Ci sono alcuni film impossibili da analizzare prescindendo dall'aspetto autoriale. E ci sono registi che non fanno nulla per evitare che il critico parli del loro film imbastendo parallelismi con le opere precedenti. Pablo Larraín, che è solamente al terzo film (ma il primo non ha avuto visibilità internazionale), sembra rincorrere temi ricorrenti con la stessa ossessione che caratterizza i comportamenti dei suoi protagonisti. Chi insomma ha già visto
"Tony Manero" sa esattamente cosa aspettarsi. E le sue aspettative vengono completamente soddisfatte, anche perché "Post mortem" costituisce un passo in avanti nella carriera di un cineasta già tra i più interessanti del panorama mondiale.
Ritroviamo dunque innanzi tutto l'ottimo protagonista dell'opera seconda di Larraín, un Alfredo Castro con lunghi capelli lisci e brizzolati, che in questo caso sembrerebbe non avere pulsioni criminali, pur essendo un personaggio ancora una volta atipico e pieno di fissazioni. Nella vita batte a macchina gli esiti delle autopsie, vive da solo cucinandosi uova al tegamino, insegue l'amore della sua dirimpettaia (Antonia Zegers, straordinaria) che fa la ballerina di cabaret, adempie rigorosamente ai suoi principi (niente relazioni con donne che vanno con altri uomini).
Soprattutto, vive nel Cile del 1973, a cavallo del golpe di Pinochet. Se è vero che i film di Larraín sarebbero tutt'altro con una diversa ambientazione (anzi non avrebbero ragione d'esistere), il modo in cui riflettono sulla dittatura è del tutto originale, tanto che frotte di recensori - e i loro schemi mentali - erano rimasti spaesati al cospetto di "Tony Manero".
In questo caso i cadaveri prodotti dal colpo di stato vengono letteralmente sviscerati, dissezionati, esibiti. In testa Salvador Allende, al suo seguito centinaia di persone, comprese quelle che avevano manifestato ben poco interesse per la politica. Non solo in questo caso il regista denuncia tali orrori senza ambiguità: ne ha anche per i piccoli borghesi dissidenti a parole (anzi a slogan cretini) e pronti a piegarsi quando si tratta di opporsi realmente.
Tuttavia, il cuore e la forza del cinema di Larraín risiedono altrove. Quanto il regime incide sui comportamenti privati delle persone, che di fronte alla tragedia reagiscono ripiegando sui loro problemucoli di cuore e di carne, probabilmente in maniera irrazionale? C'è corrispondenza univoca, biunivoca o non ve n'é affatto tra questi due aspetti? In questo caso l'ambiguità è voluta e chiaramente perseguita.
Si aggiunga che la tensione raggiunge in "Post Mortem" densità rare e che il regista sa esattamente quando provocare lo spettatore esibendo sgradevolezze, o quando costringerlo a soffermarsi su sequenze (il finale) prevedibili senza la possibilità di distogliere lo sguardo. Siamo insomma di fronte a un autore che lavora sul linguaggio e che ha le idee del tutto chiare. Che forse parla solo ai cinefili, difettando in comunicativa verso il grande pubblico. Ma non certo in personalità e intelligenza.
22/09/2010