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recensione di Giuseppe Gangi

"C'era una volta il West" doveva essere l'ultima fatica nel genere di Sergio Leone, il suo epitaffio: era il momento di voltare pagina, lanciarsi in una nuova avventura. Le cose non andarono così e tornò al western, rivisitato in salsa rivoluzionaria, col sottovalutato "Giù la testa!". Poi dodici anni di silenzio durante i quali il regista si dedicò soprattutto alla produzione: gran parte della commedia western "Il mio nome è nessuno" è attribuibile a lui e come tutti sanno contribuì a lanciare Carlo Verdone nel mondo di Cinecittà. In realtà per tutto questo tempo il regista romano ha cullato l'idea di un gangster movie, del suo gangster movie visto che aveva rifiutato la possibilità di dirigere addirittura "The Godfather".
Tutto era cominciato con la lettura quasi per caso di "The Hood", autobiografia romanzata di Harry Grey, che ricordava i suoi trascorsi da gangster nell'America del proibizionismo. I contorni nebulosi, come quelli di un sogno oppiaceo, si coloravano lentamente di un paesaggio umano e sociale, nonché di un contesto storico ben definito. Dieci anni di travaglio per problemi di diritti d'autore e non, finché nel 1982, grazie al produttore Arnon Milchan, Leone poté far partire la lenta macchina produttiva che gli permise di realizzare la sua opera più ambiziosa.
Il regista mise in piedi un cast di prim'ordine che diresse col suo solito tono burbero in un clima che dovette essere tutt'altro che semplice (Leone era capace di recitare l'intero copione per tutti i personaggi), tanto che De Niro stesso entrò presto in rotta col regista. Eppure il risultato è eccellente. Robert De Niro, scelto per dare corpo a Noodles, offre un'interpretazione di grande finezza psicologica e di fortissima maturità. Lui stesso a quanto pare suggerì James Woods nel ruolo di Max, il quale diede probabilmente la sua miglior prova in carriera. Poi un cast di ragazzi per interpretare i personaggi da giovani, tra cui spicca l'oggi famosa Jennifer Connelly scelta perché sapeva danzare e per - a suo dire - la somiglianza del suo naso con quello di Elizabeth Mcgovern, che interpreta Deborah da adulta. 

Plasmando le coordinate del cinema gangster, Leone compie il saggio definitivo sui due fuochi intorno al quale è ruotata l'ellisse del suo cinema: il Tempo e il Mito. Un'epica gangster che attraversava quasi cinquant'anni di storia americana, ma che, soprattutto, rileggeva col suoi inimitabile sguardo un immaginario già assorbito come quello dei gangster. Una fiaba amorale che chiude la riflessione post-moderna di Leone sul cinema americano. Non per niente, il progetto successivo sarebbe stato di altro respiro, con una diversa impostazione: il racconto della resistenza di Leningrado durante l'assedio Nazista.

Noodles: I vincenti si riconoscono alla partenza. Riconosci i vincenti e i brocchi. Chi avrebbe puntato su di te?
Fat Moe: Io avrei puntato tutto su di te.
Noodles: E avresti perso.
(Robert De Niro e Larry Rapp nel film)

All'inizio, lo sguardo interno al racconto è un'assenza: Noodles, ricercato dai sicari del sindacato, dagli amici come dai nemici, è nascosto nel retro di un teatro di ombre cinesi, dove Leone evitò di mostrare la sin troppo esplicita "lotta tra il Bene e il male". Là dove gli uomini si perdono nell'oppio che obnubila le coscienze, Noodles cerca di soffocare i sensi di colpa, metaforizzati dal rintronante trillo del telefono che collega frammenti degli eventi accaduti la notte precedente. Un assaggio dell'intreccio che si farà strada più avanti, dove si tenterà di rimettere ordine al caos dei ricordi che si affollano e il cinema viene usato come teatro in cui si rivelano le ombre del passato. Dopo la fuga Noodles va alla stazione per prendere i soldi ereditati dalla defunta società, ma ci trova solo vecchi giornali: spiazzato e amareggiato prende il primo treno per non fare più ritorno. La macchina da presa accompagna fuori dall'inquadratura il protagonista e con un breve stacco fa un salto di trentacinque anni: Noodles, ora sessantenne, torna a New York perché è stato richiamato da una misteriosa lettera che ratificava lo spostamento delle tombe del cimitero ebraico. Senza più nulla da perdere e forse stanco di scappare, David Aaronson vuole capire chi ha speso tante energie per scovarlo dopo trentacinque anni. L'unico a essere rimasto nel Lower East Side è il vecchio Fat Moe, dal quale Noodles si fa ospitare: la notte si ritrova a vagare per il locale dell'amico e a guardare dopo tanti anni dal buco intagliato nella parete del bagno, dove, da ragazzo, spiava l'amata Deborah: attraverso un falso raccordo, il suo sguardo genera il flashback che ci proietta negli anni '20 mostrandoci proprio la ragazza che prova dei passi di danza.

La parte della gioventù, ambientata nel brulicante quartiere ebraico, possiede i toni nostalgici del romanzo di formazione: questa linea narrativa si ricollegherà all'età adulta dell'incipit, più dura e incattivita dai tempi, in cui l'anima di Max, corrotta dall'avidità, comincia a entrare in contrasto col più moderato Noodles, che al contrario non possiede grandi ambizioni (non a caso dirà a Deborah che lei e Max si odiano perché troppo simili). Infine il blocco posizionato nel 1968 e introdotto da "Yesterday" ci porta in una New York radicalmente mutata, che mostra come gli antichi gangster, cambiato volto, siano diventati l'anima della politica americana. Guarda caso, nell'anno delle grandi speranze di una generazione, Leone situa il ritorno a casa del loner, simbolo di una America giovane ma già decadente. Quella di Noodles è un'indagine dentro e fuori di sé, e va a costituire il malinconico bilancio esistenziale di uno sconfitto.

«Quando scatta in me l'idea di un nuovo film ne vengo totalmente assorbito e vivo maniacalmente per quell'idea. Mangio e penso al film, cammino e penso al film, vado al cinema e non vedo il film ma vedo il mio...Non ho mai visto De Niro sul set ma sempre il mio Noodles. Sono certo di aver fatto con lui "C'era una volta il mio cinema", più che "C'era una volta in America"»  

Sergio Leone

L'ambiguità di lettura ha fatto la fortuna, oltre che ampliarne il fascino, dell'epopea criminale di Leone. Da una parte possiamo vedere un film la cui premessa è posta alla fine: la visione che Noodles inizia ad avere nella fumeria d'oppio dove è andato distrutto dal dolore e dai sensi di colpa e che, in uno stato di incoscienza, salta indietro e avanti nel tempo immaginando anche un epilogo in cui entrambi gli amici, sia lui che Max, hanno pagato lo scotto del loro tradimento. Dall'altra abbiamo davanti un'opera che ha fatto affermare ad alcuni che "C'era una volta in America" sia l'oggetto filmico più vicino alla "Reserche" di Proust mai realizzato. In fondo l'ambiguità del sorriso di Noodles che riporta alla mente i misteri intorno alla "Gioconda" di Leonardo o al "Ritratto d'ignoto marinaio" di Antonello non può avere un'univoca spiegazione: è il sorriso di chi ha vissuto e di chi vivrà ma anche un prolettico ammiccamento al pubblico che conosce già il destino del povero Noodles, che pagherà il suo essere Giusto ("l'immagine cabalistica di Tzedek", cfr. Gianfranco Massetti).
Non v'è dubbio che l'uso del tempo nella narrazione di "C'era una volta in America" costituisca non solo una delle invenzioni leoniane più originali ma possa anche essere considerato il punto d'arrivo di una ricerca che era iniziata ben presto e che si protraeva sin da "Per qualche dollaro in più". Nel secondo capitolo della "trilogia del dollaro" la musica, quella del carillon, trasportava sia il torvo Colonnello che l'Indio interpretato da Volontè (altro personaggio "drogato") al momento che li legò per sempre in un destino di morte. Il leitmotiv di "C'era una volta in America" è consegnato all'armonica di Cockney: quelle poche note, nelle variazioni morriconiane, ci raccontano il tempo di un'innocenza perduta che fino a quel momento era solo giovanile incoscienza. Al contrario degli onirici flashback di "Giù la testa!", introdotti dal famoso brano "Sean Sean", il meccanismo di emersione dei ricordi va per continue associazione mentali e ridisegna la mappatura esistenziale del protagonista.
Il momento che preannuncia il contrappasso che subirà Noodles lo si può individuare nella serata che Deborah gli concede: un sogno ingenuo che spezza quella flebile linea tra desiderio e possesso, tra amore e violenza, e che porterà l'uomo a stuprare Deborah sui sedili del taxi. Le luci si spengono e l'obiettivo di Leone ritrae l'atto nella sua squallida violenza e il personaggio di De Niro in tutto la sua deprimente insoddisfazione per una possibilità per sempre sfumata. Il protagonista si ritroverà a vivere senza amico (e doppio), senza la donna che ama, senza i soldi. Il disincanto di Leone si manifesta ancora più marcatamente e il suo cinismo lascia spazio per la più lirica elegia.

"C'era una volta in America" si ricompone come noir della memoria, psicologicamente basato sull'opposizione dei caratteri e su atmosferici elementi che tendono allo "svelamento": si noti come Leone (aiutato dalla fotografia di Delli Colli) faccia fuoriuscire molto spesso i propri personaggi dagli angoli della strada, dalla nebbia, da sbuffi di fumo; persino nell'ultima immagine il volto di Noodles è letteralmente velato da una tendina. In qualche modo lo sguardo viene ostacolato nel suo tentativo di sciogliere i nodi del racconto che, d'altra parte, svicola sempre rispetto alle soluzioni più ovvie. La vendetta sembra essere la destinazione finale dell'anziano Noodles ma nel finale, quando decide di non riconoscere nel senatore Bailey l'invecchiato Max, rifiuta anche questa istanza. Si prova tenerezza per una scelta mitopoietica che raccoglie il senso ultimo della pellicola: egli preferisce la sua storia, alla realtà. E attraverso l'ultima grande battuta di Noodles, intravediamo Leone accomiatarsi dicendoci "E' solo il mio modo di vedere le cose".

"C'era una volta in America" non fu solo un film complesso da elaborare e difficile da produrre ma a causa del suo intreccio anche la distribuzione comportò alcune controversie. La produzione per l'uscita americana tagliò le parti dedicate all'infanzia, mandando su tutte le furie il regista romano, e montò il film cronologicamente riducendone la durata a 139 minuti, rispetto alle tre ore e quaranta circa della presentazione cannense e della release europea. Il film al primo montaggio contava ben 10 ore (oggi si sarebbe fatta tranquillamente una serie televisiva) poi ridotte a 6 con l'idea, bocciata dalla produzione, di far uscire due capitoli. Dopodichè Leone passò da un minutaggio di 269' a quello attuale di 220': è notizia recente che l'edizione da quattro ore e mezza, recuperata dai figli di Leone, potrebbe essere proiettata a Venezia nel 2012. Sarebbe un modo meraviglioso per rituffarci nel mondo di Sergio Leone, respirare l'aria del quartiere ebraico in un affresco che scorre potente come un fiume in piena e, come i grandi racconti di una vita intera, ha le sue magnifiche reticenze e le sue digressioni, piccoli ruscelli della memoria che vanno a perdersi nel mare dell'esistenza.

30/04/2011

Cast e credits

cast:
Robert De Niro, Larry Rapp, Joe Pesci, James Hayden, William Forsythe, Rusty Jacobs, Jennifer Connelly, Scott Tiler, Tuesday Weld, Elizabeth McGovern, James Woods, Treat Williams


regia:
Sergio Leone


titolo originale:
Once Upon A Time In America


durata:
220'


produzione:
Arnon Milchan


sceneggiatura:
Sergio Leone, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco Arcalli, Franco Ferrini


fotografia:
Tonino Delli Colli


scenografie:
Carlo Simi


montaggio:
Nino Baragli


costumi:
Gabriella Pescucci


musiche:
Ennio Morricone


Trama
Il quartiere ebraico della New York anni '20 costituisce il campo delle gesta di una piccola banda di ragazzini. Li capeggiano Max e Noodles, la strada è il loro regno per scippi, furterelli, ricatti al poliziotto di zona e così via. Ma i ragazzi crescono, e l'epoca del proibizionismo incalza...
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