Dagli esordi danesi con la saga di "Pusher" alle produzioni internazionali, tutti i volti, i personaggi e la poetica di un regista poliedrico, raffinato e istintivo. Con uno degli sguardi più originali del cinema del nuovo millennio
Quello di Nicolas Winding Refn, autore istintivo e regista autodidatta, è uno degli sguardi più freschi e inventivi della generazione di registi che sta andando affermandosi nel nuovo millennio. Nato a Copenaghen nel settembre del 1970 da padre regista e madre fotografa si trasferisce sin da bambino a New York dove frequenta, tra alterne vicende e turbolente difficoltà di inserimento, l'American Academy of Dramatic Arts per far poi presto ritorno nella natia Danimarca. Ammesso alla scuola di cinema di Copenaghen decide di rinunciarvi per seguire l'ambizioso progetto di adattare e portare sul grande schermo un cortometraggio girato per una piccola emittente televisiva. Il film che verrà alla luce sarà "Pusher", primo capitolo di una tanto fortunata quanto interessante trilogia, prima traccia di celluloide di un talentuosissimo regista sicuro di sé: "Non sono il miglior regista del mondo, sono solo il migliore nel fare il tipo di film che faccio".
Già sono chiari gli interessi, già è incisiva la poetica che svilupperà in modo coerente e sempre più raffinato nelle successive pellicole attraverso cifre costanti e meccanismi elementari che, evolvendosi, sviluppano implicazioni diverse in ogni nuovo film. La violenza, come esplosione dell'uomo - un viluppo di nervi e sottili corde pronto a deflagrare come un ordigno perfetto -, l'uomo come imperfetta creazione che si rimodella secondo il proprio immaginario e così la fantasia che interviene nel reale per determinarne il corso. Una violenza mai divertente o sardonica, anzi dolorosamente elargita e straziante negli sviluppi, e un amore tenero e deromanticizzato che radicalmente avvince e condiziona gli individui si amalgamano nel crogiuolo dell'immaginario di Refn con le opere e le idee di
Michael Mann, Kenneth Anger,
Jean-Pierre Melville,
David Lynch, il primo Barry Levinson, Walter Hill, il Kim Ji-woon di "
Bittersweet Life" come tanti altri che il regista danese rilegge e rimodella alla ricerca del perfetto
mood che consenta alle sue favole dalle tinte
dark di addentrarsi in quei territori dove reale e surreale si confondono. Affascinato al contempo dall'estetica degli anni 80 sa essere sporco e raffinato insieme, duro ed empatico, impulsivo e rigoroso facendosi autore di fiabe fuori dal tempo, fiabe in cui le ambientazioni si trasfigurano in non-luoghi lontani ed irraggiungibili, regni oscuri nei quali lo spettatore è trascinato come in sogno.
Pusher (1996) è un doppio inizio. Non solo apre una delle trilogie criminali più coinvolgenti, innovative e ispirate della storia del cinema, ma segna l'esordio alla regia dell'allora ventenne Refn che qui riversa innumerevoli suggestioni con un codice registico personale, appassionato e cinefilo. Racconta la storia di Frank, uno dei tanti spacciatori di Copenhagen, che, convinto di poter facilmente portare a termine un ottimo affare, acquista a credito dal trafficante serbo Milo una grossa partita di eroina. Proprio nel momento dello scambio arriva la polizia e la merce finisce malauguratamente in un lago. Da questo momento, l'esistenza di Frank diventa una corsa contro il tempo per risanare l'enorme debito con Milo. Ipermoderno e iperindipendente sono gli aggettivi più adeguati per un piccolo, grande esempio di autentica esperienza cinematografica come questo. Infatti, piccoli sono solo i costi, perché gli sviluppi narrativi e gli spunti stilistici della pellicola sono innumerevoli e di altissima qualità. Si pensi in particolare a due sequenze davvero spiazzanti: il lungo e virtuosisticamente sorprendente piano sequenza che descrive la fuga disperata del protagonista dalla polizia fino al tuffo che segnerà l'inizio di tutte le disgrazie del protagonista e il suicidio dell'indifeso debitore di Frank che, narrato da una convulsa macchina a mano con uno spaventoso gioco di luci ed ombre, fa del "non visto" un ulteriore motivo di coinvolgimento emotivo e rappresenta uno dei momenti più atroci della violenza al cinema, forse in assoluto. Il finale aperto, poi, riesce ad prolungare la tensione del film e le sue affascinanti, magnetiche atmosfere anche dopo il termine dei titoli di coda. Questa folgorante apertura ci regala un saggio delle cifre stilistiche dell'allora giovanissimo regista danese in cui sono accennati tutti i personaggi che si avvicenderanno nel corso degli altri due capitoli (Tonny e Milo) e che, chiaramente, acquisteranno uno spessore drammatico ancora più complesso e autorevole.
Bleeder (1999), il secondo lavoro del regista, racconta due tristi storie d'amore, unite tra loro da sottilissimi nessi narrativi. La prima è la travagliata vita di coppia di Louise e Leo che, completamente insoddisfatto della sua vita, non appena viene a sapere che la moglie è in attesa, lascia che la sua insicurezza degeneri in una violenza cieca, andando incontro alla vendetta del disturbato fratello di Louise. La seconda, non meno importante, descrive l'incontro tra il timido Lenny, commesso in una videoteca, e la giovane Lea, cameriera in un fast food. Questo film è, innanzitutto, una esplicita dichiarazione d'amore verso tutto il cinema, senza distinzioni. La videoteca di Lenny (interpretato, per altro, da un grandissimo Mads Mikkelsen), viene introdotta allo spettatore con una lunghissima carrellata degli scaffali del negozio, zeppi di videocassette. Subito dopo è lo stesso Lenny che, illustrando a un cliente la disposizione dei film nel negozio, si lancia in un elenco quasi infinito di registi: da Lang a Corbucci, da Herzog a Morrissey, da Hitchcock a Deodato. Questo impagabile momento di metacinema, permeato di un'ironia surreale, testimonia quanto sia cronica la cinefilia del regista e quanto questo groviglio di nomi non si possa ricondurre a un modello, né a un unico genere di riferimento, ma costituisca effettivamente un universo creativo del tutto nuovo. Bleeder si apre presentando tutte le caratteristiche del ritratto sociale e descrive una realtà periferica (diversa dal mondo criminale di "Pusher") partendo da un gruppo ristretto di personaggi tipizzati, ma è talmente ricco di registri stilistici, talmente polimorfo e diseguale nella sua struttura compositiva, da sfuggire a qualsiasi forma di catalogazione. Inoltre, teorizza definitivamente la poetica del regista, confermando e concretizzando lo strettissimo legame tra violenza e tenerezza che sta alla base di ogni suo lavoro, in un intreccio drammatico che vede l'amore e la morte come indissolubili concause.
Nel 2003, Refn si sentì pronto per sfondare in America e, di conseguenza, per farsi riconoscere sul panorama internazionale. Decise, allora, di intraprendere il difficile progetto di
Fear X. Il protagonista, Harry, fa il guardiano in un centro commerciale ed è ossessionato dalla tragica morte della moglie. Lacerato dai rimorsi, continua a visionare le registrazioni di sorveglianza del negozio alla ricerca del suo assassino. Il desiderio di verità e la sete di vendetta lo condurranno in un viaggio spaventoso che varca le barriere del reale. Fin dall'inizio, è impossibile non accorgersi delle smisurate ambizioni di Fear X; ambizioni che, in parte, restano irrisolte. Non si può ignorare, d'altro canto, la complessità del soggetto, lo splendido lavoro sulla fotografia, nonché l'originalità del linguaggio visivo. Refn, di fatti, è l'unico regista riuscito davvero a rielaborare molte suggestioni "lynchane" senza mai fare il verso all'indiscusso maestro del cinema visionario. La creativa messinscena, non solida come in altri film del cineasta danese, riesce comunque a rendere fascinose e intriganti molte situazioni. L'atmosfera onirica, rarefatta e angosciante è una costante che pervade la pellicola dall'inizio alla fine, mentre i frangenti di tensione più alta sono condensati nel corpo centrale dell'opera e si svolgono negli oscuri ambienti del motel in cui Harry alloggia. Per quanto instabile e lacunoso, "Fear X" regala comunque momenti di cinema raffinatissimo, grazie anche alla ottima interpretazione di John Turturro, e segna la conferma del talento dell'enfant prodige scandinavo, dotato di una precisa identità artistica ed estetica che riesce a declinare in registri sempre diversi e sorprendenti. Purtroppo l'esordio americano di Refn non è stato assolutamente facile: "Fear X" si è rivelato un flop spaventoso nelle sale, mandandolo definitivamente in bancarotta.
Per risolvere la critica situazione finanziaria, il nostro decise di impegnarsi nella realizzazione di un episodio della serie televisiva anglosassone
Miss Marple. Il romanzo inscenato è uno dei classici della Christie, "Nemesi". L'astuta zitella inglese, questa volta, si ritrova destinataria di una parte dell'eredità del ricco signor Rafiel (che aveva conosciuto durante una vacanza), ma solo a condizione di accettare l'indagine su un misterioso omicidio. Ovviamente, l'anziana ficcanaso decide di partire all'avventura e di rispettare i dettami del defunto conoscente. La qualità della serie televisiva, così come della corrispondente "maschile" Poirot, è sempre stata piuttosto buona, mantenendosi in linea generale su livelli medio-alti (sempre nell'ambito televisivo). Refn non perde l'occasione di confezionare un episodio molto gradevole, dimostrandosi un abile artigiano anche nella stretta morsa dei tempi televisivi e affrontando (con la giusta dose di stoicismo e lungimiranza) un lavoro su commissione che gli avrebbe permesso di riassestare le proprie economie e di tornare a dedicarsi alla realizzazione di opere sicuramente più importanti e ambiziose.
A otto anni dal primo capitolo, Refn torna a calarsi nel mondo sotterraneo della periferia danese con
Pusher 2, Sangue sulle mie mani (Pusher II) per una nuova storia di malavita e sofferenza, imperniata sul personaggio di Mads Mikkelsen, già apparso nell'opera prima e ora protagonista assoluto nei panni di Tonny, che appena uscito di prigione, ha un tatuaggio sulla sua piccola testa orrendamente calva che recita: "Respect". Peccato che di rispetto non gliene riservi proprio nessuno, anzi, seppur sia il figlio del più temibile gangster di Copenaghen, è oggetto di scherno indiscriminato anche da parte dei suoi scagnozzi. Come se non bastasse, ha un ingente debito con suo padre che deve urgentemente risanare e, per giunta, padre lo è diventato lui stesso, per sbaglio, con una prostituta. Il regista lo segue con una macchina a mano in tutte le sue disavventure e unisce una tecnica elegantemente scomposta a una messinscena perfetta.
Sostenuto da fondi economici un po' più consistenti rispetto al primo capitolo, "Sangue nelle mie mani" ha un respiro molto più ampio del semplice film gangster, è la testimonianza di un cinema vivo, pulsante, istintivo, appassionato e, soprattutto, nuovo. L'onestà narrativa con cui è tratteggiata la storia non aggiunge nulla al naturale evolversi degli eventi, ma non rinuncia alla messa a punto di una vicenda fortemente coinvolgente che sembra autogenerarsi man mano che si entra in contatto con il mondo del protagonista, un panorama oscuro e affascinante che, in poco più di un'ora e mezza, si finisce per abitare. Questo costituisce la forza propulsiva dell'opera: lo spettatore accede a un universo sordido, lercio, sotterraneo che a tratti assume i contorni spaventosi del girone dantesco, però non riesce a interrompere la visione nemmeno per un istante, anzi, rimane stregato dalle atmosfere palpabilmente putrescenti, legandosi quasi affettivamente ai poveri dannati che vi si muovono disperatamente. Su tutti furoreggia il grandissimo Mikkelsen, un povero disgraziato dall'aspetto viscido e lo sguardo vacuo, vittima non solo di chi lo circonda, ma soprattutto delle circostanze che lo travolgono all'improvviso, senza che riesca né a prevedere né ad avvertire la loro gravità. Ancora una volta Refn seleziona il meglio dal cinema del passato - dall'underground ai classici - lo analizza, lo smembra, lo ricompone, fino a possederlo completamente e ad adattarlo alla sua personalissima poetica cinematografica.
La trilogia dei Pusher si conclude un anno dopo con il terzo capitolo,
L'angelo della morte (Pusher III, 2005). Il film si apre con un paio di lucide scarpe nere sotto un tavolo. I piedi del proprietario si accavallano lenti, ma nervosamente. Improvvisamente la macchina da presa si solleva fino a mostrare un'ampia saletta dalle pareti turchesi, al centro un tavolo e alcune persone pallide in volto, riunite tutt'intorno. Un altro leggero spostamento e l'occhio, all'istante, identifica un volto noto, dalle inconfondibili fattezze: Milo, il boss serbo, spietato e sanguinario che nel primo Pusher aveva reso la vita impossibile allo sciaguratissimo Frank. Ma che ci fa seduto ad ascoltare educatamente gli astanti, in un incontro dei "Tossicodipendenti Anomali"? Prende la parola, si presenta, espone il suo caso, sorride amichevolmente. Ma quello che sembrava essere il film della redenzione, in realtà altro non racconta che una definitiva discesa negli inferi; un percorso tortuoso ma rapidissimo che il regista scinde in due piani diversi e distinti: la festa della figlia di Milo e la rivalità con le nuove gang balcaniche che gli stanno sottraendo affari e potere. Alla fine, è impossibile capire quale delle due situazioni sia più insopportabile, opprimente e, innanzitutto, violenta. La violenza è, di fatti, l'oggetto privilegiato della poetica cinematografica di Nicolas Winding Refn ed è un tema che l'autore gestisce con una lucidità e una forza creativa davvero sconvolgenti. Nell'universo oscuro di Pusher non esistono vittime e carnefici, non è pensabile che le dinamiche narrative si dispieghino in una semplice caccia all'uomo o nel classico gioco d'inseguimenti tra gatto e topo, perché non ci sono gatti e non ci sono topi. Il mondo di Refn è un mondo di oppressi, di vittime per le quali non si può che provare un misto di ripugnanza e compassione. L'incedere dei tre film è un crescendo continuo e inevitabile che procede parallelamente a una conoscenza sempre più profonda dei personaggi con i quali entriamo in contatto fino a raggiungere livelli di complessità coraggiosissimi, straordinari e inusitati. Così quello che può sembrare un semplice film di genere acquisisce un'universalità emotivamente dirompente, cristallizzandosi in un modello di cinema spaventosamente rivoluzionario e attuale. A differenza degli stilemi tarantiniani, non c'è spirito sardonico, non c'è l'estetizzazione brillante e cinefila di "
Pulp Fiction" o di "
Kill Bill". C'è solo tanto, disperato dolore. Un malessere profondo che coinvolge non soltanto il protagonista, ma tutti i personaggi e che, come i livelli narrativi, si riversa sia nel malessere psicologico della vita familiare di Milo che nella furia iraconda della sua logica criminale. Il modo migliore per affrontare la trilogia "Pusher" è trangugiarla senza indugi, tutta d'un fiato, preferibilmente immersi nella tenebrosa solitudine di una gelida notte nordica.
Nel 2008 Refn cambia nuovamente registro, prendendo lo spunto da una vicenda reale di cronaca, la storia di Michael Peterson, in arte Charles Bronson, "il più celebre detenuto inglese della storia", condannato prima a 7 anni per rapina, poi diventati 34 anni (di cui 30 in isolamento), e oggi all'ergastolo causa sfrenata sregolatezza dietro le sbarre. Ma per
Bronson (2008) il regista danese rinuncia sia alla strada psicanalitica sia a quella sociale, così come sfugge alle facili scorciatoie del classico cinema carcerario, stilizzando fortemente l'impianto e rendendolo inqualificabile, quasi una schegga impazzita. Il protagonista si presenta agli spettatori come un clown immerso nelle ombre e penombre di un umile teatro. Un affabulatore di storie paradossali e autentiche, una maschera tragicomica inafferrabile soprattutto quando narra di una realtà stupefacente perché vera. Un maestro di cerimonie che apre e chiude le danze con una ironia gelida, con delle armi che sfuggono agli obiettivi del popolo. Il vero palcoscenico della sua vita resta la prigione, che rilegge secondo una personale ottica che impedisce alle ragnatele carcerarie di impoverirlo. La prigione diventa un luogo dove l'io assume fattezze attoriali, indossando varie maschere in uno degli spettacoli più atroci della vita. Un giro in una cella è un'audizione, il passare da cella in cella è un continuo cambio di set, dove la pelle muta di volta in volta, lo scontro fisico e la provocazione sono acqua per la sua vita carceraria, la violenza un'esigenza irrinunciabile. La violenza è una malattia alla quale Bronson non riesce a sfuggire, nonostante gli sporadici ed effimeri tentativi di rifarsi una vita. La violenza è anche rappresentata in varie modalità: addirittura come uno stilizzato balletto meccanico di elettro-pop (ma nella colonna sonora ci sono anche Verdi e Wagner, con pagine liriche) quando il protagonista per sbarcare il lunario sgancia botte, anche a più individui contemporaneamente. Lo spirito guerrigliero di Peterson si sposa con l'idea stessa di concepire arte: i tableaux vivants del prefinale rappresentano bene lo spirito antinaturalistico dell'impianto. Refn, infatti, scompone sia l'idea del biopic classico che del film su commissione, quale Bronson inizialmente pure è. L'idea del cineasta danese è quindi quella di donare alla sua opera un'anima che possa avvicinarsi il più possibile a quella del folle Peterson, interpretato da un istrionico e incisivo Tom Hardy, trasformato e trasformista.
L'opus nr. 8 di Refn cambia ancora le coordinate geografiche e temporali. Ambientato in terre lontane, popolate da vichinghi che parlano lo stretto necessario,
Valhalla Rising - Regno di sangue (2009) si apre e si chiude ebbro di simbolismi e concettualità. Suddiviso in capitoli (dai titoli evocativi di un percorso umano e parareligioso) il film ha nel ventre un breve quanto incisivo - almeno visivamente - confronto/scontro tra culto pagano e cristianesimo. Ma vi è sottointeso anche dell'altro. One Eye (Mads Mikkelsen), il guerriero vichingo senza un occhio e senza un passato, diventa, senza specifica volontà, "guida" e "padre" del bambino che lo ha nutrito durante la sua iniziale cattività. Il loro rapporto, totalmente privo di parole, si intensifica di sguardo in sguardo, di gesto in gesto, fino al finale (da alcuni troppo frettolosamente definito "scontato"). Tra le nebbie di una natura spesso tenebrosa e ostile, anche se a tratti abbacinante, nella scarna messinscena violentissima, nei lenti e angosciosi slanci poetici, sottolineato da una potente e "aulica" colonna sonora, Valhalla Rising si rivela un film difficile ma autentico. Forse non si tratta di un capolavoro né di una futura pietra miliare. Ma ha qualcosa da dire. In silenzio, con la giusta dose di mito e paura ancestrale.
Ma se
Valhalla Rising può essere annoverato come un episodio minore nella filmografia del regista danese,
Drive (2011) è invece la pellicola che lo lancia definitivamente, anche oltre il ristretto circolo dei cinefili che lo seguivano da anni. Il film, infatti, conquista il Premio per la Miglior Regia al 64° Festival di Cannes e finisce di diritto in buona parte delle classifiche delle riviste specializzate di fine anno. Merito anche della straordinaria interpretazione di Ryan Gosling, uno degli astri nascenti di Hollywood, e di una colonna sonora strepitosa, che Cliff Martinez seleziona con cura, pescando tra i suoni elettronici ambient e synth-pop. La storia, liberamente tratta dall'omonimo noir di James Sallis e ambientata nella multietnica Los Angeles, segue le traiettorie di uno stuntman part time, meccanico di giorno e autista per rapine di notte. Un'accelerazione a tavoletta fin dall'inizio, con la lunga sequenza prima dei titoli di testa di un furto-fuga-inseguimento, scanditi da musiche synth martellanti targate Chromatics dove il sobrio conducente avvolto nel suo bomber feticcio tiene a bada la tensione con il rombo del propulsore in uno degli
incipit cinematografici più adrenalinici degli ultimi anni. Per il guidatore taciturno sembra aprirsi un futuro da pilota grazie a Shannon (Bryan Cranston della serie tv "Breaking Bad") e all'investimento di una coppia di criminali, ma la relazione con la vicina di casa Irene lo trascinerà in un crescendo di violenza, esplosa fragorosamente nelle scene del motel e dell'ascensore - dove ancora una volta Refn lavora persuadendo con l'ausilio del suono, lasciando solo immaginare al pubblico la ferocia assassina. In quest'ultima sequenza c'è una sintesi del film: Driver è intrappolato nella cabina insieme a Irene e a un killer con il colpo in canna; il tempo si dilata, c'è un bacio appassionato, mentre il cavaliere-pilota fa scudo con il corpo e scocca il primo di una serie di brutali fendenti raggiungendo un climax imperioso. Proprio la doppia personalità rappresenta l'aspetto più interessante dell'uomo; fa emergere il contrasto tra il quieto ragazzo che si sporca le mani in officina per pochi dollari e la furia nervosa di uno psicopatico che in alcuni momenti non sfigurerebbe al cospetto dello schizzato protagonista di "
Taxi Driver". Il regista sembra voler tratteggiare il profilo di un nuovo supereroe metropolitano, un oscuro giustiziere buono che invece del mantello indossa come in un rituale guanti da guida e giubbotto con stampato uno scorpione (l'
angeriano "
Scorpio Rising" è dietro l'angolo).
Le riprese dinamiche proiettano emotivamente lo spettatore dentro la storia e lo deliziano con angolazioni che vanno a creare sorprendenti composizioni visive e con altri brillanti movimenti di macchina, oltre all'uso quasi straniante del montaggio ritmico e del ralenti a modellare un linguaggio filmico poderoso e in sincrono con le trascinanti musiche. Gosling/Driver, stunt di se stesso, è impassibile nella sua faccia imbalsamata da giocatore di poker; di rado regala un sorriso e si esprime attraverso codici non verbali, come il gesto ripetuto - spia di un pieno di aggressività - dello stringere i pugni. Le caratteristiche della vicenda non sono originali, ma Refn slalomeggia con una certa maestria tra gli ostacoli del
déjà vu concentrando la camera sulla contrapposizione mitezza/aggressività dell'imperturbabile e imprendibile (Walter Hill docet) "driver".
La forza universale del film sta nel suo essere contemporaneo, nella capacità del regista di offrire un trattamento coinvolgente (le panoramiche sullo sfondo tentacolare di una
LA lynchiana, l'uso puntuale della colonna sonora, il graphic design dei titoli), nel rivisitare con personalità l'ordinario
script di partenza facendone un piccolo, cupo manifesto urbano di ultima generazione.
È un cinema di essenze, quello di Refn che, fin dagli esordi
low budget, si è sempre posto come principale se non unico obiettivo la restituzione di un particolare universo percettivo attraverso le immagini in movimento. Consapevole di non essere il solo a girare film finalizzati a un'azione diretta sull'inconscio (
Lynch docet), il regista danese ha avviato un percorso di ricerca e autoanalisi che lo ha condotto a definire una base espressiva molto personale, punto d'equilibrio tra le vaste conoscenze da cinefilo e un forte temperamento registico.
Più che giocoso metacinema, è un'astratta e problematica operazione di
mise en abîme: l'immersione in un abisso di antinaturalismo esasperato che marchia il piano finzionale, separandolo da ogni forma di realtà, per mostrare apertamente la sua natura falsa, artefatta. E qui il passo è davvero definitivo, le modalità drammaturgicamente "oscene": con la cessazione di quel magico e a tratti fiabesco equilibrio di
Drive, del
mood ironico e parossistico di
Bronson o dell'incedere epico e ancestrale di
Valhalla Rising,
Solo Dio perdona rompe i velami dell'allegoria narrativa, eliminando quasi ogni elemento sovrastrutturale, per lasciare "nudi" i meccanismi annidati nella percezione dell'esperienza cinematografica, in un dialogo serrato tra regista e spettatore che coinvolge occhi, mente e cuore; è un salto coraggioso che trasfigura un testo narrativamente essenziale in un'ostica e audace opera d'avanguardia.
Ed è forse questa "diversa estensione" l'elemento mistico più forte che vuole suggerirci la dedica finale a Alejandro Jodorowsky.
Messe da parte le reazioni, c'è poco da sorprendersi: il percorso autoriale del Danese ha sempre più un'identità netta, una rotta precisa che il cineasta continua a seguire, alzando la posta in gioco, con
The Neon Demon. Disgiuntosi dagli indimenticabili corpi maschili intorno ai quali il suo cinema ha sempre gravitato (e che ha contribuito a lanciare, come nei casi di Mads Mikkelsen e di Ryan Gosling), Refn va alla ricerca della "sedicenne che è in lui": la timida Jesse, orfana adolescente che, col suo candore virginale e la sua grazia innata, conquista le passerelle di Los Angeles in men che non si dica, scatenando la furia (e gli appetiti) delle voraci avversarie. Non c'è contesto più allettante dell'universo mortifero e depravato della moda (e, per estensione, dell'età dell'apparenza) per lo sguardo del regista di Copenaghen; uno sguardo, al solito, smaniosamente tattile, epidermico, orgogliosamente
superficiale, in barba agli strali dei suoi denigratori. Del resto, mai come in questo caso, la
superficie "non è tutto, è l'unica cosa": non c'è altro da vedere, nient'altro da osservare. Nulla si cela al suo interno, è assolutamente vuota, come vuoto è tutto il primo segmento del film, il più esteso, che diluisce l'iniziazione di Jesse al culto mortale della propria bellezza con una rassegna sconfinata e stupefacente di patine, involucri e pelli. Protagonista assoluto lo splendore angelico della fanciulla, la sua carne tenera e perlacea, al cui cospetto la cute levigata delle colleghe rivela la consistenza sintetica della scorza inorganica, morta. Lo scarto abissale tra cosmesi e bellezza.
Non c'è descrizione né sviluppo, bensì una minima traccia narrativa, il pretesto che consente l'abbandono totale, senza filtri critici o distanze di sicurezza, allo sfolgorio degli abiti, al bagliore dei fari, all'ammaliante luccichio dei brillanti, delle ciprie e delle dorature. Il risaputo feticismo del cineasta si ripropone in ogni accezione, da quella psicologica, con l'attenzione erotica al singolo dettaglio, a quella antropologica, con l'esaltazione di un nuovo feticcio antropomorfo che ritiene abitato da un essere soprannaturale - questa volta si tratta della magnifica e acerba Elle Fanning. Eppure la foga gelida ed estetizzante, col consueto profluvio di epifanie al ralenti, movimenti galleggianti, visioni cristalline e di altre innumerevoli delizie rigorosamente arbitrarie e fini a se stesse, mai come in questo caso, è
funzionale alla completa metabolizzazione visiva di un mondo circoscritto e a sé stante, rispetto al quale anche la città è lontana e campeggia solo nel marchio effimero dello
skyline all'orizzonte. Un sistema chiuso e isolato che stabilisce a chiare lettere il suo codice (a)morale, e non tollera infrazioni: un personaggio, ritenendo che dietro le meraviglie dell'involucro si celi necessariamente qualcosa di più significativo e
sostanziale, svanisce di colpo, bandito, e con lui si spegne il fatuo fuocherello di una storia d'amore.
Una cesura, drastica, dà avvio al secondo atto, l'ultima
tranche: con un
défilé psichedelico, Jesse per la prima volta vede quel che gli altri vedono in lei, incontra, nella formidabile superficie del suo corpo, il proprio spirito pericoloso,
the neon demon; finalmente
si riconosce. L'agnizione non può avere altra forma se non quella sensuale e rutilante dello spot pubblicitario. Comincia la festa. Dopo aver assimilato a fondo l'essenza diabolica di quell'universo, Refn ne restituisce una parodia assurda e sanguinaria. Non condanna né ripudia nulla, anzi alza di colpo l'asticella e sguazza, con euforico sadismo, nelle acque limacciose del vizio aberrante, dell'efferatezza, dell'abominio. Onorando la regola aurea dell'eccesso, realizza una caricatura depravata, incardinata esclusivamente sull'esplicito. Di fatti, se la superficie, l'involucro, è l'unica verità possibile e non nasconde altro, l'immagine non può che mostrarsi, senza cautele o pudori di sorta, nella sua inequivocabile evidenza. Espliciti ed elementari fino al ridicolo sono allora i dialoghi il cui straniamento telecomandato sembra rispondere a una perfida ironia. Espliciti i simboli che assommano, appianandole, pulsioni sessuali e pulsioni di morte e che trasformano qualsiasi corpo o figura in oggetto inanimato, quindi in
imago mortis, servendosi di una sintassi pseudo-pubblicitaria e svelandone, senza mezzi termini, l'intrinseca necrofilia.
Altrettanto esplicita è la valanga di citazioni che chiamano all'appello, uno a uno, ispiratori e referenti depredati:
Lynch,
Cronenberg,
Hitchcock, Polanski,
Bava,
Argento, Deodato,
Zulawski,
De Palma,
Buñuel, tutto finisce nella centrifuga di un cinema ultraderivativo che però non rinnega né contamina mai la propria identità puro-visibilista. Esplicito è, come sempre, il mezzo-cinema che si palesa nella compulsiva manipolazione delle immagini, sempre più manierate, finte, artefatte. Eppure l'esplicito e la provocazione urlata, qui al limite del
trash, diventano, sorprendentemente, anticamera del più bizzarro ed efficace didascalismo. L'ebbrezza estetizzante del regista conduce alla deformazione mostruosa: quanto più l'immagine è limpida e sofisticata, tanto più il suo impatto è orripilante, disgustoso. Al piacere sensuale della visione si accosta un senso crescente di malessere, nausea e repulsione, in uno spasmodico cortocircuito che sfida la resistenza dello spettatore. E, paradossalmente, quasi lo educa. Se infatti a proposito dell'apparenza e del suo potere letale e fagocitante esistono inesauribili letterature e sterminate filmografie (da Bauman a Bret Easton Ellis, da
Cronenberg all'
ultimo Harmony Korine, per fare qualche nome a caso) è difficile pensare a una messa in scena che, introiettando scandalosamente l'immaginario che vuole scandagliare, riesca a generare in chi la guarda una miscela così esplosiva di attrazione e raccapriccio.
Inutile soffermarsi sulle qualità ormai consolidate di Nicolas Winding Refn, sulla sua capacità di amalgamare linguaggi incoerenti in un uniforme e densissimo fluido audiovisivo, di esaltare la forza esperienziale della settima arte e di esercitare un completo dominio sensoriale sullo spettatore, sempre e solo attraverso l'astrazione e la forma. Vale nel suo caso un discorso che può estendersi parimenti ad altri esteti-provocatori di professione come
Lars von Trier, Peter Greenaway o il sodale Gaspar Noè, autori anch'essi di un cinema liminare, di confine: il legittimo sdegno, sempre più aspro e perentorio, dei detrattori riesce a mettere in luce, molto meglio degli elogi dei più convinti estimatori, il valore ambiguo e ammaliante della sua ricerca, la vanità e l'urgenza della sua opera.
Nel suo breve, ma già pienamente esaustivo percorso cinematografico, il regista di Copenaghen ha fissato un nuovo modello di crime movie dall'abbagliante impatto visivo, lontanissimo dagli stereotipi hollywoodiani, e per certi versi più vicino a certo cinema orientale, per la sua qualità astratta, quasi metafisica, per il suo senso del fatalismo e dell'ineluttabilità della tragedia. Un cinema controllato al limite del cerebralismo, eppure sempre straordinariamente potente, suggestivo, perturbante.
Se il citazionismo cinefilo, come detto, è una delle qualità peculiari del cineasta danese, va altresì ribadito come il risultato finale sia qualcosa di totalmente inedito e straordinario. Anche il senso glaciale e visionario della messa in scena, il montaggio straniante, l'uso esasperato della colonna sonora sono tasselli fondamentali di un puzzle unico e per certi versi ancora indecifrato. Un affascinante enigma che, c'è da scommetterci, ci regalerà ancora molte emozioni nei prossimi anni.
C'è del marcio in Danimarca, ma, ancora una volta, fa sognare.
Contributi di Diego Capuano ("Bronson"), Massimo Versolatto ("Valhalla Rising"), Nicola Di Francesco ("Drive")