Recensire la nuova fatica del più grande regista vivente è compito degno di onore ma anche carico di responsabilità. Soprattutto nel caso in cui, come stavolta, l'uscita nelle nostre sale segua l'accoglienza disastrosa che "Blackhat" ha avuto in patria: botteghini andati deserti e critica americana spietata nello stroncare il film. Insomma, gli ingredienti per accostarsi alla pellicola (sarà ancora valido questo termine come sinonimo anche quando si parla del Vate del digitale?) con timore e diffidenza c'erano tutti. Bastano però pochi minuti e poche sequenze per dimenticare tutte le paure e lasciarsi avvolgere dalla narrazione mastodontica e annichilente del "solito" Michael Mann. Sì, perché dietro l'apparente confezione da puro action movie, l'ultima fatica del cineasta americano non fa altro che riprendere il filo del suo discorso, unico, monolitico, imponente. Ancora una volta, infatti, prosegue il poderoso affresco di umanità variegata che Mann ha cominciato ormai decenni addietro, trasfigurandolo attraverso l'uso, geniale e innovativo, del concetto di "film di genere".
Stavolta, le premesse ci parlavano di un thriller 2.0, un'opera ambientata negli ambienti della cyber-criminalità, di Internet e della tecnologia da nuovo millennio: un film, insomma, ad alto tasso di tecnicità e di gergo settoriale che poteva spaventare per la sua incapacità congenita di parlare con un linguaggio universale. Nulla di più fasullo e deviante. "Blackhat" parte da uno spunto simile, ma poi decolla verso vette altissime, tanto per confermare lo stato di forma di questo artigiano della Settima arte, diventato poi pioniere del nuovo cinema d'azione, poi spericolato sperimentatore della tecnologia digitale, infine Maestro indiscusso dietro la macchina da presa. Ciò che colpisce, ancora una volta, è l'abilità di Mann nel creare questo cortocircuito che riesce praticamente solo a lui (almeno a questo tasso di intensità): rispettando perfettamente i codici del genere che va a mettere in scena, sia esso il noir, il giallo, l'action o il poliziesco, non perde mai di vista l'obiettivo di parlare, sempre e innanzi tutto, di esseri umani che combattono contro un ineluttabile destino, denso di ostacoli, ma anche pieno di aspettative e speranze. Il mix che ne viene fuori è sempre un quadro di lacerante emozione, capace puntualmente di ricollocare un dramma corale palpitante e che non lascia mai freddi e impassibili spettatori, si passi dalla Los Angeles notturna di "Collateral" alla Florida irrecuperabile di "Miami Vice", dall'America di inizio Novecento in "Nemico pubblico" all'Asia iper-tecnologica e corrotta di "Blackhat".
Un breve accenno alla trama gioverà a mettere a tacere le critiche su una sceneggiatura giudicata troppo basica. C'è un pericoloso hacker, nascosto nell'ombra dell'anonimato cibernetico, che fa esplodere un reattore nucleare a Hong Kong e che "ruba" oltre settanta milioni di dollari in Borsa negli Stati Uniti. Tutto per deviare l'attenzione dalle sue reali intenzioni: ovvero speculare sulle risorse di stagno presenti in Estremo Oriente dopo aver provocato l'allagamento di diverse vallate densamente abitate dalla popolazione del luogo. Sulle sue tracce si mette una task force mezza cinese e mezza americana, capeggiata da un ufficiale di Pechino specializzato in informatica e da un suo vecchio compagno di studi, finito in galera e fatto uscire per l'occasione. Di mezzo ci sono anche la sorella dell'agente cinese, anche lei bravissima con i computer, e uno spietato killer su commissione, braccio armato del vero hacker. Di fronte a tutto questo, il confine fra virtuale e reale si assottiglia sempre di più fino a confondersi. È qui che il genio di Mann si esalta: il suo cyber-thriller ci mostra la pericolosità della Rete nella quotidianità "vera"; la violenza che ne scaturisce, allora, non può che essere fisica e sanguinosa come alla maniera della criminalità tradizionale.
Da una parte la grandiosità dell'azione, la maestria delle sparatorie (se vi sembravano esagerati i colpi esplosi in "Miami Vice", qui dovrete davvero proteggere le vostre orecchie), l'iperrealismo degli scontri portato all'ennesima potenza; dall'altra la vita che scorre, che sfugge dalle mani dei protagonisti, intenti a rincorrere lo scopo della missione dimenticando letteralmente ogni senso del pericolo. Le morti messe in scena nei capolavori di Mann sono sempre strazianti, insostenibili per la tragicità che le accompagna. Si tratti di estremo sacrificio o di scelta consapevole, nessuno come lui sa riprendere un uomo che si spegne. Eccezionale conoscitore di ogni trucco cinematografico, vero despota che manipola la sua creazione, il regista è sceneggiatore, produttore, supervisore della (bellissima) colonna sonora di Harry Gregson-William e di Atticus Ross, nonché coordinatore delle maestranze tecniche, come sempre decisive nell'amalgamare un insieme di elementi così disparati in un'unica, compatta opera. Ma esaltando, come sempre tocca fare a ogni sua sortita, il montaggio delle scene d'azione, la fotografia che immortala in digitale la notte senza luci di scena e gli effetti sonori che mantengono la tensione a un costante livello tachicardico, non vorremmo si facesse torto a ciò che conta davvero. Come dicevamo in un'altra recensione, il regista di Chicago è in grado come nessun altro di utilizzare la sua arte, il suo cinema, per guardare oltre la vita stessa, per immaginare un futuro imminente. Un tempo che si preannuncia pieno di insidie e di rischi per l'Uomo, certo, ma che può sempre essere salvato da sentimenti e istinti nobili: l'amore, ovviamente, ma anche il coraggio, quello spesso esaltato dai comprimari silenziosi dei suoi film, oppure l'abnegazione sul lavoro, oppure ancora il talento, la bravura nel fare "qualcosa".
Il cinema "virtuale" che erroneamente era stato promosso, quasi auspicando un suicidio commerciale, è stato solo un abbaglio preso da critici troppo frettolosi e manager poco fantasiosi. Quello che resta negli occhi, nella mente e nel cuore dopo la visione di "Blackhat" è ancora la vivida emozione di una corsa a rotta di collo verso la propria salvezza: lo spirito di sopravvivenza che fa fare all'Hathaway di Chris Hemsworth azioni impensabili per una persona comune è lo stesso che guidava Melvin Purvis-Christian Bale alla caccia di John Dillinger-Johnny Depp e che, via via, animava i comportamenti fuori dall'ordinario di tutti i "falsi eroi" manniani.
Diventerà probabilmente un oggetto di culto, un film-leggenda, fra qualche anno, quando qualcuno deciderà di riesumarlo e rendergli giustizia dopo l'infausto destino nei cinema di mezzo mondo cui è stato consegnato. Avremmo preferito, molto più banalmente, vederlo osannato e giustamente applaudito immediatamente, come merita ogni singolo titolo della incredibile filmografia di Michael Mann.
cast:
Chris Hemsworth, Tang Wei, Viola Davis, Ritchie Coster, Holt McCallany
regia:
Michael Mann
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
133'
produzione:
Legendary Pictures, Forward Pass
sceneggiatura:
Michael Mann, Morgan Davis Foehl
fotografia:
Stuart Dryburgh
scenografie:
Guy Hendrix Dyas
montaggio:
Leo Trombetta, Joe Walker
costumi:
Colleen Atwood
musiche:
Harry Gregson-Williams, Atticus Ross