Pioniere del western all’italiana, punto di riferimento per le generazioni cinematografiche successive, talentuoso maestro della mdp, uomo rude ma estremamente puro. Tutto questo era Sergio Leone. Un regista che con il cinema ha raccontato l’America. La sua America, figlia di una visione eroica dai tratti decadenti e nostalgici
Come per molti autori contemporanei, la grandezza di Sergio Leone è un riconoscimento postumo. È infatti solo in seguito alla morte del regista romano che la critica internazionale comincia a rivedere con occhio meno severo i suoi film. Se indubbiamente il mancato successo negli Usa di un film come C'era una volta in America è dovuto ai tagli inopportuni dei produttori, è un dato di fatto che la critica statunitense avesse, fino a quel momento, fortemente ostracizzato i suoi western precedenti. È solo grazie a una pesante ri-analisi del genere - molto di questo lavoro si deve allo storico Chrystopher Frayling - che gli Usa prendono definitivamente in considerazione il cinema leoniano.
Pur con qualche lontana analogia con l'ebbrezza folle dei film di Peckinpah, Leone ha l'indubbio merito di aver "riscritto" le regole del genere cinematografico. Semplificando molto, il suo cinema si può suddividere in due fasi. Nella prima, fino al 1966, il suo forte senso di nostalgica magia fiabesca, anche se violenta e rozza, ha costruito storie fondate sull'immaginario cinematografico hollywoodiano (che ha accompagnato la crescita e la formazione culturale di Leone), disintegrato tuttavia da uno sguardo sporco, sardonico e a tratti privo di morale.
A partire dal 1968, invece, una più forte impronta moralistico/malinconica investiga più in profondità l'anima dei suoi personaggi e la messinscena tende ad allungare i tempi, dilatando le atmosfere con un ritmo stancamente rallentato. In entrambi i casi, Leone è stato in grado, a modo suo, di personalizzare a tal punto il mezzo cinema da diventare, per le generazioni di cineasti successive, un punto di riferimento indiscutibile.
Come sottolinea Dan Edwards nel suo scritto dedicato al regista romano, "il cinema leoniano è tutt'oggi un template", una sagoma sulla quale molti registi contemporanei riportano le loro visioni. Tacciato di manierismo e di "scorretta rappresentazione", Leone con i suoi film ha distrutto il cinema di genere precedente e ha ricreato, da quelle ceneri plasmate con i suoi ricordi di gioventù, un cinema nuovo. Che oggi è già Storia.
Quell'assaggio di regia è però solo un piccolo passo verso la regia totale che arriva due anni dopo. Nel mentre Leone trova spazio nelle produzioni americane e quello stesso anno fa l'aiuto regia di Wyler in "Ben Hur" e collabora sui set dei vari film prodotti dalla allora fervida
Hollywood sul Tevere.
Nel 1961, dopo aver diretto la seconda unità di "Sodoma e Gomorra" di Aldrich, Leone ottiene il debutto alla regia con il film
Il Colosso di Rodi. Il budget a disposizione è esiguo ma l'esperienza maturata gli permette di mascherare bene la pochezza di mezzi e, con un po' di fantasia per le inquadrature, il film non sfigura di fronte ai kolossal prodotti dagli americani.
Già da questa prima pellicola appare chiaro che Leone ha una
sua visione cinematografica: ne è un esempio la proposta, fatta a Conrado San Martín, di interpretare il ruolo del "cattivo". L'attore, abituato com'era ai personaggi positivi, rimane un po' spiazzato. Lo spagnolo però è l'unico che può interpretare un
malo maledetto, con uno sguardo al contempo angelico e sincero. Questa dicotomia colpisce Leone ed è per questo che insiste affinché accetti.
Il Colosso di Rodi, pur nei suoi difetti, è un film che ha un guizzo spettacolare, una ragguardevole enfasi - come si conviene al genere - e pur non essendo un capolavoro, indubbiamente non sfigura rispetto agli altri suoi "gemelli" prodotti negli anni 60.
Il buon successo del "Colosso" e il momento positivo del genere in Italia fa ben sperare. Leone inizia a lavorare alla sceneggiatura del film "Le aquile di Roma", adattamento a
peplum de "I magnifici sette". Il film tuttavia non verrà mai girato perché i produttori non riescono a ottenere il denaro necessario per realizzare un film di ampi mezzi. Così, un po' sconfortato, una sera del 1963 Leone vede al cinema un film di
Akira Kurosawa, "La sfida del samurai" (in originale "Yojimbo"). Ne rimane particolarmente attratto perché è frutto di una bella idea, realizzata con pochi soldi e molta creatività. Convinto che ci si possa fare un film a budget ridotto, inizia a contattare un po' di persone. Una delle prime è lo sceneggiatore Sergio Donati. Questi però rifiuta e a Leone, che non si arrende mai, gli riesce di scrivere il
plot per un film, nuovo, basato su "Yojimbo" con
Fernando Di Leo.
Quel sano coraggio e la spregiudicatezza che caratterizzerà sempre il cinema dei due autori si palesa, dunque, anche in
Per un pugno di dollari. Girato con pochissimi mezzi a disposizione, interpretato da una compagine di attori folgorante - nella quale Volonté era sicuramente più famoso, nel nostro paese, di un giovane e silenzioso Clint Eastwood -
Per un pugno di dollari esce in sala per la prima volta nel 1964. In pochi ci credono, a quel progetto. Ma quando viene distribuito, nel giro di qualche giorno, ottiene un successo clamoroso (sconvolgendo per questo la gran parte degli addetti ai lavori) e la gente fa fatica a entrare in sala. A Firenze, all'ultimo spettacolo della sera, sono costretti a chiamare la polizia.
L'idea di
Per un pugno di dollari, come detto, mutua parte del
plot da "Yojimbo", ma se ne discosta, oltre che per ambientazione, anche nella scelta, e qui si denota la "penna" di Leone e Di Leo, di enfatizzare dialoghi al vetriolo ed estremamente spicci.
L'enfasi del parlato - comunque non preponderante all'interno della messinscena - è ottenuta da Leone attraverso l'alternanza di momenti di "stasi" e di scoppi d'azione improvvisa, dove nei primi vengono efficacemente incrociati campi lunghi con piani ravvicinati.
Per costruzione filmica, gestione dell'inquadratura e scelte registiche inusuali,
Per un pugno di dollari si configura fin da subito come un film "apripista". Già il solo fatto che si collochi dichiaratamente nella categoria western per il panorama italiano è in quegli anni qualcosa di atipico (qualche esempio del genere c'era stato, in precedenza, ma era passato quasi del tutto inosservato). Inoltre, il pubblico nostrano aveva un approccio al genere che era stato "costruito", negli anni, attraverso la visione del West esemplificata dal cinema classico di matrice nordamericana (John Ford o Howard Hawks o Anthony Mann, piuttosto che il ribelle e contemporaneo Sam Peckinpah). In questo senso, nel 1964, il film di Leone risulta di assoluta rottura. Innovativo, sotto diversi punti di vista, non ultimo la rappresentazione "sporca" e al contempo rozzamente violenta,
Per un pugno di dollari è il film che più di ogni altro ha portato in auge il redditizio e prolifico filone degli
spaghetti-western.
Forte dell'inaspettato successo, l'anno successivo (1965), con il contribuito di Luciano Vincenzoni alla sceneggiatura, Leone torna dietro la macchina da presa per girare
Per qualche dollaro in più. Questa nuova pellicola vede l'entrata in scena di un nuovo personaggio/eroe dai tratti romantici, mentre Clint Eastwood è ancora una volta un uomo senza nome. Interpretato da Lee Van Cleef (che all'epoca a malapena riusciva a pagarsi l'affitto con qualche particina qua e là) Mortimer è il simbolo di quella atavica e interiore sete di vendetta che attraversa gli uomini feriti. Il suo nemico giurato, l'Indio (ancora Gian Maria Volonté) oltre a essere un criminale sul quale pesa una taglia che fa gola a molti, è la principale causa della morte della sorella di Mortimer. Mary infatti si è suicidata dopo che lui l'ha violentata.
Accecato dall'odio, Mortimer vuole ucciderlo indipendentemente dalla taglia. Ma per riuscire a farlo, per riuscire ad avvicinarlo, considerati tutti gli uomini di cui si circonda, Mortimer ha bisogno di una mano. Un aiuto da parte di qualcuno a cui i soldi interessano, eccome: il Monco (Clint Eastwood).
Definito da alcuni critici come il film più "politico" della prima
Trilogia - per via della conta del denaro, nel finale di pellicola - vanta tra i suoi momenti meglio riusciti il duello tra Mortimer e l'Indio, cullato nell'attesa di sparare dalla melodia struggente del carillon (musica curata, come nel precedente film e in tutti i successivi, da Ennio Morricone).
Acclamato al momento della distribuzione, riconosciuto palesemente per il "tocco" leoniano,
Per qualche dollaro in più fa
sold out nelle sale italiane. Nel frattempo la gran parte dei piccoli e medi produttori dell'industria nostrana si sta già attrezzando per produrre western su ampia scala. Nascono in questi anni i fenomeni
cult di Django e Sartana, dei personaggi interpretati da Giuliano Gemma o Luc Merenda.
Per qualche dollaro in più si rivela come detto un successo annunciato e replica le code di spettatori ai botteghini. Leone insomma si diverte, e pure il pubblico si giova di questo entusiasmo. Non attende molto per realizzare il terzo capitolo della ideale
Trilogia del Dollaro. Sulla nascita di questo terzo progetto esistono svariate versioni. C'è chi sostiene che fu Vincenzoli a proporre per la prima volta l'idea alla United Artists (che si era detta interessata ai diritti dei due film precedenti) e c'è chi sostiene che le trattative con la U.A. fossero state gestite con il progetto già in cantiere. Poi c'è la versione dello stesso Leone, che ammise che
Il buono, il brutto e il cattivo era la rappresentazione - finalmente libera da vincoli di budget - di una demistificazione dei concetti di
buono,
violento e
malvagio, all'interno di un contesto belligerante come la Guerra di Secessione americana.
Simbolo "inesatto" - o se volete "incompleto" - del cinema leoniano,
Il buono, il brutto e il cattivo osserva una stessa, identica "finalità" da tre punti di vista molto differenti. In questo modo costruisce, con leggerezza e forte senso del ritmo, una variopinta vicenda di ingordigia e avidità di denaro (la finalità di cui sopra è il mettere le mani su un tesoro nascosto).
C'è una cassa, sotterrata in un cimitero. Contiene 200.000 dollari e a volersela accaparrare sono in tre: il Biondo (Clint Eastwood), Tuco (Eli Wallace) e Sentenza (Lee Van Cleef). I primi due sono ex-soci, Sentenza invece è un mercenario a caccia di soldi facili. Un uomo spietatissimo, pronto ad ammazzare chiunque si trovi a ostacolargli il cammino.
Curiosamente, Lee Van Cleef stavolta interpreta un ruolo diametralmente opposto alla figura romantica di
Per qualche dollaro in più.
Nel modo in cui Leone dipinge i tre personaggi c'è, rispetto al passato, ormai una definitiva assenza di qualsivoglia morale. Sono tutti e tre esseri spietati e voltagabbana. Basti pensare al rapporto tra Tuco e il Biondo. All'inizio sono soci. In seguito uno dei due tradisce l'altro, il quale si vendica. Poi però, visto che ha bisogno dell'ex socio, fa come se non fosse nulla. Sentenza, dal canto suo, è l'incarnazione della spietatezza. Non c'è niente che lo muove, se non l'idea di impossessarsi del tesoro e, forse, una istintiva sete di violenza che gli viene dal profondo.
Il buono, il brutto e il cattivo, zigzagando tra campi di battaglia della Guerra di Secessione e villaggi sperduti, si abbandona anche a una visione del
tutto che è più sbragata e rozza possibile. Non vi è il minimo interesse all'analisi degli aspetti congiunturali né tantomeno allo studio delle personalità dei tre manigoldi. L'unica cosa che conta è il loro percorso verso il denaro, il loro andare fino in fondo, curandosi solo di se stessi.
Si incontreranno, tutti e tre, e si sfideranno nel celeberrimo
triello, scena che di diritto entra nella storia del cinema.
Dalla porta principale.
Nel 1968, solo due anni dopo l'ultimo film - che è anche il terzo western, nonché il quarto film in tutto - Sergio Leone è già conosciuto a livello mondiale. La critica (soprattutto d'oltreoceano) non lo apprezza molto, ma i suoi film segnano un ottimo successo di pubblico e anche l'industria cinematografica statunitense si mostra interessata a produrgli un film.
In sostanza questo vuol dire che Leone può finalmente permettersi di fare qualsiasi
tipo di film. La gente non va al cinema a vedere un western, va a vedere un film di Leone. Nonostante ciò, nonostante lui stesso abbia più volte palesato il disinteresse ormai chiaro nei confronti del West, il suo quinto film,
C'era una volta il West è ancora una volta ambientato in quel periodo storico. L'utilizzo del termine ambientazione, piuttosto che "genere cinematografico", ha un significato preciso.
C'era una volta il West, oltre che dare il via alla
Trilogia del tempo, non è affatto un western ma qualcosa di più ampiamente introspettivo e crepuscolare. In questo senso, pur con la sua smisurata lentezza - che si contrappone dichiaratamente a tutto il cinema western precedente - si avvicina al tramonto violento e privo di scampo dei film di Peckinpah.
Apologo surreale sulla fine di un'epoca,
C'era una volta il West scardina gli stilemi del cinema western
made in Usa. Lo fa con la scelta di mettere una donna (Jill, interpretata dalla Cardinale) al centro della vicenda, attorno alla quale ruota una galleria di personaggi (Frank, Cheyenne, Armonica) molto diversi tra loro. Lo fa trasformando Henry Fonda, un
clean-shaved hero della mitologia cinematografica americana, in un assassino spietatissimo pieno d'ambizione[1] (Leone aveva già
sconvolto il ruolo dell'attore San Martín, allo stesso modo, ne
Il Colosso di Rodi) e dilatando i tempi filmici a dismisura, dipingendo nella polvere il declino definitivo di un'era.
Ancora una volta la colonna sonora di Morricone, ormai indissolubile dalla messinscena, accompagna le sequenze della pellicola. Cambia però in parte il suo registro, assumendo quell'epica che rende più potente e malinconica ogni immagine.
E infatti Cheyenne, Armonica e Jill ricoprono il
non-ruolo di erranti, individui "simbolo" di una realtà che
non è più, ormai quasi definitivamente legata al passato. E quindi incapaci di trovare nel mondo moderno un vero spazio e una vera identità, nuova e non più rappresentata da quello che ormai è morto.
Lo dimostra, in più di un'occasione, la presenza preponderante del treno. Simbolo del nuovo che avanza e al tempo stesso epitaffio amaro ed itinerante (col suo fischio continuo e "mortale") per il vecchio West.
Il film successivo ha una genesi particolarmente travagliata. Leone ha per le mani una sceneggiatura alla quale ha contribuito assieme all'ormai fedele Sergio Donati e a Luciano Vincenzoni. Ambientato nel Messico del 1916,
Giù la testa (1971) è la storia di due uomini diversi che divengono fedeli compagni d'avventura, entrambi scettici di fronte alla rivoluzione e ingolositi dal "colpo della vita" in una banca di Mesa Verde.
Inizialmente Leone vuole cedere la regia ad altri. Pensa a Peter Bogdanovich, ma la trattativa non va in porto per via di alcune divergenze stilistiche, così sente altri
directors, tra i quali, sembra, anche Peckinpah - ma senza arrivare a una vera e propria contrattazione - e alla fine si ritrova a girare comunque il film. La produzione, però, gli impone un attore che il regista romano non accetta facilmente: Rod Steiger. I due si scontrano fin da subito e Leone, nuovamente, decide di non girare. Dà qualche direttiva al suo assistente alla regia e gli dice una cosa del tipo "'mo giralo tutto tu!". Ovviamente anche questo atteggiamento provoca ulteriori scontri con la produzione e solo dopo una serie di forti discussioni, Leone torna a occuparsi del film. Ma in qualche modo vuol farla pagare ai produttori. I tempi lunghissimi della fase di produzione sono dovuti, con molta probabilità, a una precisa presa di posizione di Leone in questo senso.
Complessivamente si può affermare che
Giù la testa sia il più discontinuo dei film leoniani, partorito dalla sua mente, sviluppato con la sua collaborazione, abbandonato e ripreso come una donna amata che non si riesce a lasciare andare.
Diversissimo dalle pellicole precedenti, secondo Cumbow
Giù la testa è il primo film di Leone "sul mondo moderno, post mitologico". E ancora, afferma Mininni, "non siamo più nel West, ma in un'altra terra che gli somiglia vagamente, e dove le questioni personali cedono il passo a problemi nazionali". Non c'è in effetti affinità tra il vecchio West e questo Messico dilaniato dalla violenza. Non c'è a livello visivo né nei
princípi. L'onore e la giustizia svaniscono, il film comincia nell'ingiustizia e si chiude nell'ingiustizia.
In
Giù la testa trova spazio per la prima volta anche una precisa visione del
come l'individuo affronta il proprio presente. C'è chi ha vissuto definitivamente nel passato e non riesce a staccarsi da esso e chi nel presente si adatta giocoforza, senza presa di coscienza intellettuale - semplicemente perché guidato dal proprio istinto di sopravvivenza. I due protagonisti della storia rispecchiano queste opposte situazioni. Juan vs John. Il primo è un peone che ha conosciuto i travagli di una rivoluzione, se ne tiene il più possibile lontano e vive alla giornata, cercando di non farsi schiacciare da ciò che lo circonda. In quest'ottica, l'unico motivo per il quale fingere di abbracciare gli ideali della rivoluzione è la prospettiva della rapina a Mesa Verde. John, d'altra parte è un figlio del tempo passato, legato a ricordi e affetti ormai lontani, ancorato a un intellettualismo snob con il quale tende a interpretare (finché gli riesce) la rivoluzione.
Secondo Roberto Donati, che più volte analizza l'aspetto storico/politico di
Giù la testa, Leone avrebbe fatto un film che è più una presa di coscienza, un film sull'amicizia come unico "sentimento che favorisce cambiamenti". Più che un film politico, in senso stretto, è un film "sui sogni in fumo, [...] sul destino ingombrante [...], su quello che [...] avrebbe potuto essere ma che non è più e che non potrà mai essere".
Pur nella sua linearità, presenta una profonda connotazione nostalgico/passatista segnata dai vari flashback di cui è protagonista Mallory, dalle nuove musiche da brividi di Morricone e da quel finale struggente tra le carcasse dei vagoni in fiamme. La dinamite e la polvere da sparo hanno fatto il loro dovere e il passato sarà per sempre, una terra straniera[2]. Almeno per Juan, che si chiede che farà, adesso.
"Adesso", è l'unica vera visione del
futuro. A breve, brevissimo termine.
Nel 1984, dopo una gestazione lunghissima Leone gira
C'era una volta in America. Questo film il regista romano l'aveva in testa da molto, perché, come detto, vi lavorava da una decina d'anni, prima ancora della realizzazione di
Giù la testa. Colpito dal romanzo "The Hoods" di Harry Grey, Leone vuole fare un suo personale
mafia movie ambientato nella New York dei primi del Novecento. In realtà, come accade per tutti i film del regista romano, il genere filmico risulta un po' stretto nella sua definizione. Scombinando totalmente il romanzo di Grey, Leone traccia una traiettoria nella memoria, una parabola definitiva, destrutturata a livello di montaggio ma fortemente lineare negli intenti intellettuali. Sembra a prima vista un film corale, opera epica e ampia sulla formazione criminale di un manipolo di ragazzini fino all'età adulta. In realtà, a un'analisi più approfondita,
C'era una volta in America potrebbe essere interpretato in maniera più stringente. Il punto di vista è unico ed è quello di Leone, che guarda direttamente - e
attraverso - Noodles (Robert De Niro), individuo spettrale nel presente, impegnato a rimembrare/rielaborare il passato, suo, e dei suoi amici di un tempo (primo fra tutti Max).
Pur dipingendo i quadri di una New York indimenticabile,
C'era una volta in America è il grande, ultimo e più sentito sguardo leoniano al passato, il suo, quello del cinema tutto e di un universo che per tutti gli anni della sua crescita/formazione ha visto come un sogno (che per la sua stessa definizione, si porta dentro un po' di quella sana magia romantica e malinconica).
È con questo film che si conclude l'intera, ridotta eppur pregna, filmografia di Sergio Leone. Dopo
C'era una volta in America il regista romano dà una mano a Carlo Verdone (con il quale stringe una forte amicizia) nella sceneggiatura di "Troppo forte" e gli fa da spalla nella regia di "Un sacco bello" e "Bianco, rosso e verdone".
Nel 1989 infine Leone si spegne a Roma, il 30 aprile, per un attacco di cuore. In quel periodo stava lavorando a un nuovo progetto, un film ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, incentrato sull'Assedio di Stalingrado.
Ad oggi, nonostante in molti abbiamo ammesso di volerlo portare sugli schermi, nessuno ha trasformato in immagini quell'idea.
La caduta violenta degli eroi
"Al cuore Ramon! Mira al cuore"Se per certi versi l'epica e il
pathos nostalgico si palesano apertamente in quella che è definita comunemente
Seconda trilogia o
Trilogia del tempo, a un esame attento si noterà che tutto il cinema leoniano è attraversato da una vena enfaticamente eroica. A Leone non è mai passato per la testa di fare un cinema che riportasse una visione "aderente" a una realtà del passato. La sua rappresentazione del West è puramente
celluloidea ed esasperata, perché gli interessava mostrare una determinata visione di violenza. Forse tutto sommato, considerate alcune sue titubanze ai tempi di
Giù la testa, non è che Leone girasse western perché il genere in sé lo entusiasmava. Semplicemente lo ha sfruttato.
Nel primo film la necessità di rielaborare Kurosawa ha trovato un ideale sbocco in quel preciso genere. Dopo il successo clamoroso che ne è scaturito, Leone ha proseguito su quella strada e con il terzo capitolo della
Trilogia del dollaro ha definitivamente messo la sua impronta indelebile solcando il cammino di quel genere filmico. Però le scelte registiche che hanno contraddistinto il suo cinema, fin dai primi tempi, colpiscono proprio per la capacità di essere "personali".
La filmografia leoniana conta appena sette film (considerando solo quelli regolarmente accreditati). Ma in nessuno di questi si ravvisa una qualche conformità con forme cinematografiche rigide. Ecco allora che quanto detto poc'anzi trova conferma nel suo stesso modo di fare cinema. Leone non faceva western in quanto tali. Leone prendeva il cinema, lo
usava, lo stritolava, lo spremeva fino all'ultima goccia, in quanto
mezzo, e ne estraeva così l'opera che lui aveva immaginato e voleva raccontare.
Come sottolinea Christopher Frayling, i registi del cinema western classico hollywoodiano cercavano di mettere dentro i loro film un realismo rievocativo, il più preciso possibile. Questa chiara matrice documentaristica, che si ravvisa nel western americano, in Leone semplicemente non c'è. Egli rifugge ogni forma di realismo, perché è interessato solo all'aspetto "fiabesco" della vicenda. Il termine potrebbe trarre in inganno, ma è una citazione delle stesse parole del regista romano. "Faccio fiabe per adulti", amava dire. Forse il latente eroismo di molti dei suoi personaggi è implicito in quelle parole, in quell'uso del termine "fiaba", piuttosto che racconto morale (a volte nel suo cinema si fa fatica a scorgerla) o vicenda realmente accaduta o rielaborazione di qualcosa di reale.
Il fatto che il primo film di Leone fosse
Il Colosso di Rodi, un
peplum, non è un caso e si rivela una conferma. Il
peplum negli anni 60 andava particolarmente forte e, privo anch'esso di una vera ricostruzione dell'epoca, utilizzava l'antica Roma come pura ambientazione sulla quale i registi si potevano sbizzarrire. C'erano pathos, azione, magia. Tutti questi elementi a Leone piacevano. Non solo ha diretto
Il Colosso di Rodi, infatti, ma è assodato che il genere lo entusiasmava particolarmente e quando poteva si guardava al cinema più "sandaloni" possibile. Come già detto aveva anche cercato di realizzare "Le aquile di Roma".
Tuttavia non è il puro "ritmo" ciò che maggiormente interessava a Leone, quanto piuttosto la "forza" della storia che poteva raccontare.
Per quel che concerne i modi, poi, Leone ha compiuto un'operazione apparentemente paradossale, per l'epoca. Come afferma Di Leo[3], "negli anni 60 la pubblicità stava già correndo a velocità folle" e sarebbe aumentata, nei tempi del montaggio, fino ai livelli esasperati di oggi. Questo fatto appariva chiaramente agli occhi degli addetti ai lavori, ma Leone non si conformò con questo
accentuarsi del ritmo. Al contrario esasperò, fin da subito, i tempi delle sue inquadrature. L'elogio di Di Leo si riflette infatti nella capacità leoniana di creare "atmosfera" solo e semplicemente attraverso il famoso incrocio di campi lunghi e stretti, coadiuvato dalla musica di Morricone. A uno sguardo superficiale, ma non totalmente errato, è indubbiamente questo uno dei segni più rappresentativi del cinema leoniano.
Il silenzio delle parole
"Quelli grossi mi piacciono, perché quando cascano fanno più rumore"Si è più volte sottolineato come i film di Leone siano pieni di frasi culto. Se ne cita qualcuna anche in questo scritto. Il fatto però che esistano svariate situazioni che, per dialogo, sono entrate nella memoria collettiva dello spettatore cinematografico è qualcosa di tendenzioso. Il cinema leoniano è tutt'altro che parlato. È vero infatti quello che dice Adrian Martin, quando sottolinea che più di ogni altra cosa, i film di Leone sono "odi ai volti umani". C'è il famoso esempio dell'inizio de
Il buono, il brutto e il cattivo, ci sono i già più volte citati giochi tra campi lunghissimi e primi piani molto stretti ma, più di tutto, è apprezzabile come sia appropriata l'ultima immagine dell'ultimo film leoniano: la faccia di Robert De Niro, deformata in una risata sfatta, mentre "scivola nell'oblio dell'oppio"[4]. Questo non è un semplice dettaglio, perché se si considera soprattutto la seconda trilogia, il maggior
avvicinamento dello sguardo leoniano all'interiorità dei suoi protagonisti si coniuga con una sottrazione del dialogo.
Non si tratta però di una precisa scelta dovuta al cambiamento di registro del cinema di Sergio Leone. Come afferma lucidamente lo storico Carlos Aguilar[5], la scelta di far parlare i suoi personaggi molto poco è qualcosa che in Leone ha radici culturali rintracciabili. Innanzitutto la formazione familiare. I genitori, entrambi impegnati nel cinema muto, hanno condizionato la visione filmica del giovane Leone. La preponderante gesticolazione degli attori del muto, tuttavia, si ritrova anche nel cinema di matrice giapponese. Quel cinema verso il quale Leone si è molto avvicinato, in seguito, e a dal quale, almeno in parte, ha mutuato il suo primo western. Il fatto che i suoi personaggi spesso permangano in silenzio va ricercato in questo retroterra.
In un film come
C'era una volta il West c'è una rielaborazione della
maniera cinematografica tradizionalmente statunitense. Si tratta di una rivisitazione del West classico, riflessa in una costruzione dal ritmo rallentato e sospeso, il quale si sposa benissimo con l'afflato nostalgico che (trasponendo dentro al film un'essenza tipicamente leoniana) tutti i suoi personaggi si portano appresso.
A dimostrazione del cambio di registro cinematografico, non c'è solo l'abbandono della messinscena iperbolica e
scanzonata dei primi film leoniani, ma anche la voglia di omaggiare il western classico, pur discostandosene. Di esempi ne suggerisce parecchi Roberto Donati[6]: la prima scena (in totale più di 15 minuti) dall'incedere
fordiano, la presa della stazione che riporta alla memoria l'"Assalto al treno" di Edwin S. Porter, nonché, come molti sottolineano, i rimandi a "Mezzogiorno di fuoco" di Zinnemann.
Tuttavia, considerare gli omaggi di cui sopra come un modo di avvicinarsi al western americano sarebbe errato. Leone, infatti, contamina lo stile tradizionale del western dilatando ulteriormente la messinscena. Affronta una visione del West che è al bivio, di fronte a una svolta epocale. Mette in scena un forte sentimentalismo nostalgico, fatto di sguardi, silenzi.
La stessa colonna sonora si manifesta con l'alto lamento malinconico di Edda Dell'Orso. Non c'è
rumore stavolta, non c'è perché il rumore appartiene al "presente", all'adesso.
C'era una volta il West è un flusso di rimembranze filmiche che Leone amalgama e traduce in un'unica, corposa immagine: la fine dell'epopea del West.
La voce sinuosa e solitaria della Dell'Orso accompagna immagini bagnate di nostalgia, di ricordo, di passato sbiadito dalla polvere. È cambiata anche la fotografia, in
C'era una volta il West. Ora sembra vicina al seppia di vecchie foto sgualcite.
Non cambia invece, anzi forse si amplifica, l'impatto nostalgico della visione leoniana in
Giù la testa. A variare in questo caso è la materia narrativa affrontata. In quella che per molti è la pellicola più politica di Leone, la scelta del regista romano sembra avvicinarsi al suo stile di montaggio. Leone dipinge i contorni (ampi) di un ambiente sconvolto dalla guerra e stringe il campo sulla vicenda intima e solitaria di due uomini opposti (eppur similari), che instaurano una sentita amicizia.
La forte malinconia leoniana è esemplificata dai ricordi che struggono John Mallory, nelle lunghe sequenze in cui un ottimo James Coburn riporta alla mente la sua Irlanda. In effetti la rivoluzione messicana in
Giù la testa (ma anche la Secessione ne
Il buono, il brutto e il cattivo) non è un tema centrale della vicenda. Ma facendovi interagire i suoi protagonisti, Leone può analizzare la loro natura, il loro essere istintivamente uomini del passato,
loser o
loner, oppure individui mutevoli e adattabili (figli del presente), capaci di cambiare faccia secondo un'ottica di comodo.
Il futuro, nel cinema leoniano, è solo un abbozzo lontano.
Si potrebbe considerare la totalità della seconda trilogia leoniana (e con un po' di libertà, anche tutto il suo cinema) attraverso l'acuta osservazione di Mininni: "Leone ha inteso giocare con il tempo, proprio come il tempo gioca con i personaggi".
C'era una volta in America è la dimostrazione lampante di questo concetto, già solo considerando il genere filmico nel quale si
muove: il cinema gangster e noir è notoriamente legato alla tematica del passato ossessionante e del destino definitivo, ineluttabile e insostenibile. Però rispetto a
C'era una volta il West, l'ultimo film di Leone non affronta i
topoi del genere per rielaborarli, bensì
trasfigura ogni immagine dilatandola in funzione del tempo. Del noir vero e proprio, in
C'era una volta in America resta in effetti solo l'ambientazione metropolitana, "dal basso", oppressa dalla minacciosa cementifica verticalità dei palazzoni (che negano qualsiasi fuga) e la figura del perdente Noodles. L'individuo interpretato da De Niro nasce infatti già come
loser (esattamente come molti altri personaggi del noir), è un perdente in partenza, che muove i suoi passi nell'ambiente ostile e soffocante privo di mordente o aspettativa. Sta a grandi linee in questo la differenza più lampante tra Noodles e gli eroi romantici del West,
loser solo in ultima istanza, perché privi di futuro.
C'era una volta in America è perciò il più dichiarato dei percorsi della memoria leoniana. Film che parla più per quel che
non dice, presenta nelle sequenze prive di dialogo momenti riuscitissimi in bilico tra il melodramma e l'evocazione del passato perduto.
Perduto e non modificabile, come dimostra apertamente il naufragio del tentativo di Noodles di intraprendere una storia d'amore con Deborah: la prima volta in cui i due trovano una complicità di sguardi, un'intesa istintiva, è anche l'attimo in cui Noodles la perde per sempre. Anche a livello di messinscena Leone enfatizza questa "sensazione". La scena appare sospesa, i due sono soli, la melodia di Morricone
ovatta il momento, ma è come se il tutto fosse irreale. Ancora: il culmine del loro avvicinamento, che si conclude con un bacio tenero e affettuoso, è anche il momento del distacco. Max lo chiama e Noodles non sa dire di no. Qui finisce, prima ancora di iniziare, il rapporto sincero e interiore tra lui e Deborah. Tutti gli incontri successivi sono solo un tentativo, maldestro e fallimentare di ricreare quell'atmosfera.
Nel secondo trittico filmico, Leone sembra anche affrontare il cinema che si è lasciato dietro alle spalle. La conclusione del West vecchia maniera con la parabola di Armonica, Cheyenne e Jill, la rivelazione di un futuro immediatamente successivo a quella fine, con le speculari personalità di Mallory e Miranda in
Giù la testa (a morire, alla fine, è il personaggio più legato al passato e incapace di adattarsi alla nuova società, dimostrando di essere anacronistico) e la sanguinolenta New York che si forma, che cresce all'alba del nuovo secolo, vista però in maniera così decostruita da apparire anch'essa come un lontano e fumoso ricordo.
E allora con la corsa al rallentatore di quel bambino, in fuga tra i carri con le ruote di legno (altra rimembranza del lontano West), interrotta da un colpo di pistola che pone fine alla vita, sottolineata da quel fischio che (in maniera seppur diversa) è stato simbolo della trilogia precedente, Leone sembra volerci dire che il suo cinema ha concluso il percorso, ha completato la sua maturazione, dilaniando per l'ultima volta il suo vecchio mondo di celluloide, riducendolo definitivamente a un flusso di indefiniti ricordi.
C'era una volta in America, dopo la scena succitata, distende cinema leoniano ancora per molti minuti. Tuttavia, in quel memorabile rallentatore si può dire che concluda la sua ascesa verso una maturità che pochi altri, in seguito, sapranno palesare nel fare film.