Non era un compito facile quello che aspettava Stefano Sollima, alla sua prima esperienza transatlantica, nel confrontarsi con un regista quale
Denis Villeneuve e con un film quale "
Sicario", che al momento della sua uscita aveva raccolto il favore unanime di pubblico e di critica. Non era un compito facile soprattutto per lui, livornese e cinematograficamente legato alle atmosfere della periferia italiana (sia essa la Napoli di "Gomorra" o la Roma di "
ACAB" e di "
Suburra"), quello di misurarsi con un ambiente e con una tematica tipicamente americani: il deserto e la frontiera.
E tuttavia su questo sfondo americanissimo la vicenda di "Soldado" innesta tematiche globali: la necessità di fare il male per garantire il bene, l'incontro tra la corruzione e l'innocenza (questi due, a ben vedere, già presenti in "Sicario"), ma soprattutto l'universalità dello stesso Male, non più relegato a una
wildness e confinato al di là della frontiera, ma assunto a dimensione esistenziale dell'uomo: sta in ciò l'apporto europeo più interessante che Sollima regala al film.
Se nell'opera di Villeneuve il Messico rappresentava una terra di nessuno caotica e selvaggia in cui non era possibile agire conformemente alla legge, queste caratteristiche vengono ora universalizzate: El Paso e Juárez lasciano il posto al deserto, archetipo stesso della mancanza di istituzioni e di giustizia. Ma il deserto è allo stesso tempo luogo dell'anima, dell'incontro dell'uomo con se stesso, con il proprio passato, con le proprie paure e con le proprie speranze. Il deserto è spazio che predetermina l'azione, luogo che, come nell'intuizione di "
Paris, Texas", costringe al mutismo, al confronto col nulla. Non è allora un caso che anche qui il deserto si faccia scenario di due momenti fondamentali del film: il confronto profondo tra Alejandro e Isabela da un lato, e la scena più intensa e delicata del film dall'altro: quella dell'incontro con il sordomuto. Se il confronto tra il sicario e la bambina rapita diventa terreno di una intesa tra la spietatezza e la purezza, tra gli opposti che soltanto nel deserto, soltanto nella libertà dello spazio aperto e privo di regole possono trovare un'armonia; l'incontro col sordomuto, che sottolinea il mutismo succitato (e che scenograficamente rende omaggio alla grande tradizione western, da Ford a
Leone), è un'oasi di dolcezza in uno scenario dominato dalla crudeltà, un principio taoistico secondo il quale anche nel male deve nascondersi una punta di bene, una pausa di respiro, fatta di silenzi e di gestualità, in cui, non a caso, emerge il passato infelice di Alejandro, in cui il sicario rinuncia alla sua natura assassina per ricordarsi della sua essenza umana, prima di ripartire e di continuare la sua missione solitaria.
Non è nemmeno un caso che la pellicola si apra con la scena di un attacco terroristico a opera di estremisti islamici, che diventerà il pretesto per scatenare la guerra al cartello messicano, ma che si scoprirà poi (a guerra iniziata) essere stato perpetrato da cittadini americani, e non da profughi clandestini. Tale scena, congiuntamente alla centralità della tematica migratoria, attualizza il film e allarga il suo bacino di utenza anche in Europa, dal momento che i richiami alla nostra attualità risultano evidenti.
Sollima fa poi proprie le dinamiche di clan e di affiliazione malavitosa, che richiamano il suo passato registico e che diventano qui elemento centrale nella sceneggiatura di Taylor Sheridan. Il regista livornese dimostra anche qui un certo interesse nell'indagare i meccanismi della piccola criminalità internazionale, che trovano spazio e rappresentazione nella vicenda di Miguel, che attraversa l'intera pellicola fino ad assumere, sul finale, un ruolo di primo piano.
Il film si ricollega alla precedente opera di Villeneuve sotto molti aspetti: centrale, oltre al ritorno di alcuni personaggi, all'ambientazione messicana e ad alcuni temi ricorrenti, è la colonna sonora di
Hildur Guðnadóttir, martellante e angosciosa presenza che sottende lo svolgersi delle vicende e che, rifacendosi al lavoro del rimpianto Jóhann Jóhannson, contribuisce a creare il clima di tensione e una sensazione di inquietudine nello spettatore.
Ciò che più manca è invece la raffinatezza stilistica di Villeneuve che, unitamente all'ineccepibile fotografia di Roger Deakins, aveva reso "Sicario" un'opera di non poco conto anche sotto il profilo estetico. Sollima è in questo più carnale e più sanguigno, meno attento alla perfezione formale e più orientato verso il coinvolgimento del pubblico, ma in questo il film trova una propria dimensione: "Soldado" si inserisce dunque all'interno di un cinema di genere "alto", capace di unire a riflessioni concettuali elementi di puro intrattenimento. E tanto basta.