Tonny, appena uscito di prigione, ha un tatuaggio sulla sua piccola testa orrendamente calva che recita: "Respect". Peccato che di rispetto non gliene riservi proprio nessuno, anzi, seppur sia il figlio del più temibile gangster di Copenaghen, è oggetto di scherno indiscriminato anche da parte dei suoi scagnozzi. Come se non bastasse, Tonny ha un ingente debito con suo padre che deve urgentemente risanare e, per giunta, padre lo è diventato lui stesso, per sbaglio, con una prostituta.
Ora che con la Palma d'Oro a quel capolavoro di "
Drive" per
Nicolas Winding Refn è arrivata finalmente l'elezione ad autore, i suoi film precedenti sono giustamente diventati opere di culto. Tra questi non poteva di certo mancare la folgorante trilogia dei "Pusher" che, raccontando tre storie di malavita e sofferenza, ci dà accesso al mondo sotterraneo della periferia danese.
Dopo un primo capitolo rigorosamente indipendente, "Pusher 2", sostenuto da fondi economici poco più consistenti, è interamente imperniato sul personaggio di Mads Mikkelsen che, già apparso nel precedente film, ora è protagonista assoluto.
Il regista lo segue con una macchina a mano in tutte le sue disavventure e unisce una tecnica elegantemente scomposta a una messinscena perfetta. Refn è dotato di una raffinatezza tale da essere riuscito, in modo a dir poco esemplare, a combinare il cinema sociale al cinema di genere. Infatti "Sangue nelle mie mani" ha un respiro molto più ampio del semplice film gangster, è la testimonianza di un cinema vivo, pulsante, istintivo, appassionato e, soprattutto, nuovo.
L'onestà narrativa con cui è tratteggiata la storia non aggiunge nulla al naturale evolversi degli eventi, ma non rinuncia alla messa a punto di una vicenda fortemente coinvolgente che sembra autogenerarsi man mano che si entra in contatto con il mondo del protagonista, un panorama oscuro e affascinante che, in poco più di un'ora e mezza, si finisce per abitare. Questo costituisce la forza propulsiva dell'opera: lo spettatore accede a un universo sordido, lercio, sotterraneo che a tratti assume i contorni spaventosi del girone dantesco, però non riesce a interrompere la visione nemmeno per un istante, anzi, rimane stregato dalle atmosfere palpabilmente putrescenti, legandosi quasi affettivamente ai poveri dannati che vi si muovono disperatamente. Su tutti furoreggia il grandissimo Mikkelsen, un povero disgraziato dall'aspetto viscido e lo sguardo vacuo, vittima non solo di chi lo circonda, ma soprattutto delle circostanze che lo travolgono all'improvviso, senza che riesca né a prevedere né ad avvertire la loro gravità.
Lo stile registico di Nicolas Winding Refn è superlativo: è un cineasta appassionato e cinefilo che aborrisce il citazionismo per approdare a una rielaborazione consapevole dei suoi modelli cinematografici e plasmare materia filmica completamente nuova. Seleziona il meglio dal cinema del passato (dall'underground ai classici), lo analizza, lo smembra, lo ricompone fino a possederlo completamente e ad adattarlo alla sua personalissima poetica cinematografica.
Alla fine le sue fonti ispiratrici sono talmente numerose, diverse e molteplici che nessuna è davvero riconducibile a un linguaggio artistico simile al suo: elegante, ricco e senza compromessi. Ha un controllo spaventoso e maniacale di ogni componente costitutivo, una precisione massima nell'allestimento narrativo, nascosta abilmente dall'apparente e imprevedibile spontaneità con cui gli eventi si incatenano e si avvicendano.
A dimostrazione del suo straordinario acume registico basti citare tre sequenze memorabili: l'incontro con le due prostitute girato con un filtro rosso eccessivo e disturbante, il furto notturno della Ferrari letteralmente fagocitata dalle gallerie e la commovente fuga finale con il figlioletto addormentato, nella speranza di pervenire a una salvezza utopica e irraggiungibile, in un'implosione emotiva fortissima che suona come il singhiozzo di un pianto disperato, trattenuto a stento.
02/12/2011