Ondacinema

Da “Strade Violente” a “Blackhat”, la carriera di un regista che ha sempre sostenuto la necessità di raccontare “il vero” delle sottoculture criminali. Ultimo “classico” estremamente moderno del cinema americano, Mann ha fotografato come pochi altri il professionismo criminale, violento e metropolitano

A detta di molti critici, Michael Mann è uno degli ultimi rappresentanti del Nuovo Cinema Americano. Appare ovviamente paradossale parlare di "ultimo" per qualcosa che nell'accezione stessa del termine indica "novità". Eppure il Nuovo Cinema è un fenomeno oramai vecchio, non tramontato, ma fuori età. La nascita di questa corrente, o vague come la definiscono i francesi, è collocabile cronologicamente a metà degli anni 60. Giovani talentuosi, dotati di una fervida immaginazione avrebbero, negli anni a venire, spinto il cinema americano verso "sguardi" inediti per l'epoca. Scorsese, Coppola, De Palma, Cronenberg, Polanski, Lucas e altri ribelli del cinema di quell'epoca, forti della lezione "cormaniana"[1], diedero vita a capolavori che hanno rivoluzionato il concetto stesso di cinema, decretando la nascita, contemporaneamente al "movimento" di cui sopra, del modo di fare cinema "neoclassico". Il futuro di quella "visione" sarebbe stato il "post-moderno", se così lo possiamo definire, vera e propria stilizzazione "al cubo" di tutto l'universo cinema. Quel post-modernismo è forse ormai il "presente" del cinema contemporaneo.

Michael Mann, come suggerisce Alessandro Borri, è un "coetaneo" del Nuovo Cinema Americano. Ma lo è anagraficamente, non cinematograficamente. Il suo esordio tardivo (1979), avviene durante il periodo di piena fioritura di quel nuovo modo di fare film (di quello stesso anno ricordiamo, tra i tanti, "Apocalypse Now", "Alien", "Manhattan"). Mann non ne è dunque un vero e proprio rappresentante. Se è possibile ritrovare nel suo cinema alcuni topoi riscontrabili in quella corrente Nuova, è pur chiaro come Mann abbia proposto una sua visione particolare, forse in una prima fase più classicheggiante, non meno devastata ma probabilmente più eroica. Di fatto dunque sarebbe corretto affermare che Mann non appartiene al Nuovo Cinema Americano in senso stretto, ma con uno sguardo più ampio si può suggerire che lui è "uno degli ultimi frutti di una stagione cinematografica memorabile"[2].


L'ultimo "eroe" del cinema americano


"Non mi piace lo stile" 

Michael Mann nasce nel 1943 a Chicago, in un quartiere vicino al "Patch", la zona più rovente e pericolosa della Chicago d'allora. Non a caso fu uno dei pochi della sua scuola a riuscire ad andare al college. Dopo averlo frequentato in Wisconsin, si trasferisce a Londra, dove frequenta la London Film School. La sua formazione culturale è in questo senso molto eterogenea. Ritorna negli Usa nel 1972, trasferendosi a Los Angeles, dove inizia a muovere i primi passi nel mondo del cinema con alcuni cortometraggi. Il suo lungometraggio d'esordio è un film per la TV ed è datato 1979. La corsa di Jericho, dramma d'ambiente carcerario, racconta la storia di un detenuto a Folsom che corre il miglio in quattro minuti. Forte della consapevolezza di essere un atleta capace, chiede alla Commissione Olimpica di partecipare alle prossime Olimpiadi. La proposta viene bocciata e lui corre il miglio tra le mura della prigione, battendo il record americano, ma senza alcun trionfo ufficiale. Girato e montato con taglio drammatico, senza voce off, La corsa di Jericho lascia spazio ai dialoghi dei suoi protagonisti e non enfatizza il solo versante melodrammatico della rivincita, del riscatto del protagonista. Mann punta a descrivere la quotidianità del carcere, i complessi rapporti tra i detenuti e gli inevitabili problemi razziali. Il risultato finale è un film imperfetto ma non privo di spunti d'analisi. La troupe ha girato realmente dentro a Folsom e durante le riprese si sono verificati oltre dieci accoltellamenti tra detenuti e pure un omicidio.

mann_insert_1Forte dei buoni risultati ottenuti con La corsa di Jericho, Mann presenta ai produttori un nuovo progetto con il quale vuole raggiungere il "cinema". Strade Violente (1981) è infatti il primo film di Mann ad essere proiettato nelle sale. In un certo senso, è un "secondo esordio". James Caan, in splendida forma, ne è l'interprete principale: un ladro professionista stufo di rischiare il carcere e intenzionato a cambiar vita. Strade Violente segna anche il ritorno-omaggio di Mann alla sua Chicago. La fotografia della pellicola è notevole e, su richiesta di Mann, "bagnata" al punto da risultare una sorta di "tunnel scavato all'interno della notte"[3]. Meno banale di quello che il canovaccio di base può far pensare, meno action di molti altri prodotti di genere, Strade Violente si rifà in un certo senso alla lezione dei polar francesi, ma solo formalmente. Ciò che racconta è invece il frutto dell'approfondimento di una conoscenza diretta con alcuni rapinatori veri e propri. Oscuro come la notte, il film descrive attimi di vita professionale del ladro, con l'accurato studio dei colpi, la precisione millimetrica delle loro esecuzioni, la maestosa riuscita di certi "capolavori del furto" - l'ultima rapina della pellicola è una scena da antologia del genere - e li intreccia con la condizione emozionale di Frank, il protagonista, in costante "bilico" esistenziale, indeciso su cosa fare della propria vita, invogliato a mollare tutto, mettere la testa a posto e sposare la donna di cui si è innamorato. L'uomo però è probabilmente conscio del fatto che l'unica cosa che sa fare è organizzare colpi e portarli brillantemente a termine. Non è un caso che, nella decade successiva, Neil McCauley, protagonista di un'altra pellicola dello stesso regista, sottolinei lo stesso pensiero.

Strade Violente
segna un ottimo successo di pubblico e Mann ottiene decine di proposte dagli Studios. Quello che lo colpisce maggiormente è un progetto diverso dai precedenti. Si tratta infatti di un'idea per un adattamento da un romanzo fanta-horror. La fortezza (1983) risulta essere, ad oggi, la prima e unica incursione di Mann nel genere fantascientifico. Tratto liberamente dal bel romanzo di F. Paul Wilson, questa pellicola è per certi versi più un film horror ideologizzato che un vero e proprio progetto di science fiction. Scritto dallo stesso regista, nonostante l'adattamento dal libro - o forse per questo? - pecca soprattutto a livello di sceneggiatura, dove l'eccesso di dialoghi para-filosofici e la presenza di alcune lungaggini fanno perdere del ritmo alla narrazione. Non si tratta certamente di una delle opere più consapevoli o "sicure" del regista americano, ma è apprezzabile la cura per i particolari scenografici, la splendida fotografia - costantemente immersa in una cortina di fumo biancastro - e la sapiente regia delle sequenze di suspense. Ancora una volta è possibile scorgere la cura di Mann per quello che è il lato umano dei suoi personaggi (anche se i tratti psicologici dei protagonisti, in alcuni casi, risultano poco più che abbozzati). Film complessivamente non eccelso, riuscito forse a metà, La fortezza vale per almeno due sequenze, dove l'uso del ralenty accentua e "marchia" le scene, anche grazie al contributo musicale molto "rock".

Il film successivo, Manhunter - frammenti di un omicidio (1986) è indubbiamente un punto di svolta nella carriera di Mann. Girato a ritmi quasi insostenibili, con il fiato sul collo della produzione, è una pellicola molto importante nella maturazione registica di Mann, come sostiene Dov Hoenig, montatore del film. Di nuovo rielaborando un romanzo ("Red Dragon" di Thomas Harris) Mann si focalizza sullo studio di una certa "cultura violenta". Il dottor Lecter, reso celebre in seguito grazie alla superba interpretazione di Anthony Hopkins ne "Il silenzio degli innocenti", è qui interpretato da Brian Cox che ne delinea il primo abbozzo di fascinazione per il male. Will Graham (William Petersen, all'epoca lanciato verso il successo) che qualche anno prima aveva arrestato Lecter, "vincendo" con lui una sorta di partita psicologica, si vede costretto a ritornare dal criminale antropofago, in un carcere dove tutto è bianco, intonso, immacolato, per chiedergli delucidazioni in merito agli omicidi di un misterioso assassino seriale. È palese, in questa pellicola, la dicotomia di Graham, personaggio "buono" che dà la caccia all'assassino, ma dal quale contemporaneamente forse è affascinato. Lecter (nel film volutamente storpiato in "Lecktor") suggerisce una visione, che è anche il "sottostante" della pellicola: «Graham, lo sai perché mi hai preso? Perché hai pensato come me. Tu sei come me, e come lui...» Il Manhunter è Graham, che cerca di arrestare l'assassino. Lui è un cacciatore di criminali, un hunter. Ma il Manhunter è anche "Dente di fata", il pazzo assassino seriale che studia le famiglie felici, poi entra nelle loro case e ne fa scempio. Anche la sua, per quanto singolare, è una caccia. Film che si potrebbe prestare a molte visioni, Manhunter è uno dei più lucidi thriller degli anni 80. Vestito della pop culture di quella decade, un po' come "Vivere e morire a Los Angeles" di Friedkin, altro meraviglioso film di quel decennio, ha forse acquistato "peso" e "valore narrativo" solo negli anni successivi, risultando a suo modo premonitore di certa, insensata violenza.

Negli anni 80 Mann si impegna attivamente anche sul versante televisivo. Scrive alcuni episodi della serie Starsky & Hutch, dà il via alla serie Vega$ ed elabora assieme a Chuck Adamson (un ex poliziotto) il canovaccio della serie Crime Story, che complessivamente però non avrà molto successo e verrà cancellata dopo la seconda stagione. Su tutte, comunque, la serie che in assoluto consacra Mann anche a livello televisivo è la celeberrima Miami Vice. Creata originariamente da Anthony Yerkovich, di cui pochi ricordano il nome nella sigla d'apertura di ogni puntata, è per tutti la "serie di Mann". Miami Vice rivoluziona il concetto di telefilm, di serializzazione televisiva inserendovi elementi tipici del cinema e spingendo agli estremi il versante "visivo", per non parlare delle scelte musicali, con la creazione di vere e proprie soundtrack commercializzate nei negozi. Miami Vice, nell'arco delle sue cinque stagioni, ottiene un successo clamoroso e ancora oggi tutti la ricordano come serie alla MTV.

Negli anni 90 Mann torna a dedicarsi intensamente al "cinema". Non tanto dal punto di vista della quantità di film diretti ("solo" tre) ma per il fatto che in tutti questi - e anche nel primo film della decade successiva - si riscontra una rinnovata necessità di approfondimento della "dimensione reale" delle sue storie. Nel 1992 Mann ottiene la possibilità di girare una "nuova" versione di celluloide del libro di James Fenimore Cooper "L'ultimo dei Mohicani". A Mann non piace l'idea di basare la sua pellicola su quel romanzo; piuttosto preferisce acquistare i diritti di una sceneggiatura del 1936, scritta da Phillip Dunne. Questo perché la trova più "realistica" e vicina al tipo di film che ha in mente di girare. Ad oggi L'ultimo dei Mohicani è uno dei massimi successi al botteghino ottenuti dal regista di Chicago (al terzo posto dopo CollateralNemico Pubblico, in valore assoluto. Se però aggiustiamo i dati in base all'inflazione balza al primo posto della classifica [4]). Indubbiamente si tratta di un film di notevole impatto visivo e grande enfasi. Tuttavia soffermarsi su questa visione "eroica" sarebbe fuorviante. Negli intenti di Mann, c'è la voglia di osservare la nascita della sua America, di quella cultura e di quell'universo che gli sta tanto a cuore. Colti o meno i sottotesti, il pubblico lo ha comunque apprezzato e Mann ha ottenuto molta più libertà a livello produttivo per i film successivi. Tre anni dopo, nel 1995, esce Heat.

mann_insert_2Mann teneva nel cassetto la sceneggiatura di quel film dal 1975. Ne aveva anche girato un film TV, leggero abbozzo di idee per un futuro, il cui titolo italiano è Sei solo, agente Vincent, in attesa del momento migliore per realizzare il progetto finale, quello che aveva in testa da così tanto tempo. Da molti definito come il suo capolavoro assoluto, Heat è fondamentalmente il personale affresco di Mann, ricco, pieno, "di genere" di una Los Angeles contemporanea dove Vincent Hanna, poliziotto istintivo e irruento dà la caccia a Neil McCauley, ladro professionista e compassato. Film straordinario per impatto visivo e forza narrativa - Morandini suggerisce che la sua fitta trama potrebbe alimentare tre o quattro thriller convenzionali - è uno degli esempi di cinema poliziesco più intensi degli anni 90. Anche in questo caso Mann si spinge "oltre" e racconta, amalgamandole e plasmandole secondo la sua esigenza di narratore, storie di personaggi realmente conosciuti nel cuore di Los Angeles. Esempio lampante: Chuck Adamson fu poliziotto e diede realmente la caccia a un ladro di nome Neil McCauley.

Nel 1999 è la volta di Insider. Qui il realismo manniano raggiunge i massimi livelli (poi riproposti anche nel film successivo, Alì) rendendo la pellicola quasi una sorta di documentario "sottopelle" mascherato da film (per Mann, lo spettatore non deve "guardare" la vicenda come in un classico documentario distaccato, ma la deve "vivere" in prima persona). Basandosi su un articolo di Marie Brenner pubblicato su Vanity Fair e intitolato "The Man Who Knew Too Much", Mann ricostruisce la storia del rapporto tra Lowell Bergman (il vero Bergman è anche amico del regista), autore di "60 Minutes", popolare trasmissione della CBS e Jeffrey Wigand, ex chimico della Brown & Williamson, in possesso di informazioni sulla presunta manipolazione del tabacco da parte della compagnia presso la quale lavorava. Come ammette lo stesso regista, questo film è risultato molto complesso, perché le difficoltà maggiori erano insite a livello di sceneggiatura. Il film doveva raccontare esclusivamente "la verità". Nessuna licenza artistica. Sarebbe stato troppo rischioso, soprattutto a livello legale. Insomma, un film che era meglio non fare. Mann, cocciuto come al solito, lo fa lo stesso. E ne viene fuori un grande, intenso film "da camera" che mira a smascherare le Corporation del tabacco, le manovre illegali dei loro gruppi di potere decretando al contempo una vittoria "morale" del giornalismo. Lo fa in maniera silente, quasi liturgica, senza mai mostrare una sola sigaretta accesa in tutto il film o una persona che stia fumando. Insider non è un saggio di giornalismo come "Tutti gli uomini del presidente" né un film "estremamente" politico come "Z - L'orgia del potere" (pellicola, tra l'altro, che ha in mente il produttore Roth quando propone il progetto "Insider" a Mann), ma esemplifica come il regista di Chicago vede la necessità, di nuovo, di "raccontare" ciò che ritiene giusto, ancora una volta con una visuale "stretta" sul soggetto - si notino le inquadrature a pochissimi centimetri dalla montatura degli occhiali di Wigand.

Nel 2001 esce nelle sale Alì. Film sulla boxe, mi si passi il termine, "a livello collaterale", è più nello specifico una fotografia di dieci anni (1964 - 1974) di storia contemporanea. Alì ne è stato un illustre rappresentante, con le sue paure, i suoi dubbi superati con la forza di boxeur e come uomo "simbolo" - che non ha mai ceduto sul Vietnam, sulla fede musulmana, sulle sue scelte di vita -. Mann, assieme a Will Smith (che ha coprodotto il film, è ingrassato moltissimo, si è allenato duramente e ha visionato tutti gli incontri di Alì per mesi), ha realizzato un inedito ed elegante film sportivo dove la dimensione politico-sociale è predominante. Non ci si aspettino perciò combattimenti adrenalinici, ring insanguinati e rounds a profusione. Le scene di boxe non sono tutto, in Alì. Ma quelle mirate, intense sequenze hanno un potente impatto emotivo. Su tutte, lo splendido 8° round dell'incontro in Zaire, con i memorabili ganci finali, al rallentatore sulle note di Salif Keita, dilatati come a voler fermare il tempo di quello strepitoso incontro, nella riproposizione delle atmosfere di un tempo, di un passato nel quale "eravamo re" e gridavamo "bumaye Alì" [5].

mann_insert_3Collateral
, il film successivo, datato 2004, è tra le opere più introspettive di Mann. Un film, antropologicamente, di "sintesi". Sintesi dei concetti, delle esigenze di autore, di ciò che è il credo registico di Michael Mann. Come lo definisce il regista stesso, è "compatto". Girato per lunga parte dentro a un taxi, narra le vicende, tutte in una notte, di Max, innocente e innocuo tassista, e di Vincent, killer prezzolato che sceglie il taxi di Max per raggiungere i luoghi dove si trovano le sue vittime. Travestito da thriller - del cui genere mantiene comunque i topoi: ritmo, suspense, velocità e forza -, Collateral è in realtà lo sguardo più colto, sentito e sincero di Mann nei confronti della società contemporanea. Mann sfrutta il genere che maggiormente gli si confà e dipinge i tratti della normalità, in declino, del crimine (Tom Cruise, abbandonando la sua notoria recitazione "tarantolata" e lavorando per sottrazione, ne è interprete magistrale) in contrapposizione con l'abbandono - altra forma di declino, interiore - nei confronti della vita da parte del tassista Max (che si dichiara pronto a "svoltare" ma in realtà sa bene che non abbandonerà mai il suo taxi, perché non ne ha la forza). Sfruttando la tecnologia digitale e chiudendo, in un certo senso, una parentesi filmica passata, Mann dirige un film molto diverso dai precedenti. E non solo a livello di fotografia, grazie appunto all'uso del digitale (quasi l'80% della pellicola), ma anche in un cambio della "squadra" tecnica che partecipa al film. Il risultato è un'opera che, curiosamente, è vittima di una strana duplicità: in qualche modo punto di svolta rispetto ai film precedenti, rimane pur sempre una pellicola manniana in senso lato. Applauditissimo a Venezia.

Miami
Vice (2006), a distanza di due anni da Collateral, è per Mann l'occasione di riprendere in mano una sua vecchia creazione e di rielaborarne il contenuto in chiave attuale, in linea, indubbiamente, con le sue recenti scelte registiche. Ne viene fuori un'opera notevole, dal respiro ampio, che ha incassato molto poco rispetto a quanto è costato produrla - le riprese sono state interrotte per i problemi più disparati: un uragano, un ricovero improvviso di Farrell, un proiettile veramente sparato contro un addetto alla sicurezza - e probabilmente non è stata compresa appieno. Farrell e Foxx, rispettivamente due moderni Sonny e Rico, si infiltrano come corrieri freelance in un giro internazionale di armi, droga e quant'altro che fa capo ad Arcangel de Jesus Montoya, nel tentativo di arrestare uno dei più grossi criminali internazionali. Le cose si complicano quando Sonny si innamora della donna di Montoya (Gong Li). Sfruttando un canovaccio piuttosto semplice e già visto, Mann dilata i tempi di ripresa, si focalizza sugli sguardi e sulle attese, allontanandosi volutamente dalla narrazione lineare del racconto - che prosegue ugualmente liscia e senza pieghe - e stringendo lo sguardo della macchina da presa su particolari di contorno (il mare, il cielo). Su tutti, di questo film resta Gong Li, intensa "perla" quasi sempre senza un filo di trucco e a maggior ragione bellissima.

Il 2009 è l'anno di Nemico Pubblico. Michael Mann realizza il suo secondo biopic, dopo Alì - questa volta si tratta di un personaggio diametralmente opposto.  Storia di John Dillinger e del suo rapporto con l'uomo che gli dà la caccia - Melvin Purvis, G-Man del FBI - è l'opera più piena e consapevole del regista, nonché per molti versi un film di rimandi al passato cinematografico di Mann (la prima rapina che fa il verso a Heat, la storia d'amore impossibile tra John e Billie che riecheggia Miami Vice o il semplice rapporto intimamente "di petto" da parte di Dillinger nei confronti della vita, da vivere al massimo, ora). Si noti che il titolo originale è al plurale. Mann non affronta solo la storia di Dillinger, ma attraverso di essa studia piuttosto una tipologia d'individuo. L'uso del digitale e alcune scelte registiche come la massiccia telecamera a spalla (tutte cose fortemente criticate) fanno di Nemico Pubblico un film di rottura nel genere  "gangster": il regista di Chicago affronta il crimine di "ieri" con lo sguardo ex-post, rendendolo "attuale", come a significare che in fondo la violenza dell'essere umano è sempre e comunque la stessa. Mann riesce a raccontare qualcosa di "vecchio", con uno sguardo "nuovo", senza rinunciare al suo "modo" di fare cinema. Insomma Nemico Pubblico è Mann al cento per cento. E non smentisce, anzi fortifica l'idea, la storia d'amore travagliata di Dillinger e Frechette, perché in fondo Mann è un romantico. E più le storie sono strazianti, più lo colpiscono nel cuore dandogli l'ispirazione giusta. 


Dopo quasi sei anni di lontananza dalle scene, Mann torna nel 2015 con un thriller cibernetico, ma solo all'apparenza. Blackhat infatti ha nella vicenda degli hacker internazionali solo un pretesto narrativo. Il film di Mann vuole invece focalizzarsi sulla "distanza", sul costante interiorizzare dei sentimenti e in un certo senso reitera, quasi all'esasperazione, le atmosfere e il percorso interrotto di Miami Vice, ma senza riuscire a dare vera continuità a quel "discorso". 

Dopo il 1933 dei nemici pubblici, Mann torna alla verticalità metropolitana, all'assenza di uno spazio per l'essere umano contemporaneo e nei momenti più intimisti sublima il suo stesso cinema (alcune sequenze sono straordinarie e rimarranno). Ancora una volta infatti Mann non si cura delle regole del gioco e dilata, enfatizza, ingigantisce i gesti dei suoi personaggi, spostando l'asticella del fare cinema un po' in alto. Tuttavia l'iperrealismo delle immagini non è supportato da una sceneggiatura di qualità, bensì difettosa, a tratti superficiale che giocoforza svilisce e riduce la potenza delle immagini. Blackhat, pur nella sua coerenza di tematica e percorso narrativo, sembra inoltre non aggiungere molto al già mastodontico discorso manniano.
Forse il tempo gli darà ragioni e meriti maggiori, ma in un certo senso pare corretto vedere Blackhat semplicemente come un "tassello" ulteriore nel cinema di Mann, non una pietra miliare e nemmeno un punto di svolta. Un passo in più lungo il percorso, un passo imperfetto ma probabilmente necessario per lo stesso regista. Dice bene Adriano Ercolani, su "La voce di New York", quando definisce Blackhat come un film "non costruito per comporsi come un puzzle perfetto", bensì un film "irruento, potente, selvaggio".
L'impressione è che Mann, mantenendo fede a se stesso nell'approcciarsi a questa nuova fatica, anziché avvicinarsi ulteriormente al film della sua vita, se ne sia un po' allontanato. Niente di male, è successo anche ad altri. E per fortuna non si sono fermati.


Istinti di realismo (la dimensione sociale) 


"Cerco di immergermi in una sottocultura finché 
non percepisco gli schemi, i toni e i ritmi 
di vita delle persone che vivono in quel luogo"

È la stessa filmografia di Michael Mann a dimostrare che, dietro la scorza di regista "d'azione", si nasconde l'esigenza di analizzare il contemporaneo. Lo studio attento, approfondito dell'intorno (e la sua conseguente interpretazione visiva) è un aspetto fondamentale del suo modus operandi
Come racconta Dante Spinotti, direttore della fotografia di alcune sue pellicole e sincero amico, Mann è un regista molto, molto esigente nel trasporre in immagini la sua visione. Dennis Farina, ex poliziotto e protagonista di Crime Story, nonché Comandante della Polizia al fianco di Graham in Manhunter, ama ricordare un aneddoto relativo alla lavorazione della succitata pellicola. Pare infatti che le riprese di una scena apparentemente semplice - una riunione in commissariato per decidere come muoversi nelle indagini - fossero durate ben due giorni, al punto che i protagonisti dovessero essere costantemente rasati. Durante un'inquadratura nella quale la macchina da presa era posizionata dietro alla schiena di Farina, Mann si addormentò appoggiato all'oculare. Se ne accorsero solo quando iniziò a russare.
Il "lavoro" di Mann, in ogni progetto, prevede una considerevole fase di pre-produzione con la preparazione, curata personalmente, degli attori che interpreteranno la pellicola. Prima di girare Miami Vice, Colin Farrell fu affiancato a due ex poliziotti sotto copertura. Gli organizzarono un finto appuntamento con degli spacciatori e gli dissero solo in seguito che non era reale. Farrell ricorda l'avvenimento condendolo con un sacco di "fuck" e sottolineando come la tensione l'avesse stressato al punto che quella notte non chiuse occhio. Will Smith si allenò per un anno intero prima delle riprese di Alì e i suoi coach erano niente meno che Alì in persona e il suo vero ex allenatore, Angelo Dundee. Tom Cruise, prima delle riprese di Collateral andò in giro per Los Angeles consegnando la posta con una barba posticcia e comportandosi così "normalmente" da non essere riconosciuto da nessuno - necessità, questa di passare inosservato, fondamentale per il killer professionista Vincent.
Mann "svuota" gli attori dalle loro caratterizzazioni tipiche e, lavorando a lungo sul fittizio background dei personaggi che dovranno interpretare, li spinge ad assimilarne comportamenti ed emozionalità. Libera, di fatto, il talento di un attore rendendone la recitazione più emotivamente istintiva e legata al contesto ambientale nel quale viene collocata.

mann_insert_5_bDal canto suo Mann trova spesso ispirazione in altre forme d'arte, qualcosa che sia in grado di coinvolgerlo emotivamente. Nel caso di Heat, si trattava di un acrilico su tavola di Alex Colville, intitolato "Pacific". La scena in cui De Niro rientra a casa e si appoggia alla finestra a contemplare il mare è la versione di celluloide del quadro di Colville. L'atmosfera di quel quadro, splendido esempio di pittura realista, ha influito notevolmente sulla "costruzione" del personaggio di Neil McCauley. De Niro lo rappresenta sempre molto compassato e, di fatto, quasi in pace con sé stesso. "Pacific", insomma. Nel caso de L'ultimo dei Mohicani, Mann si è servito dei quadri di illustri paesaggisti del XIX secolo come Albert Bierstadt o Thomas Cole, per ricreare ambienti e costumi dell'epoca nella quale è ambientato il film. In Manhunter il richiamo al dragone rosso avviene attraverso un quadro di William Blake, osservato a lungo da Mann prima delle riprese e preferito, concettualmente, all'idea di un drago tatuato sul corpo di "Dente di fata" - «banalizza la tua lotta interiore» disse Mann all'epoca delle riprese, rivolto a Tom Noonan.
La musica è poi un elemento imprescindibile nei film di matrice manniana. Anche in questo caso la selezione avviene a priori. Ne è un caso palese la scelta, molto suggestiva, di "In-A-Gadda-Da-Vida" degli Iron Butterfly per la scena finale di Manhunter. La decisione di utilizzare quel pezzo non è casuale: si rifà alla fitta corrispondenza tenuta da Mann, anni prima, con Dennis Wayne Wallace, un serial killer schizofrenico. Egli ammise che era ossessionato da una donna al punto da convincersi che proprio quella canzone fosse la loro "colonna sonora". Molti atteggiamenti di "Dente di fata", in effetti, sono basati sulle impressioni che Mann ha raccolto grazie alla corrispondenza con Wallace.
Naturalmente non è affatto casuale che la forza di Al Greene con la sua versione della splendida "A Change Is Gonna Come" vada a significare quasi come un ideale landmark una delle scene più intense di Alì. La colonna sonora di Heat è poi forse il suo più elaborato compendio musicale, nel quale le suites di ragguardevole impatto, realizzate da Elliot Goldenthal, si alternano a pezzi di Brian Eno, Einstürzende Neubauten, Terje Rypdal, Moby - quella che è forse la sua più notevole creazione funge da contrappunto musicale allo splendido finale della pellicola -. In Insider il contributo di Lisa Gerrard è poi così straziante da rendere la pellicola ancora più profonda. In definitiva Mann comincia la fase delle riprese solo quando ha esattamente in testa quello che sarà il risultato finale: una sorta di  precisissima costruzione che mentalmente parte dalle suggestioni provocategli in precedenza da qualcosa di "altro" e molto "reale".  
Usando le sue stesse parole, «le riprese sono il momento dell'espressione, non dell'esplorazione.»

La sospensione degli attimi, il pathos, il silenzio

Michael Mann è stato accusato di eccessivo "modernismo", anche e soprattutto per la sua scelta (in anticipo coi tempi) di introdurre massicce dosi di riprese in Digital HD. Anche se oggigiorno lo fanno tutti e l'industria cinematografica si è spostata in tale direzione, rendendo questa critica meno "centrata" - potremmo aprire dei dibattiti sugli standard video utilizzati senza venirne mai a capo -, val la pena analizzare alcuni aspetti. Il regista di Chicago si è sempre difeso da queste accuse affermando che l'uso della tecnologia di ripresa in digitale, a discapito della pellicola, gli permette un maggior "realismo". Per certi versi si tratta di una sacrosanta verità (ne è un esempio lampante la sparatoria nel bosco in Nemico Pubblico. Pare d'essere veramente lì, al fianco di Dillinger e soci).
mann_insert_4Ad essere un po' più tecnici però l'utilizzo che Mann fa del digitale non fornisce solo maggior realismo. Si guardi Alì. Nella prima sequenza del film, nella quale l'allora Cassius corre per la strada, le nuvole, perfettamente distinguibili nel cielo, donano un effetto più smorzato alla scena e il corpo di Smith non è "staccato" dal resto dell'ambiente come sarebbe successo con l'uso della pellicola ma tutto si amalgama assieme, virato verso un pallido azzurro notturno. Anche le sequenze d'amore della pellicola, nonché alcuni sprazzi di intima solitudine del protagonista sono girati in digitale. Ancora una volta non è solamente il realismo a guadagnarci, ma la sgranatura tipica del digitale in situazioni di bassa luminosità crea un effetto "pastello" che, a osservarlo bene, attenua e dissolve i contorni delle figure e rende l'atmosfera più pacata, più "sospesa" e le dona un pathos meraviglioso. La "significazione" del silenzio, utilizzando o meno il  digitale, è per Mann un'esigenza riscontrabile in praticamente tutte le sue pellicole. Fin dalle prime opere, Mann scardina le regole del genere filmico riducendo l'azione a scoppi improvvisi, ad iperboli violente, espandendo invece i tempi delle altre scene. Il cinema di Mann è una fisarmonica che si espande e contrae continuamente, dilatando se stesso nei momenti maggiormente riflessivi, intimi e pregni di significato. Si veda l'istante in cui Bergman/Pacino rivede il video originale dell'intervista a Wigand - che non andrà in onda - nello studio di registrazione, in Insider. Il silenzio, l'espressione di Al Pacino, il tutto contiene una straordinaria intensità. Oppure si veda lo sguardo di De Niro/McCauley e di Hanna/Pacino, un attimo prima della chiusura della sequenza, famosissima, del loro incontro nella caffetteria (Heat). Si sono detti tutto quello che c'era da dire. Ora restano per un attimo in silenzio, osservandosi a vicenda, non studiandosi, semplicemente lasciando lo sguardo fermo lì, a contemplare l'opposto. Un altro esempio è il saluto di Isabella/Gong Li a Sonny/Farrell dall'auto, prima d'andarsene dal porto marittimo (Miami Vice). Lei sorride, non parla, fa solo un gesto con il capo. Un gesto evidente, palese. Lui, dalla barca, si appoggia al parapetto e con un cenno quasi impercettibile risponde al suo saluto. Definitivamente, si osservi lo straordinario sguardo distrutto, straziato, di Isabella mentre si allontana dalla costa e da Sonny, nel finale di quella stessa pellicola. In estrema sintesi appare chiaro come Mann non sia solo uno stimolatore di adrenalina, né un puro costruttore di articolate sequenze d'azione, ma nella liturgica esasperazione del silenzio più intimo, anticipo laconico dello scoppio, improvviso e lancinante della violenza successiva, eleva i singoli, piccoli e personali gesti fino ad attimi sospesi di epica poesia. 
Nonostante ciò, purtroppo, risulta essere ancora oggi uno dei più sottovalutati registi contemporanei.

Il potere come forza interiore 

"I'm interested in extreme conflict"
L'ultimo dei Mohicani, a ragion veduta, racconta le origini dell'America. Non è un racconto affascinato né "trascinato". È una visione di oggi (con l'esperienza e la conoscenza ex-post) dell'epopea americana e di quello che sarà - anni dopo i fatti narrati in questo film - il tanto drammatico e precario "American Dream". L'ultimo dei Mohicani potrebbe sembrare, a prima vista, una delle più approfondite osservazioni manniane sul "potere". Il potere politico, certo, ma anche la battaglia per la libertà, per il futuro del proprio popolo. Il richiamo al potere, per Mann va però ben aldilà di una sola connotazione - in questo caso piuttosto ben definita -. Si osservino altri due film del regista di Chicago, Insider e Alì. Entrambi sono esemplificazioni di una lotta vista "dal basso", contro lo strapotere dei "padroni", o delle Corporation (come afferma Mann, nella bella intervista curata da Michael Sragow[6], «L'industria del tabacco annuncia: Cercasi scienziati senza scrupoli al doppio del loro salario precedente»). A uno sguardo attento, tuttavia, lo studio di Mann si focalizza principalmente su una tipologia di potere più intima e sfuggente.
Analizzando il modo in cui la messinscena manniana dipinge il protagonista di Strade Violente, quello di Manhunter o i due opposti personaggi cardine di Heat, si noterà che essi sono tutti "professionisti". Lo è Frank in Strade Violente - la sua bravura nell'organizzare e portare a termine furti è rappresentata fino all'estremo -, lo è il Vincent di Collateral, preciso e freddissimo, lo è Will Graham in Manhunter (si noti la scena in cui il detective, a casa delle vittime, studia meticolosamente l'operato dell'assassino. È una scena "gemella" di quella del successivo Heat, in cui Hanna/Pacino analizza il colpo messo a segno da McCauley/De Niro al portavalori). È un professionismo portato quasi all'esagerazione, quello delineato nelle pellicole di Mann. 
mann_insert_6In Miami Vice i due detective sanno fare praticamente tutto, anche pilotare aerei. Però si tratta di una "esagerazione" funzionale alla necessità di Mann di enfatizzare quella che potremmo definire la "dicotomia del professionista". Esperto mestierante, zelante nella preparazione e nello studio dei particolari, il protagonista dei film manniani tende a tenere tutto sotto controllo (come il regista stesso nella produzione dei suoi film, di fatto). Ma è poi l'istinto a guidarlo fino alle scelte più vere e pure. È "lasciandosi andare", nel momento di massimo apice drammaturgico, che i personaggi di Mann trovano la svolta, la soluzione (o la fine, l'assoluzione). Nell'istinto, nell'abbandono verso le "scelte emozionali" si delineano le chiavi di volta manniane. E' questo potere che Mann sente l'esigenza di rappresentare, spiegare, raccontare. Il potere dei conflitti interiori. Una sorta di sfida interna, che parte dall'origine, dall'intimità e pure un conflitto ancestrale, alla base di ogni possibile situazione e storia. Analizzare questa "caratteristica" del cinema manniano non è affatto complesso perché di esempi ce ne sono parecchi. L'intera "seconda parte" di Heat (idealmente dividiamo la pellicola in due tronconi) è caratterizzata da istintivi cambi di direzione della storia. In Insider la svolta avviene in maniera istintiva, dentro a una camera d'albergo dove un ormai apatico Jeffrey Wigand scatta rabbioso verso il telefono dal quale Bergman gli urla di rispondere. In Miami Vice è l'istinto che trascina Crockett nella storia d'amore effimera e profonda con Isabella. Il buonsenso l'avrebbe fermato. È un professionista, sa che ciò che sta facendo è rischiosissimo e mette a repentaglio non solo la sua vita e quella di Isabella, ma anche quella del suo collega. Il regista vuole parlare del lavoro undercover partendo da un interrogativo che lui stesso si pone: «Perché lo fanno? Cosa spinge quegli agenti a rischiare così tanto la pelle?».

Il "potere della mente", inteso principalmente con connotazione negativa, è invece il cardine di Manhunter (nel film è fondamentale la psicologia, potente e disturbante del serial killer). Borri parla addirittura di "esplorazione dei paesaggi della mente". Mann "taglia" il libro di Harris, modifica i nomi di alcuni personaggi e toglie i flashback relativi al passato dell'assassino. Elimina, cioè, il "motivo" del male. Questo perché a Mann interessa il male in sé, presente, attuale, privo di una "provenienza tangibile"[7]. Il regista di Chicago non ne vuole investigare l'origine. Lo fotografa, piuttosto, così com'è, perché gli interessa "ora". Ma soprattutto gli interessano gli effetti che esso produce.

John Patterson, intervistando Mann in occasione dell'uscita di Nemico Pubblico, sottolinea che molti degli "eroi" protagonisti dei suoi film sono doomed (trad. condannati). Mann risponde che lo siamo tutti, a ben vedere, ma a lui interessano coloro che ne sono consapevoli, che lo vedono chiaramente (Nick Hathaway di Blackhat, per esempio). Mann mette in scena la condanna e studia le reazioni che essa provoca sui suoi protagonisti. Lo ha fatto, e continua a farlo, dipingendo pagine memorabili nel cinema di genere contemporaneo.
 


 

[1] Riferito a Roger Corman, regista americano
[2] Da "Michael Mann" di A. Borri
[3] Da "Michael Mann" di F.X. Feeney
[4] Fonte: www.boxofficemojo.com
[5] Con riferimento al bel documentario sull'incontro tra Alì e Foreman, intitolato "Quando eravamo re" e diretto da Leon Gast
[6] Da "All the Corporation's Men" di M. Sragow, su www.salon.com
[7] Da "Michael Mann" di A. Borri

 





Michael Mann