Il Don Chisciotte uscito dalla penna di Cervantes credeva di essere un prode cavaliere errante, ma era solo un povero hidalgo tutto nutrito di romanzi cavallereschi. Il Raùl Peralta di Pablo Larraín è un fallito che sfiora la psicopatia, ma crede di essere Tony Manero. Il primo fondava la propria schizofrenia sul dissidio tra letteratura e vita, il secondo incarna la sua alienazione nella sovrapposizione fra cinema e realtà.
Il parallelismo tra il secondo lungometraggio del regista cileno e il capolavoro dello scrittore spagnolo non si ferma qui e, infatti, entrambi gli pseudo-eroi sono animati da un desiderio "triangolare" che li fa rapportare all'altro attraverso un modello-filtro derivato dalla sfera della finzione (i libri cavallereschi e "La febbre del sabato sera"). Come se non bastasse, poi, lo scarto tra reale e irreale delinea il nucleo concettuale primario delle due opere, e in ambedue i casi si tratta di un tramonto-declino: con Cervantes era la crisi degli ideali rinascimentali tipica dell'età del manierismo, con Larraín è l'animalizzazione dell'uomo moderno al tempo di Pinochet.
Tuttavia se il "pazzo" Don Chisciotte resta un paladino della giustizia e, a suo modo, un eroe positivo, il "pazzo" Raùl è un violento, un ladro, uno sciacallo e un assassino. Afferma di lavorare nello spettacolo, ma in verità si esibisce in uno squallido locale, dove viene quasi idolatrato da una coppia di giovani e dalla sua donna, con i quali mette in piedi una coreografia ispirata al "Saturday Night Fever" di John Travolta.
"Tony Manero" racconta le prove del quartetto, le peregrinazioni del protagonista (tra le ripetute visioni della pellicola, che egli conosce a memoria persino in inglese, e la ricerca ossessiva di certe mattonelle di vetro con cui intende riprodurre il pavimento al neon del film) e l'esibizione, sino alla tanto attesa partecipazione ad un concorso televisivo per sosia. Raùl insegue la sua ossessione quotidianamente e per essa ruba, uccide a mani nude e defeca sui vestiti altrui: le sue vittime sono un'anziana signora, il proiezionista della sala che ha sostituito "La febbre del sabato sera" con "Grease", lo spacciatore di mattonelle e il ragazzo che ha osato procurarsi un completo bianco alla Travolta. I suoi occhi, sempre freddi e vuoti, si riempiono di lacrime solo dinanzi al proprio beniamino fatto di celluloide. Dissociazione, scissione, psicosi, nevrosi, raptus e furori omicidi: tanto materiale per uno psicologo.
E poi c'è Santiago del Cile negli anni del regime di Don Augusto a fare da sfondo al disfacimento morale e identitario di Raùl Manero. Larraín inaugura, così, quella trilogia politica che affronterà con "Post Mortem" il golpe del '73 e con "No - I giorni dell'arcobaleno" il referendum che sul finire degli anni '80 sancì il crollo della dittatura. Un primo capitolo che contiene in sé tutto il senso del programma cinematografico alla base della "saga Pinochet" e, per certi versi, anche il meglio.
Questo ballerino schizoide, esattamente come i suoi consanguinei (un impiegato di obitorio e un pubblicitario rampante), incrocia la propria storia con quella del proprio paese, ma il rapporto tra la dimensione intima e quella collettiva risulta percorso da un'ambiguità di fondo. La stessa che ritroveremo in "Post Mortem" e in misura minore in "No", che pure per questo motivo rimane il meno riuscito dei tre. In questo caso, in particolare, il dubbio è che l'imbruttimento del personaggio sia un correlativo dello stato di oppressione vissuto dal popolo cileno, che la sua anima assediata sia una proiezione-metafora del terrore diffuso tra le strade di Santiago. O che i due piani si rilancino reciprocamente per il fatto stesso di somigliarsi, ma senza che lo spettatore ne possa ricavare salde connessioni semantiche. O, ancora, che l'angoscia di Raùl sia indipendente dal contesto in cui è collocata, se non addirittura radicalmente estranea.
Larraín, infatti, lascia spazio e libertà all'interpretazione (è uno dei segreti del suo cinema), ma guardando al resto della sua produzione sembra indiscutibile che aprire una finestra sull'animo umano conti più di qualsiasi circostanza contingente, sia essa la dittatura di Pinochet o il mondo ecclesiastico.
Ecco che il disturbato personaggio interpretato da Alfredo Castro (attore feticcio presente in tutti i film del cileno fino a "Neruda", qui anche co-sceneggiatore) appare come una prefigurazione di quella «umanità spettrale» che sarà al centro de "Il Club", dove il discorso etico diventerà preponderante. Ma ha anche molto in comune con i protagonisti dell'opera prima "Fuga", dominati da una altrettanto pericolosa incompiutezza: lì un geniale musicista era tormentato da una composizione che non riusciva a portare a termine e un altro, meno geniale, faceva di tutto per impadronirsene e renderla sua. Il finto Tony Manero, a sua volta, vive in sé stesso un'incompiutezza e vuole fare sua l'identità di un altro, perché patisce quotidianamente mancanze e incapacità, dal bottone che manca al suo vestito bianco all'impotenza sessuale. Meglio fuggire, come ripete uno degli ospiti del manicomio di "Fuga" (impersonato proprio da Castro), e Raùl sembra appunto scappare quando sale sull'autobus prima dei titoli di coda. Eppure il suo vero fugar è già avvenuto: sta nel voler essere il sosia di qualcun altro, evasione nichilistica ancor prima che estraniante, se è vero che "alla radice della produzione di un sosia può stare, più che il desiderio di essere un altro, quello di non essere, di non essere affatto" (Giovanni Raboni).
Post Scriptum.
Nel ripostiglio delle "pizze" del cinema frequentato da Peralta si intravede il manifesto di "Aguirre, furore di Dio". Pura coincidenza o indizio interpretativo lanciato dal regista?
cast:
Elsa Poblete, Amparo Noguera, Héctor Morales, Paola Lattus, Alfredo Castro
regia:
Pablo Larrain
distribuzione:
Ripley's Film
durata:
98'
sceneggiatura:
Pablo Larrain, Alfredo Castro, Mateo Iribarren
fotografia:
Sergio Armstrong