L'ultimo capitolo della trilogia dei Pusher si apre con un paio di lucide scarpe nere sotto un tavolo. I piedi del proprietario si accavallano lenti, ma nervosamente. Improvvisamente la macchina da presa si solleva fino a mostrare un'ampia saletta dalle pareti turchesi, al centro un tavolo e alcune persone pallide in volto, riunite tutt'intorno. Un altro leggero spostamento verso sinistra e l'occhio, all'istante, identifica un volto noto, dalle inconfondibili fattezze: Milo, il boss serbo, spietato e sanguinario che nel primo Pusher aveva reso la vita impossibile allo sciaguratissimo Frank a causa di un affare sporco andato male. Ma che ci fa seduto ad ascoltare educatamente gli astanti, in un incontro dei "Tossicodipendenti Anomali"? Prende la parola, si presenta, espone il suo caso, sorride amichevolmente. Sta parlando di sua figlia, è il giorno del suo venticinquesimo compleanno e lui le ha promesso che avrebbe cucinato per quarantacinque invitati. Sono cinque giorni che non tocca droga. È pulito, ma teme di non reggere ancora per molto. Conclude: "Spero che stavolta qualcosa non vada storto. Questo spero. E ce la farò". Partono i titoli di testa con la consueta, tenebrosa presentazione dei personaggi che appaiono sullo schermo, accompagnati dai rispettivi nomi, il volto diviso tra luce e ombra, lo sguardo truce.
Dopo questo prologo fulmineo, capiamo subito che quello che sembrava essere il film della redenzione, in realtà altro non racconta che una definitiva discesa negli inferi; un percorso tortuoso ma rapidissimo che il regista scinde in due piani diversi e distinti: la festa della figlia di Milo e la rivalità con le nuove gang balcaniche che gli stanno sottraendo affari e potere. Alla fine, è impossibile capire quale delle due situazioni sia più insopportabile, opprimente e, innanzitutto, violenta.
La violenza è, infatti, l'oggetto privilegiato della poetica cinematografica di Nicolas Winding Refn ed è un tema che l'autore gestisce con una lucidità e una forza creativa davvero sconvolgenti. Nell'universo oscuro di Pusher non esistono vittime e carnefici, non è pensabile che le dinamiche narrative si dispieghino in una semplice caccia all'uomo o nel classico gioco d'inseguimenti tra gatto e topo, perché non ci sono gatti e non ci sono topi. Il mondo di Refn è un mondo di oppressi, un mondo di vittime per le quali non si può che provare un misto di ripugnanza e compassione.
L'incedere dei tre film è un crescendo continuo e inevitabile che procede parallelamente a una conoscenza sempre più profonda dei personaggi con i quali entriamo in contatto fino a raggiungere livelli di complessità coraggiosissimi, straordinari e inusitati. Così quello che può sembrare un semplice film di genere acquisisce un'universalità emotivamente dirompente e inarrestabile, cristallizzandosi in un modello di cinema spaventosamente rivoluzionario e attuale.
Di conseguenza, il paragone più sbagliato che si possa esporre è quello con gli stilemi tarantiniani. Non c'è spirito sardonico in "L'angelo della morte", non c'è l'estetizzazione brillante e cinefila di "
Pulp Fiction" o di "
Kill Bill". C'è solo tanto, disperato dolore. Un malessere profondo che coinvolge non soltanto il protagonista, ma tutti i personaggi e che, come i livelli narrativi, si riversa sia nel malessere psicologico della vita familiare di Milo che nella furia iraconda della sua logica criminale.
Anche qui non mancano forti appigli con la realtà, indagata con una freddezza agghiacciante che raggiunge il suo vertiginoso picco in un finale necessariamente al sangue che fa della rivalsa violenta un mezzo indispensabile per portare al culmine un'esperienza fisica quasi insostenibile che lo spettatore affronta sconcertato, in un distillato di purissimo cinema.
Il modo migliore per affrontare la trilogia "Pusher", infatti, è trangugiarla senza indugi, tutta d'un fiato, preferibilmente immersi nella tenebrosa solitudine di una gelida notte nordica.
23/12/2011