Non è reale. Non può essere reale, è solo un incubo nero, una turbolenza onirica quella in cui Harry Caine si trova precipitato dall'assassinio della moglie. Inspiegabile, insensato e brutale omicidio. È un sogno andato male e finito tra le pieghe di un velluto lynchiano, sommerso da una rosso oscuro e sinistro che lo proietta nel labirinto dell'inconscio. La storia che ci racconta questa volta Refn è semplice, se vuoi banale, ma narrata con un'eleganza magistrale sin dalla prima inquadratura, sin dal primo squarcio d'un film fatto di squarci, strappi, cunicoli e interferenze. Nella prima inquadratura si celano reminiscenze di kubrickiana memoria ("Il bacio dell'assassino", 1955) ed il gioco perverso della mente del protagonista inizia a muoversi sulla giostra della tortura cercando di scrutare oltre uno squarcio in modo disperato, voyeuristico (vedi "
La conversazione", 1974), allucinato anche ("Velluto Blu", 1986) per intravedere e ripercorrere i passi che hanno condotto alla morte della moglie. Lo squarcio che separa due tende viene aperto completamente, l'immagine si mostra nella sua completezza e lo schermo si riempie del film.
Harry (interpretato da un John Turturro in stato di grazia) non vuole altro che una spiegazione, una ragione, un "perché" che dia senso alla morte della moglie, ma proprio la spiegazione e la ragione vengono precluse allo spettatore disorientato sin dall'inizio in una lotta tra realtà differenti che prendono lo stesso diritto d'essere. Mentre forse l'unica realtà si annida tra i pixel sgranati delle immagini televisive (
Videodrome, 1983,
docet) forse Harry stesso è incastrato in una di quelle immagini tra cui cerca di scorgere il volto dell'assassino. Alla ricerca di un assoluto sconosciuto si addentra troppo oltre nella tana del Bianconiglio per poterne far ritorno.
A momenti Refn e Hubert Selby Jr. (che affianca il regista danese nella scrittura) si spingono un po' troppo oltre e così la parte centrale del film rischia di collassare su se stessa in una serie di scene di una tale ingenua semplicità che solo Lynch avrebbe saputo tenere in piedi (la tavola calda, la stazione di polizia), ma il punto basso della pellicola è solo un breve incidente di percorso e subito il film si avvia verso una frenetica quanto allucinata conclusione. Tra le pieghe di questa storia si annida il più puro seme dell'incubo sorretto da tre pilastri inamovibili: la recitazione affilata come un rasoio di Turturro, le musiche che emergono direttamente dall'inconscio di Bian Eno e la visionaria potenza del linguaggio visivo di Refn. Poco conta cosa sia realmente accaduto o dove la strada condurrà.
Spengi le luci, spengi la ragione e sprofonda nel divano. Immergiti in questa insanità.
14/01/2012