Da “Strade Violente” a “Blackhat”, la carriera di un regista che ha sempre sostenuto la necessità di raccontare “il vero” delle sottoculture criminali. Ultimo “classico” estremamente moderno del cinema americano, Mann ha fotografato come pochi altri il professionismo criminale, violento e metropolitano
L'ultimo "eroe" del cinema americano
Michael Mann nasce nel 1943 a Chicago, in un quartiere vicino al "Patch", la zona più rovente e pericolosa della Chicago d'allora. Non a caso fu uno dei pochi della sua scuola a riuscire ad andare al college. Dopo averlo frequentato in Wisconsin, si trasferisce a Londra, dove frequenta la London Film School. La sua formazione culturale è in questo senso molto eterogenea. Ritorna negli Usa nel 1972, trasferendosi a Los Angeles, dove inizia a muovere i primi passi nel mondo del cinema con alcuni cortometraggi. Il suo lungometraggio d'esordio è un film per la TV ed è datato 1979. La corsa di Jericho, dramma d'ambiente carcerario, racconta la storia di un detenuto a Folsom che corre il miglio in quattro minuti. Forte della consapevolezza di essere un atleta capace, chiede alla Commissione Olimpica di partecipare alle prossime Olimpiadi. La proposta viene bocciata e lui corre il miglio tra le mura della prigione, battendo il record americano, ma senza alcun trionfo ufficiale. Girato e montato con taglio drammatico, senza voce off, La corsa di Jericho lascia spazio ai dialoghi dei suoi protagonisti e non enfatizza il solo versante melodrammatico della rivincita, del riscatto del protagonista. Mann punta a descrivere la quotidianità del carcere, i complessi rapporti tra i detenuti e gli inevitabili problemi razziali. Il risultato finale è un film imperfetto ma non privo di spunti d'analisi. La troupe ha girato realmente dentro a Folsom e durante le riprese si sono verificati oltre dieci accoltellamenti tra detenuti e pure un omicidio.
Forte dei buoni risultati ottenuti con La corsa di Jericho, Mann presenta ai produttori un nuovo progetto con il quale vuole raggiungere il "cinema". Strade Violente (1981) è infatti il primo film di Mann ad essere proiettato nelle sale. In un certo senso, è un "secondo esordio". James Caan, in splendida forma, ne è l'interprete principale: un ladro professionista stufo di rischiare il carcere e intenzionato a cambiar vita. Strade Violente segna anche il ritorno-omaggio di Mann alla sua Chicago. La fotografia della pellicola è notevole e, su richiesta di Mann, "bagnata" al punto da risultare una sorta di "tunnel scavato all'interno della notte"[3]. Meno banale di quello che il canovaccio di base può far pensare, meno action di molti altri prodotti di genere, Strade Violente si rifà in un certo senso alla lezione dei polar francesi, ma solo formalmente. Ciò che racconta è invece il frutto dell'approfondimento di una conoscenza diretta con alcuni rapinatori veri e propri. Oscuro come la notte, il film descrive attimi di vita professionale del ladro, con l'accurato studio dei colpi, la precisione millimetrica delle loro esecuzioni, la maestosa riuscita di certi "capolavori del furto" - l'ultima rapina della pellicola è una scena da antologia del genere - e li intreccia con la condizione emozionale di Frank, il protagonista, in costante "bilico" esistenziale, indeciso su cosa fare della propria vita, invogliato a mollare tutto, mettere la testa a posto e sposare la donna di cui si è innamorato. L'uomo però è probabilmente conscio del fatto che l'unica cosa che sa fare è organizzare colpi e portarli brillantemente a termine. Non è un caso che, nella decade successiva, Neil McCauley, protagonista di un'altra pellicola dello stesso regista, sottolinei lo stesso pensiero.
Strade Violente segna un ottimo successo di pubblico e Mann ottiene decine di proposte dagli Studios. Quello che lo colpisce maggiormente è un progetto diverso dai precedenti. Si tratta infatti di un'idea per un adattamento da un romanzo fanta-horror. La fortezza (1983) risulta essere, ad oggi, la prima e unica incursione di Mann nel genere fantascientifico. Tratto liberamente dal bel romanzo di F. Paul Wilson, questa pellicola è per certi versi più un film horror ideologizzato che un vero e proprio progetto di science fiction. Scritto dallo stesso regista, nonostante l'adattamento dal libro - o forse per questo? - pecca soprattutto a livello di sceneggiatura, dove l'eccesso di dialoghi para-filosofici e la presenza di alcune lungaggini fanno perdere del ritmo alla narrazione. Non si tratta certamente di una delle opere più consapevoli o "sicure" del regista americano, ma è apprezzabile la cura per i particolari scenografici, la splendida fotografia - costantemente immersa in una cortina di fumo biancastro - e la sapiente regia delle sequenze di suspense. Ancora una volta è possibile scorgere la cura di Mann per quello che è il lato umano dei suoi personaggi (anche se i tratti psicologici dei protagonisti, in alcuni casi, risultano poco più che abbozzati). Film complessivamente non eccelso, riuscito forse a metà, La fortezza vale per almeno due sequenze, dove l'uso del ralenty accentua e "marchia" le scene, anche grazie al contributo musicale molto "rock".
Il film successivo, Manhunter - frammenti di un omicidio (1986) è indubbiamente un punto di svolta nella carriera di Mann. Girato a ritmi quasi insostenibili, con il fiato sul collo della produzione, è una pellicola molto importante nella maturazione registica di Mann, come sostiene Dov Hoenig, montatore del film. Di nuovo rielaborando un romanzo ("Red Dragon" di Thomas Harris) Mann si focalizza sullo studio di una certa "cultura violenta". Il dottor Lecter, reso celebre in seguito grazie alla superba interpretazione di Anthony Hopkins ne "Il silenzio degli innocenti", è qui interpretato da Brian Cox che ne delinea il primo abbozzo di fascinazione per il male. Will Graham (William Petersen, all'epoca lanciato verso il successo) che qualche anno prima aveva arrestato Lecter, "vincendo" con lui una sorta di partita psicologica, si vede costretto a ritornare dal criminale antropofago, in un carcere dove tutto è bianco, intonso, immacolato, per chiedergli delucidazioni in merito agli omicidi di un misterioso assassino seriale. È palese, in questa pellicola, la dicotomia di Graham, personaggio "buono" che dà la caccia all'assassino, ma dal quale contemporaneamente forse è affascinato. Lecter (nel film volutamente storpiato in "Lecktor") suggerisce una visione, che è anche il "sottostante" della pellicola: «Graham, lo sai perché mi hai preso? Perché hai pensato come me. Tu sei come me, e come lui...» Il Manhunter è Graham, che cerca di arrestare l'assassino. Lui è un cacciatore di criminali, un hunter. Ma il Manhunter è anche "Dente di fata", il pazzo assassino seriale che studia le famiglie felici, poi entra nelle loro case e ne fa scempio. Anche la sua, per quanto singolare, è una caccia. Film che si potrebbe prestare a molte visioni, Manhunter è uno dei più lucidi thriller degli anni 80. Vestito della pop culture di quella decade, un po' come "Vivere e morire a Los Angeles" di Friedkin, altro meraviglioso film di quel decennio, ha forse acquistato "peso" e "valore narrativo" solo negli anni successivi, risultando a suo modo premonitore di certa, insensata violenza.
Negli anni 80 Mann si impegna attivamente anche sul versante televisivo. Scrive alcuni episodi della serie Starsky & Hutch, dà il via alla serie Vega$ ed elabora assieme a Chuck Adamson (un ex poliziotto) il canovaccio della serie Crime Story, che complessivamente però non avrà molto successo e verrà cancellata dopo la seconda stagione. Su tutte, comunque, la serie che in assoluto consacra Mann anche a livello televisivo è la celeberrima Miami Vice. Creata originariamente da Anthony Yerkovich, di cui pochi ricordano il nome nella sigla d'apertura di ogni puntata, è per tutti la "serie di Mann". Miami Vice rivoluziona il concetto di telefilm, di serializzazione televisiva inserendovi elementi tipici del cinema e spingendo agli estremi il versante "visivo", per non parlare delle scelte musicali, con la creazione di vere e proprie soundtrack commercializzate nei negozi. Miami Vice, nell'arco delle sue cinque stagioni, ottiene un successo clamoroso e ancora oggi tutti la ricordano come serie alla MTV.
Negli anni 90 Mann torna a dedicarsi intensamente al "cinema". Non tanto dal punto di vista della quantità di film diretti ("solo" tre) ma per il fatto che in tutti questi - e anche nel primo film della decade successiva - si riscontra una rinnovata necessità di approfondimento della "dimensione reale" delle sue storie. Nel 1992 Mann ottiene la possibilità di girare una "nuova" versione di celluloide del libro di James Fenimore Cooper "L'ultimo dei Mohicani". A Mann non piace l'idea di basare la sua pellicola su quel romanzo; piuttosto preferisce acquistare i diritti di una sceneggiatura del 1936, scritta da Phillip Dunne. Questo perché la trova più "realistica" e vicina al tipo di film che ha in mente di girare. Ad oggi L'ultimo dei Mohicani è uno dei massimi successi al botteghino ottenuti dal regista di Chicago (al terzo posto dopo Collateral e Nemico Pubblico, in valore assoluto. Se però aggiustiamo i dati in base all'inflazione balza al primo posto della classifica [4]). Indubbiamente si tratta di un film di notevole impatto visivo e grande enfasi. Tuttavia soffermarsi su questa visione "eroica" sarebbe fuorviante. Negli intenti di Mann, c'è la voglia di osservare la nascita della sua America, di quella cultura e di quell'universo che gli sta tanto a cuore. Colti o meno i sottotesti, il pubblico lo ha comunque apprezzato e Mann ha ottenuto molta più libertà a livello produttivo per i film successivi. Tre anni dopo, nel 1995, esce Heat.
Mann teneva nel cassetto la sceneggiatura di quel film dal 1975. Ne aveva anche girato un film TV, leggero abbozzo di idee per un futuro, il cui titolo italiano è Sei solo, agente Vincent, in attesa del momento migliore per realizzare il progetto finale, quello che aveva in testa da così tanto tempo. Da molti definito come il suo capolavoro assoluto, Heat è fondamentalmente il personale affresco di Mann, ricco, pieno, "di genere" di una Los Angeles contemporanea dove Vincent Hanna, poliziotto istintivo e irruento dà la caccia a Neil McCauley, ladro professionista e compassato. Film straordinario per impatto visivo e forza narrativa - Morandini suggerisce che la sua fitta trama potrebbe alimentare tre o quattro thriller convenzionali - è uno degli esempi di cinema poliziesco più intensi degli anni 90. Anche in questo caso Mann si spinge "oltre" e racconta, amalgamandole e plasmandole secondo la sua esigenza di narratore, storie di personaggi realmente conosciuti nel cuore di Los Angeles. Esempio lampante: Chuck Adamson fu poliziotto e diede realmente la caccia a un ladro di nome Neil McCauley.
Nel 1999 è la volta di Insider. Qui il realismo manniano raggiunge i massimi livelli (poi riproposti anche nel film successivo, Alì) rendendo la pellicola quasi una sorta di documentario "sottopelle" mascherato da film (per Mann, lo spettatore non deve "guardare" la vicenda come in un classico documentario distaccato, ma la deve "vivere" in prima persona). Basandosi su un articolo di Marie Brenner pubblicato su Vanity Fair e intitolato "The Man Who Knew Too Much", Mann ricostruisce la storia del rapporto tra Lowell Bergman (il vero Bergman è anche amico del regista), autore di "60 Minutes", popolare trasmissione della CBS e Jeffrey Wigand, ex chimico della Brown & Williamson, in possesso di informazioni sulla presunta manipolazione del tabacco da parte della compagnia presso la quale lavorava. Come ammette lo stesso regista, questo film è risultato molto complesso, perché le difficoltà maggiori erano insite a livello di sceneggiatura. Il film doveva raccontare esclusivamente "la verità". Nessuna licenza artistica. Sarebbe stato troppo rischioso, soprattutto a livello legale. Insomma, un film che era meglio non fare. Mann, cocciuto come al solito, lo fa lo stesso. E ne viene fuori un grande, intenso film "da camera" che mira a smascherare le Corporation del tabacco, le manovre illegali dei loro gruppi di potere decretando al contempo una vittoria "morale" del giornalismo. Lo fa in maniera silente, quasi liturgica, senza mai mostrare una sola sigaretta accesa in tutto il film o una persona che stia fumando. Insider non è un saggio di giornalismo come "Tutti gli uomini del presidente" né un film "estremamente" politico come "Z - L'orgia del potere" (pellicola, tra l'altro, che ha in mente il produttore Roth quando propone il progetto "Insider" a Mann), ma esemplifica come il regista di Chicago vede la necessità, di nuovo, di "raccontare" ciò che ritiene giusto, ancora una volta con una visuale "stretta" sul soggetto - si notino le inquadrature a pochissimi centimetri dalla montatura degli occhiali di Wigand.
Nel 2001 esce nelle sale Alì. Film sulla boxe, mi si passi il termine, "a livello collaterale", è più nello specifico una fotografia di dieci anni (1964 - 1974) di storia contemporanea. Alì ne è stato un illustre rappresentante, con le sue paure, i suoi dubbi superati con la forza di boxeur e come uomo "simbolo" - che non ha mai ceduto sul Vietnam, sulla fede musulmana, sulle sue scelte di vita -. Mann, assieme a Will Smith (che ha coprodotto il film, è ingrassato moltissimo, si è allenato duramente e ha visionato tutti gli incontri di Alì per mesi), ha realizzato un inedito ed elegante film sportivo dove la dimensione politico-sociale è predominante. Non ci si aspettino perciò combattimenti adrenalinici, ring insanguinati e rounds a profusione. Le scene di boxe non sono tutto, in Alì. Ma quelle mirate, intense sequenze hanno un potente impatto emotivo. Su tutte, lo splendido 8° round dell'incontro in Zaire, con i memorabili ganci finali, al rallentatore sulle note di Salif Keita, dilatati come a voler fermare il tempo di quello strepitoso incontro, nella riproposizione delle atmosfere di un tempo, di un passato nel quale "eravamo re" e gridavamo "bumaye Alì" [5].
Collateral, il film successivo, datato 2004, è tra le opere più introspettive di Mann. Un film, antropologicamente, di "sintesi". Sintesi dei concetti, delle esigenze di autore, di ciò che è il credo registico di Michael Mann. Come lo definisce il regista stesso, è "compatto". Girato per lunga parte dentro a un taxi, narra le vicende, tutte in una notte, di Max, innocente e innocuo tassista, e di Vincent, killer prezzolato che sceglie il taxi di Max per raggiungere i luoghi dove si trovano le sue vittime. Travestito da thriller - del cui genere mantiene comunque i topoi: ritmo, suspense, velocità e forza -, Collateral è in realtà lo sguardo più colto, sentito e sincero di Mann nei confronti della società contemporanea. Mann sfrutta il genere che maggiormente gli si confà e dipinge i tratti della normalità, in declino, del crimine (Tom Cruise, abbandonando la sua notoria recitazione "tarantolata" e lavorando per sottrazione, ne è interprete magistrale) in contrapposizione con l'abbandono - altra forma di declino, interiore - nei confronti della vita da parte del tassista Max (che si dichiara pronto a "svoltare" ma in realtà sa bene che non abbandonerà mai il suo taxi, perché non ne ha la forza). Sfruttando la tecnologia digitale e chiudendo, in un certo senso, una parentesi filmica passata, Mann dirige un film molto diverso dai precedenti. E non solo a livello di fotografia, grazie appunto all'uso del digitale (quasi l'80% della pellicola), ma anche in un cambio della "squadra" tecnica che partecipa al film. Il risultato è un'opera che, curiosamente, è vittima di una strana duplicità: in qualche modo punto di svolta rispetto ai film precedenti, rimane pur sempre una pellicola manniana in senso lato. Applauditissimo a Venezia.
Miami Vice (2006), a distanza di due anni da Collateral, è per Mann l'occasione di riprendere in mano una sua vecchia creazione e di rielaborarne il contenuto in chiave attuale, in linea, indubbiamente, con le sue recenti scelte registiche. Ne viene fuori un'opera notevole, dal respiro ampio, che ha incassato molto poco rispetto a quanto è costato produrla - le riprese sono state interrotte per i problemi più disparati: un uragano, un ricovero improvviso di Farrell, un proiettile veramente sparato contro un addetto alla sicurezza - e probabilmente non è stata compresa appieno. Farrell e Foxx, rispettivamente due moderni Sonny e Rico, si infiltrano come corrieri freelance in un giro internazionale di armi, droga e quant'altro che fa capo ad Arcangel de Jesus Montoya, nel tentativo di arrestare uno dei più grossi criminali internazionali. Le cose si complicano quando Sonny si innamora della donna di Montoya (Gong Li). Sfruttando un canovaccio piuttosto semplice e già visto, Mann dilata i tempi di ripresa, si focalizza sugli sguardi e sulle attese, allontanandosi volutamente dalla narrazione lineare del racconto - che prosegue ugualmente liscia e senza pieghe - e stringendo lo sguardo della macchina da presa su particolari di contorno (il mare, il cielo). Su tutti, di questo film resta Gong Li, intensa "perla" quasi sempre senza un filo di trucco e a maggior ragione bellissima.
Il 2009 è l'anno di Nemico Pubblico. Michael Mann realizza il suo secondo biopic, dopo Alì - questa volta si tratta di un personaggio diametralmente opposto. Storia di John Dillinger e del suo rapporto con l'uomo che gli dà la caccia - Melvin Purvis, G-Man del FBI - è l'opera più piena e consapevole del regista, nonché per molti versi un film di rimandi al passato cinematografico di Mann (la prima rapina che fa il verso a Heat, la storia d'amore impossibile tra John e Billie che riecheggia Miami Vice o il semplice rapporto intimamente "di petto" da parte di Dillinger nei confronti della vita, da vivere al massimo, ora). Si noti che il titolo originale è al plurale. Mann non affronta solo la storia di Dillinger, ma attraverso di essa studia piuttosto una tipologia d'individuo. L'uso del digitale e alcune scelte registiche come la massiccia telecamera a spalla (tutte cose fortemente criticate) fanno di Nemico Pubblico un film di rottura nel genere "gangster": il regista di Chicago affronta il crimine di "ieri" con lo sguardo ex-post, rendendolo "attuale", come a significare che in fondo la violenza dell'essere umano è sempre e comunque la stessa. Mann riesce a raccontare qualcosa di "vecchio", con uno sguardo "nuovo", senza rinunciare al suo "modo" di fare cinema. Insomma Nemico Pubblico è Mann al cento per cento. E non smentisce, anzi fortifica l'idea, la storia d'amore travagliata di Dillinger e Frechette, perché in fondo Mann è un romantico. E più le storie sono strazianti, più lo colpiscono nel cuore dandogli l'ispirazione giusta.
Dopo quasi sei anni di lontananza dalle scene, Mann torna nel 2015 con un thriller cibernetico, ma solo all'apparenza. Blackhat infatti ha nella vicenda degli hacker internazionali solo un pretesto narrativo. Il film di Mann vuole invece focalizzarsi sulla "distanza", sul costante interiorizzare dei sentimenti e in un certo senso reitera, quasi all'esasperazione, le atmosfere e il percorso interrotto di Miami Vice, ma senza riuscire a dare vera continuità a quel "discorso".
Istinti di realismo (la dimensione sociale)
[1] Riferito a Roger Corman, regista americano
Heat - La sfida (1995)
Alì (2001)
Collateral (2004)
Miami Vice (2006)
Nemico pubblico (2009)
Blackhat (2015)
Ferrari (2023)
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