Se è vero che il diavolo si nasconde nei dettagli, "Ferrari" di Michael Mann è solo l’ultima di una serie di conferme che testimoniano la bontà del motto. L’occhio del regista americano ci impiega un attimo a dargli corso, facendo della scena iniziale una sorta di cartina di tornasole dell’intero film o almeno della natura del suo celebre personaggio. Appena dopo i titoli di testa, infatti, l’autore ci presenta in una mattina qualunque il risveglio del protagonista e la sua corsa in ufficio in cui lo attendono i problemi di sempre. La normalità del contesto e la riconoscibilità dei gesti compiuti dal protagonista, lungi dall’essere casuali, servono a Mann per rafforzare le piccole idiosincrasie che rompono la continuità dello schema rivelando l’essenza di quella visione. Da una parte ci impedisce la vista della donna con cui Ferrari ha diviso il talamo (scopriremo più tardi che si tratta di Laura Lardi con cui Ferrari ebbe un figlio), coprendola con il corpo dello stesso protagonista; dall’altra ce ne mostra il temporaneo commiato con una partenza di fortuna a bordo di un'auto che stenta a mettersi in moto.
Se il corpo di Ferrari, e dunque quello robusto e possente di Adam Driver (oramai diventato oggetto di culto del cinema americano), campeggia in maniera iconografica per tutto il film, facendo da scudo a un privato che non deve essere rivelato e impadronendosi della scena senza farsela rubare neanche in presenza della mitica "rossa", anche lei subordinata alla potente personalità del suo inventore, la difficoltà di funzionamento dell’autovettura è il paradosso migliore per segnalare un'imperfezione che fa da specchio all’esistenza più intima del costruttore, segnata dalla morte del figlio Dino e dal fallimento del matrimonio con la moglie Laura Dominica Garello (un’intensa e bravissima Penelope Cruz). Una ricchezza di significati cui Mann ne aggiunge un altro parimenti fondamentale per capire la personalità del reticente protagonista, laddove la via di fuga dai problemi quotidiani rappresentata dalla totale immersione di Ferrari nella vita della sua casa automobilistica è riassunta dalla modalità (l’utilizzo dell’autovettura) in cui lo stesso si lascia indietro la sua amante e i problemi che questa relazione comporta.
"Ferrari" di Michael Mann era atteso al Lido preceduto da molte aspettative. Una di queste riguardava il suo ritorno al cinema dopo l’uscita nel 2015 del suo ultimo e sfortunato film ("Blackhat"). In particolare destava curiosità constatare la tenuta della sua regia di fronte a un genere come il biopic, sempre più sdoganato dal cinema che conta. Come nel caso del recente "Oppenheimer", anche "Ferrari" si portava dietro la responsabilità - almeno verso i fan del regista -, di regalare alla storia ufficiale uno sguardo capace di andare oltre la cronaca dei fatti, affidandosi all’originalità della forma cinematografica.
Niente di tutto questo, perché nel raccontare un pezzo di vita del protagonista e della sua numerosa corte, rappresentandola alla stregua di una tragedia shakespeariana, con il “re” nudo di fronte alle infauste conseguenze (per lui e per gli altri) della sua visionarietà, Mann sceglie una messinscena classica e consolidata. Forse spaventato dal dover girare per la prima volta lontano dal suo Paese in una scenario umano e ambientale distante da quello americano e metropolitano, il nostro sceglie di andare sul sicuro, affidandosi a una regia compatta ma priva di impennate. Decidendo di intrecciare tre filoni narrativi (le vicissitudini della vita privata e sentimentale, le difficoltà economiche dell’azienda, troppo artigianale per essere competitiva sul mercato, e soprattutto la competizione sportiva per la quale la Ferrari era nata), assegnando a ciascuno la medesima importanza, Mann sceglie di portarli avanti con un montaggio alternato che se nelle intenzioni del regista dovrebbe rafforzare l’impossibilità di scindere i vari momenti, facendo vedere come ciascuno sia la conseguenza degli altri due, in realtà finisce per trasmettere alla narrazione un andamento meccanico e anche un pò scontato.
Famoso per non venire meno al principio di realtà, difeso in sede critica anche di fronte alle rimostranze nei confronti dei suoi film più iperbolici (si pensi alla lunga e magnifica sequenza della sparatoria in "Heat", di cui Mann sostenne a spada tratta il realismo) e qui affermato dalle immagini del finto documentario che scorre lungo i titoli di testa, il regista si contraddice imponendo al paesaggio italiano il suono della lingua anglo-americana che seppur sporcata nelle sue inflessioni risulta comunque estranea al resto del contesto. La presenza di attori stranieri - con l’esclusione di quelli italiani -, concorre ad abbassare la verosimiglianza della storia, pur tenendo conto di un immaginario che da tempo ha consegnato Ferrari e la sua macchina a una platea senza confine né nazionalità.
Famoso per scandagliare l’ambiente con la forza della ragione, assegnando alla geometria delle sue superfici il compito di rivelarne la profondità di significati, Mann e con lui “Ferrari” non riescono ad andare oltre alla bellezza pittoresca della provincia emiliana, mai in grado di riflettere i sentimenti e la condizione dei personaggi.
cast:
Penélope Cruz, Shailene Woodley, Patrick Dempsey, Jack O Connell, Adam Driver
regia:
Michael Mann
distribuzione:
01 Distribution
durata:
130'
produzione:
Forward Pass, Storyteller Productions, Moto Productions, Rocket Science, Iervolino & Lady Bacardi En
sceneggiatura:
Troy Kennedy Martin
fotografia:
Erik Messerschmidt
scenografie:
Maria Djurkovic
montaggio:
Pietro Scalia
costumi:
Massimo Cantini Parrini
musiche:
Daniel Pemberton