con l'atrocità della tortura; il corpo di Ryan Gosling che, da antieroe innamorato e senza nome in "
Drive", si presta a un progressivo disfacimento, trasformandosi in un Edipo debole e impotente che si sposta, robotico, nei corridoi bui e negli spazi rutilanti della propria mente. Il suo Julian è un altro personaggio muto, ridotto quasi a presenza umbratile, che rientra nella già mostruosa, deforme galleria
refniana insieme a Kim Bodnia, Mads Mikkelsen, Zlatko Burić, John Turturro e Tom Hardy, altri corpi schiavi di irrefrenabili istinti emotivi e irrimediabilmente violenti.
In "Solo Dio perdona" Refn riconferma il suo credo nella profondità di campo con continui sfondamenti prospettici che aprono, anzi squarciano, lo spazio finito, nel tentativo di mostrare ciò che è dietro il visibile. E a scuotere, più che le poche, brutali (e mai gratuitamente sublimate) sequenze di violenza frontale, è proprio l'incredibile controllo con cui il regista gestisce un composto praticamente informe, ponendolo in dialogo costante anche con le ipnotiche musiche di Cliff Martinez (si vedano le tesissime pause dei karaoke club che sincopano il flusso delle immagini, producendo senso e addirittura sugellando l'intera opera).
Ma dietro questo condensato di
leitmotiv sembra esserci dell'altro.
Nella prosecuzione di un percorso complesso che attraversa tutte le sue opere precedenti, Refn usa intrecci elementari per ragionare sul linguaggio visivo, sulla propria idea di cinema, senza codificarvi ulteriori messaggi (né etici né narrativi). Più che giocoso metacinema, è un'astratta e problematica operazione di
mise en abîme: l'immersione in un abisso di antinaturalismo esasperato che marchia il piano finzionale, separandolo da ogni forma di realtà, per mostrare apertamente la sua natura falsa, artefatta. E qui il passo è davvero definitivo, le modalità drammaturgicamente "oscene": con la cessazione di quel magico e a tratti fiabesco equilibrio di "Drive", del
mood ironico e parossistico di "
Bronson" o dell'incedere epico e ancestrale di "
Valhalla Rising", "Only God Forgives" rompe i velami dell'allegoria narrativa, eliminando quasi ogni elemento sovrastrutturale, per lasciare "nudi" i meccanismi annidati nella percezione dell'esperienza cinematografica, in un dialogo serrato tra regista e spettatore che coinvolge occhi, mente e cuore; è un salto coraggioso che trasfigura un testo narrativamente essenziale in un'ostica e audace opera d'avanguardia.
Visto in quest'ottica, il film di Refn s'inspessisce notevolmente: non è - come molti hanno obiettato - un lavoro di sterile superfetazione finalizzato a dimostrare, attraverso l'accumulo di sequenze magistralmente orchestrate, la (ormai assodata) padronanza del mezzo, ma piuttosto una profonda riflessione sulla finzione cinematografica che si manifesta e vive in una diversa dimensione "spirituale" grazie a una forma espressiva magnifica e sorvegliata. Ed è forse questa "diversa estensione" l'elemento mistico più forte che vuole suggerirci la dedica finale a Alejandro Jodorowsky (che, dalla sua, direbbe "Zoom back camera!").
Spaventosamente coerente con un personalissimo percorso autoriale e insieme sbalorditiva per la radicalità dell'approccio, questa aspra, visionaria testimonianza di sincretismo audiovisivo - che si può amare o odiare con la stessa visceralità, come l'ultimo Cannes ha dimostrato - invade la sala con il suo misterioso vapore e appaga gli occhi con la sua vigorosa corporeità. Non resta che tirare un bel respiro. E immergersi.
31/05/2013