Chissà se la maledizione che accompagna ormai da oltre vent'anni il cinema di Quentin Tarantino si ripeterà anche stavolta. Chissà se frotte di detrattori giocheranno nuovamente a dare la caccia alla citazione nascosta, all'omaggio nell'omaggio, se si limiteranno per l'ennesima occasione a uno sguardo superficiale dell'opera nel suo complesso e la bolleranno come un nuovo esempio di postmodernismo metalinguistico, geniale quanto si vuole, ma che comunque rimastica cinema già visto, già proiettato, già metabolizzato.
Eppure, la svolta iniziata con "Bastardi senza gloria" avrebbe dovuto far intuire anche i più scettici che l'arte di Tarantino stesse mutando, esattamente come in trasformazione erano i suoi personaggi portati sullo schermo. Per la verità, la vera novità è che c'è una nuova protagonista nelle pellicole del cineasta statunitense, una new entry che porta a effetti esplosivi l'entrata in contatto con lo stile e i gusti del regista di "Pulp Fiction". La Storia, infatti, è diventata quasi un'ossessione maniacale di Tarantino: prima la Seconda guerra mondiale, poi l'epopea della schiavitù, ora la Guerra di Secessione. Ogni volta gli eventi storici vengono messi in scena da una parte con una perizia stupefacente e dall'altra con un istinto di libertà espressiva annichilente: solo Tarantino può piegare i fatti realmente accaduti ai suoi bisogni di artista, solo lui può decidere su una sceneggiatura cinematografica di riscrivere la Storia dei vincitori e dei vinti. In "The Hateful Eight" il discorso iniziato con "Bastardi senza gloria" e proseguito con "Django Unchained" si fa totalizzante: se prima gli avvenimenti erano un quadro dentro cui l'autore disegnava la sua opera, riempiendola di personaggi fittizi che aveva incollato dal suo consolidato immaginario, ma che si trovavano a dover interagire in un contesto stranamente reale e per noi familiare, adesso gli avvenimenti sono parte del dipinto, abbandonano la cornice per farsi essi stessi contenuto del piano generale.
"The Hateful Eight" è il film meno tipico del cinema di Tarantino, la sorpresa più incredibile che il cineasta nativo di Knoxville ha saputo creare finora: non è solo e non più mero esperimento cinematografico, non è più valido il discorso di un tempo secondo cui la sua grandezza stesse nell'abilità senza pari di creare un universo "parallelo" capace di autoalimentarsi e in cui il cinema non fosse solo un mezzo espressivo ma materia stessa di cui nutrirsi e per cui vivere. No, ora tutto ciò è fin troppo limitante. I personaggi, il loro passato, più raccontato che mostrato nei consueti flashback tarantiniani, la loro dialettica, tutto è pienamente ancorato a un retroterra storico, politico, sociale. La collocazione nella vicenda è problematica, profondamente pensata. Il maggiore afroamericano della cavalleria, il cacciatore di taglia che per rispetto del boia e della giustizia non uccide le sue prede ma le porta vive fino alla forca, lo sceriffo con un passato da dissidente sudista, l'ex-confederato lacerato dalla perdita del figlio in circostanze oscure, il mandriano silenzioso che racconta di investimenti economici ambiziosi e rischiosi, il boia in viaggio verso il patibolo dove andrà ad espletare la sua missione, il messicano a guardia dell'emporio, vittima delle maldicenze e delle ironie per la sua rozzezza e la sua provenienza geografica. Già a fare questo elenco viene il dubbio che sia in effetti, "The Hateful Eight", il nuovo parto creativo dell'autore de "Le iene". Citiamo il titolo d'esordio non a caso: è chiaramente il film più simile per struttura narrativa e caratteristiche di messa in scena.
Anche lì, come ora, c'era un gruppo di uomini loschi e senza legge, anche in quel caso i protagonisti si trovavano di fronte a un regolamento di conti in uno spazio costretto e angusto. Ma il capannone dove i cani da rapina si diedero appuntamento per stabilire chi avesse tradito la banda era solo un pretesto: al giovane Tarantino interessava indagare i meccanismi del noir, le possibilità di incastro che la sceneggiatura gli forniva, quel Tarantino aveva una vera fissazione per il concetto di tempo cinematografico in rapporto a quello reale e la sua macchina da presa si concedeva il lusso di farne l'uso che voleva, piegandolo e plasmandolo a piacimento del suo autore. Stavolta questi piacevoli divertimenti sono messi da parte: il meccanismo del western non è solo uno sfrontato omaggio, un modello preso in prestito per trangugiarlo con ingordigia e risputarlo in versione "tarantiniana". Stavolta il genere è, pur nell'assurdità della location, in una condizione di purezza, di originalità.
Si diceva in apertura del gioco "scopri le citazioni". Mai come in "The Hateful Eight" si rivelerà un esercizio ludico superfluo e inutile: certo, c'è John Carpenter, c'è Howard Hawks, c'è Sam Peckinpah, c'è Sergio Leone, c'è John Ford, c'è Samuel Fuller. Ma alla fine nulla prevale sul resto, più che citazioni o omaggi sono solo prodotti naturali di una concezione del cinema frutto di anni e anni di visioni bulimiche. Ma alla resa dei conti c'è solo il cinema di Tarantino, un'arte che è andata stabilizzandosi negli anni e di pellicola in pellicola, di capolavoro in capolavoro. Il suo cinema non somiglia a nessun altro, non perché ruba a piene mani dai maestri del passato, ma perché questi furti bonari hanno creato una realtà espressiva inimitabile e matura. Certo, ci sono sempre i fitti e fluviali dialoghi, c'è sempre il cartoonesco uso del gore che sdrammatizza di molto la violenza della tensione nell'emporio. Ma sono vezzi cui Tarantino non vuole rinunciare, niente di più. Il resto è lasciato a una messa in scena da Maestro vero, sequenza dopo sequenza, saggio di genialità dopo saggio di genialità. Le scene madri, di cui sentiremo parlare anche tra un decennio si sprecano: dall'incipit naturalista esaltato dal formato 70mm fortemente voluto dal feticista Tarantino all'ingresso del maggiore Warren (Samuel L. Jackson) nell'emporio, dall'interpretazione canora della prigioniera Daisy (Jennifer Jason Leigh nel ruolo della vita) all'incontro-scontro tra il confederato interpretato da Bruce Dern e il già citato maggiore Warren (momento a partire dal quale sale in cattedra un mostruoso Jackson in versione Jules Winnfield).
E come dovremmo poi motivare la scelta cui accennavamo del formato 70 mm? Un capriccio? Uno sfizio da togliersi? O forse una ricerca delle origini? Certo, pensare che Tarantino vada a ripescare il glorioso Panavision che veniva utilizzato, fra l'altro ad altissimi costi di produzione, per esaltare la maestosità dell'immagine dei kolossal per un film girato quasi completamente in interni, appare forse una provocazione. Non lo è se si guarda al percorso di maturazione di quello che resta il regista americano più importante degli ultimi 25 anni: un percorso di riappropriazione del proprio posto nella Settima arte. È lo stesso Tarantino a dircelo. Il suo saggio più sorprendentemente politico, in cui la Storia entra con tutto il suo dolore, il suo carico di morte, violenza, sangue, vigliaccheria e immoralità, è un film-capitale nella presa di coscienza da parte del cinema delle vere radici dell'America contemporanea. Le riflessioni dei protagonisti, tra una sparatoria al ralenti e una testa che esplode come in un horror di David Cronenberg, sono, nel loro insieme, l'affermazione di una nuova consapevolezza da parte del cineasta che le ha partorite. Non è più tempo di giocare e imitare i modelli del passato, non è più l'ora di riplasmare il cinema che più si è amato: no, è giunto il tempo di sfidarlo quel passato e affermare senza timore: "Il più grande di tutti sono io".
cast:
Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Damian Bichir
regia:
Quentin Tarantino
distribuzione:
01 Distribution
durata:
167'
produzione:
The Weinstein Company
sceneggiatura:
Quentin Tarantino
fotografia:
Robert Richardson
scenografie:
Yohei Taneda
montaggio:
Fred Raskin
costumi:
Courtney Hoffman
musiche:
Ennio Morricone