Un filo nero come la notte unisce le opere del regista più visionario e sconcertante degli ultimi vent'anni, l'americano David Lynch, dallo sconvolgente esordio di "Eraserhead" nel 1977 all'"
Inland Empire" del 2007, in un percorso su strade non razionali, emotive, tipiche del sogno e dell'inconscio, strade perdute, dove la vertigine del perdersi coincide, fatidicamente, col piacere stesso del cinema.
Il cinema di Lynch è fatto di soglie, di zone liminari, di confini distanti dall'assolato e rassicurante centro della scena del cinema tradizionale, là dove il suo sguardo (la sua macchina da presa) si spinge guidando gli occhi degli spettatori secondo un unico disegno, perverso, magnifico: perderci, insieme a lui, in un altro mondo.
Se il protagonista del suo esordio sfuggiva all'orrore della famiglia e della vita in una città da incubo industriale, viaggiando con la mente oltre i muri della sua stanza, gli adolescenti di "Velluto Blu" (1986) passavano da un mondo artefatto di innocenza e banale felicità in un uno di esperienza, sesso, torbidi intrighi, seguendo un incredibile movimento della macchina da presa che ne guidava letteralmente lo sguardo
dentro un orecchio mozzato rinvenuto in un curatissimo prato borghese. E se il protagonista del telefilm "Twin Peaks" varcava la soglia di una sorta di aldilà, nascosta tra i boschi di una anonima cittadina di provincia, quello di "Strade Perdute" entrava addirittura in un'altra storia, diventando un altro personaggio, del quale lo spettatore era costretto a seguire le vicende, avendo perso il proprio protagonista in qualche piega inaudita del racconto.
"Mulholland Drive", del 2001, è l'opera in cui tutte le altre summenzionate trovano una sorta di compimento, una forma classica che emerge da un discorso che per anni è sembrato un perdersi, un divagare, un seguire a piacere i percorsi della mente, programmaticamente, edonisticamente senza una meta.
Chi si chiede come sia possibile una tale contraddizione in termini ha soltanto iniziato a penetrare la sostanza di un mondo dove
tutto è doppio, ogni cosa è vera e anche il suo contrario.
Tutti i film precedenti di Lynch sono anche film sul Cinema, perché ne manipolano le logiche interne, scardinandone il linguaggio non attraverso terribili scossoni alla struttura, ma una miriade di piccoli sabotaggi, giocando coi generi narrativi (il
noir, il
road movie, il giallo) non per dire altro attraverso essi, ma per ritrovarli e rimirarli in una luce nuova. Per trovare nuova una stanza non c'è bisogno di spostare o distruggere tutto l'arredamento, sembra dire Lynch, bastano pochi, sottili cambiamenti, che però siano in grado di rendere diverso il nostro sguardo.
"Mulholland Drive" (dal nome della strada che percorre le colline di Hollywood, nella quale si svolgono due scene cruciali del film) rende però esplicito questo meccanismo assumendo a protagonista un'attrice, a
setting la zona di Hollywood, a sfondo il mondo del cinema. Mentre seguiamo l'ascesa alla gloria della solare, ingenua aspirante attrice Betty, arrivata dall'Ontario a Los Angeles per sfondare nel mondo del cinema, il suo intrecciare i destini con una smemorata
femme fatale reduce da un incidente d'auto, fino a trasformare il rapporto con lei in storia d'amore saffico, incrociando nel frattempo le peripezie tragicomiche di un regista impegnato a girare un film, abbiamo la sensazione che Lynch stia giocando con noi. Stiamo infatti assistendo a una commedia, dove a tener viva la tensione e, diciamolo pure, il malessere dello spettatore, consapevole che qualcosa non torna, sono una serie di personaggi e situazioni non per forza sinistri ma grotteschi, caricaturali, assurdi. Una scena cardine è quella del provino, il primo sostenuto da Betty, che si risolve inverosimilmente in un trionfo di addetti ai lavori ammirati e pronti a lanciarla seduta stante nel firmamento del cinema. È lo stesso patto tra spettatore e narratore che qui salta, perché ci rendiamo conto che tutto è volutamente sopra le righe, e non possiamo prendere per buono ciò che vediamo neanche secondo i canoni linguistici, già di per sé non verosimili, della commedia.
Ben presto tutto precipita, in un movimento di vertigine. La ricerca dell'identità della donna misteriosa (ora chiamata Rita, prendendo spunto da un manifesto della Hayworth) incontrata da Betty porta le due al rinvenimento di un cadavere di donna in un bungalow, in una delle sequenze più angosciose e cariche di tensione del film. È qui che si mostra la capacità di Lynch di sviare dai normali percorsi, perché a colpirci non è l'apparizione stessa del cadavere, ma tutto il percorso di avvicinamento delle due alla stanza, segnato da una tensione insostenibile perché quasi ingiustificata sul piano narrativo, creata dalla musica e dalla trasformazione della normale
soggettiva in uno sguardo alieno, in grado di rendere misterioso e gravido di presagi un corridoio, un oggetto, per il semplice fatto che su esso ci si sofferma troppo a lungo e insistentemente.
Il trapasso della soglia, ormai imminente, viene stavolta illustrato in un esercizio di pura meta-narrazione nella magistrale scena ambientata al Club del Silenzio. Qui un personaggio luciferino spiega alle due protagoniste spettatrici che il numero musicale che va ad eseguire è un'illusione perché "
è tutto registrato. Non c'è una banda". Successivamente, le due assistono alla travolgente esibizione vocale di una cantante, che le lascia commosse finché la donna non sviene, rivelando che anche la sua voce è registrata. Quale migliore esemplificazione del potere suggestivo del
vedere rispetto alle facoltà razionali, del meccanismo di auto-illusione che sta alla base del cinema ma anche, in una certa misura, della vita stessa? Proprio durante la sequenza di disvelamento dell'artifizio, Betty rinviene nella propria borsetta una scatola blu e, quando Rita inserisce in essa una chiave precedentemente ritrovata, la macchina da presa ne viene risucchiata.
Tutta la parte successiva del film si svolge in un altro mondo, dove ricompaiono personaggi e posti, ma in modo ribaltato: Betty (ora chiamata Diane) è un'attricetta di scarso successo, Rita (ora Camilla) è la prediletta del regista e per lui ha lasciato Betty, quest'ultima chiede a un sicario di vendicarla uccidendo l'amica ma alla fine, travolta dai rimorsi e dalla disperazione, finisce per suicidarsi, diventando il cadavere nel bungalow.
Quindi, se in "Strade Perdute" il secondo personaggio era evidentemente il sogno di vita del primo, fallito e geloso, qui il gioco si ribalta: si passa dal sogno, dal desiderio, all'amara realtà. Le due diverse dimensioni sono rese con una maestria particolarmente sottile (anche rispetto alle spettacolari antitesi luce-buio di "Velluto Blu") giocando sul trapasso da una gamma di colori pop, iperrealisti, nella prima parte, alle tinte smorzate e livide della seconda per quanto riguarda la fotografia e contando, sul piano della recitazione, sulla
performance straordinaria di Naomi Watts (l'attrice che interpreta Betty), capace di passare da una figura di tenera e ingenua alla Monroe, a una maschera tragica e sfatta, rappresentando quasi due donne diverse.
Però le cose non sono così semplici, perché si è parlato fin da subito di Cinema, quindi il trapasso è anche quello dal sogno del fare cinema alla realtà prosaica dell'industria dello spettacolo. Entrambe le situazioni sono inquadrate in quella che sembra una satira feroce quanto, per le proprietà del doppio
lynchiano, un profondo atto d'amore per la settima arte e, forse, anche un vero e proprio bilancio esistenziale del regista. Siamo quindi di fronte all'"Otto e mezzo" di Lynch (e il paragone con Fellini non è casuale né irrispettoso: chi più del maestro italiano ha identificato cinema e sogno?), con tutte le citazioni del caso, dalla scritta "Sunset Boulevard" che compare a omaggio del "Viale del Tramonto" di Wilder, altro grande affresco tragicomico sul Cinema, alla scena della canzone che richiama l'amico Almodóvar, grande irregolare degli anni Ottanta, ai personaggi degli anziani coniugi, che compaiono una prima volta bonari e una seconda come apparizioni demoniache nel delirio suicida di Diane, simili a quelli di "Rosemary's Baby" di Polanski.
A tirare le fila tra i due mondi che sfumano uno nell'altro è, anche questa volta, un demiurgo, l'inafferrabile personaggio (lo stesso dell'infernale loggia nera di Twin Peaks...) che sembra manovrare tutti decidendone i destini ("
è lei la ragazza"), mentre un'altra apparizione sovrannaturale, l'uomo nero nascosto dietro il ristorante, compare in entrambi i piani narrativi con funzione destabilizzante.
Il cinema di Lynch è questo, un luogo dove l'uomo nero (che un personaggio dichiara di aver sognato e che poi va a cercare sul serio, in una sequenza che ci riporta alle più magiche paure dell'infanzia) può essere
davvero dietro l'angolo, perché il principio razionale della verosimiglianza soccombe al principio di piacere, all'abbandono sulle infinite strade della mente. Così, dopo aver prodotto il proprio capolavoro in senso classico, il regista ci proporrà un altro film, "
Inland Empire", molto simile per il ritornare coerente di temi e atmosfere, ma del tutto deragliante nella forma, torrenziale, incompiuto, a testimoniare ancora una volta che le strade e i modi in cui perdersi sono inesauribili, perché l'interiorità è un infinito Impero (delle luci, avrebbe detto Magritte, e cos'altro è il cinema se non luce?).
Ma alla fine dei conti, mentre il film si chiude stagliando i volti delle due donne sullo sfondo delle luci di Hollywood, consideriamo che il film è anche e soprattutto una storia d'amore romantico, una esaltazione di quel trucco magico chiamato Cinema, che esiste davanti ai nostri occhi solo fin quando lo stregone Lynch non proclama l'inevitabile fine del gioco:
silencio.
08/09/2008