Una vita vissuta pericolosamente come i personaggi dei suoi film, in lotta perenne con i produttori. Regista irascibile e autore sensibile e innovativo, è stato tra i creatori del western moderno. Il suo cinema ha attraversato gli anni della New Hollywood diventando una voce autorevole e fuori dal coro
"Sam era un genio tre ore al giorno, qualche volta di più, ma dipendeva da quanto aveva bevuto. Diceva che era un alcolista che lavorava, ma era un regista meraviglioso."
(James Coburn)
"Un tipo selvaggio pieno di talento. Sam amava il western, era un vero cowboy."
(Michael Cimino)
1. Introduzione
Le dichiarazioni in esergo sono solo due testimonianze raccolte tra le molteplici fornite su Sam Packinpah durante gli anni da amici e conoscenti che danno immediatamente l'impressione di quanto sia stato uomo controverso, complesso, pieno di debolezze, ammirato, amato e anche odiato. Considerato un genio dalla gran parte della gente del cinema ma con un carattere irascibile e "furioso" (1) che lo portano a uno scontro costante non solo con i molti collaboratori, ma soprattutto con i produttori che segnano indelebilmente la sua storia cinematografica. La storia di una lotta per l'affermazione della personale visione della realtà, per il controllo completo della realizzazione del film come opera d'arte, dove il regista è il solo autore. Conflitti epici tra lui e gli Studios per portare a termine le riprese dei suoi film e per ottenere il final cut, dove il più delle volte ne usciva sconfitto.
Figlio della Frontiera americana - la Sierra Nevada californiana al confine con il Messico, scenario privilegiato delle sue opere - e da una famiglia di allevatori e uomini di legge, Peckinpah ha vissuto un periodo di transizione tra due epoche, dove la modernità prendeva il sopravvento in modo veloce e inesorabile su un mondo selvaggio e libertario che andava scomparendo. Autore di soli quattordici film in poco più di vent'anni, di cui la metà western, attraversa gli anni 60 e 70 divenendo l'autore che meglio ha rappresentato il passaggio tra il western maturo a quello moderno: l'individuo è sostituito dal mucchio (selvaggio), l'azione dell'eroe si trasforma e da un movimento alla ricerca di un nuovo equilibrio, partendo da una situazione anomala, diventa un girare a vuoto in un mondo fatto di caos e violenza. Quelle di Peckinpah sono storie di losers, di sconfitti, di uomini (soprattutto) che sanno di essere perdenti in partenza e quello che importa è la lotta per sentirsi vivi. Se Il mucchio selvaggio rappresenta bene questo tipo di sentore, e innalza e supera il genere per diventare l'icona di un'epoca, Pat Garrett e Billy the Kid, insuperato e bistrattato capolavoro, è un'opera cesura della fine di un'epoca, diventa il canto epico finale di un genere ai suoi ultimi bagliori, punto di non ritorno per il western che da quel momento in poi sarà segnato da un lungo crepuscolo. Anni dove non solo il western ma il cinema classico americano entra in crisi (così come il sistema produttivo degli Studios) e che porta alla breve stagione della New Hollywood con l'affermazione di autori provenienti dalla televisione, dall'università o dalle più disparate esperienze individuali. Da una produzione e distribuzione massiccia di centinaia di western durante gli anni 20, 30 e 40, già alla fine degli anni 50 ne vedono la luce poco più di una cinquantina e nel 1969, l'anno de Il mucchio selvaggio, sono solo venti (2).
Ma se fin da subito con Sfida nell'Alta Sierra, lo sguardo di Peckinpah si afferma come tra i più originali nel mettere in scena il periodo di crisi che il cinema (western) americano sta vivendo, i suoi temi e stilemi si svilupperanno e saranno ripetuti con nuove e inusitate sfumature anche negli altri film.
Il concetto di mucchio vagabondo e violento lo si ritrova anche in opere come La croce di ferro, unica prova nel genere bellico ambientato sul fronte orientale del '43 durante la Seconda Guerra Mondiale; così come in Cane di paglia, storia violenta nella brughiera inglese di un mite professore contro un gruppo di villain, o ancora i camionisti ribelli in una lotta senza scopo in Convoy. Altro tema costante sarà il confronto-scontro tra due personalità, amici-nemici che si trovano su fronti contrapposti: che si vede fin dai due vecchi sceriffi in Sfida nell'Alta Sierra e si ripete con il maggiore nordista Dundee e il capitano sudista Tyreen in Sierra Charriba; oppure tra il capobanda Pike Bishop e il suo ex-compagno Deke Thornton, a capo di una ciurma di cacciatori di taglie che gli dà la caccia ne Il mucchio selvaggio; o lo scontro tra Pat Garrett e Billy Kid nel film omonimo; o ancora tra i due agenti a contratto Locken e Hansen in Killer Elite; oppure tra il sergente Steiner e il capitano Stranky in La croce di ferro. Ancora il tema della modernità che entra a capofitto nella storia del West oppure quello del Messico che diventa territorio di fuga, non solo fisico, da parte dei protagonisti di molteplici storie, ma soprattutto luogo metafisico di libertà, spazio mentale dove poter esprimere le proprie emozioni o pensare di (ri)costruire una vita o semplicemente affrontare la fine di un'esistenza, coscienti di vivere fino in fondo la propria esistenza (come nel suo tardo capolavoro Voglio la testa di Garcia). E infine la violenza che diventa non mera esibizione estetizzante fine a se stessa - oggetto di accuse e critiche costanti quando il regista era in vita - ma rappresentazione intrinseca dell'animo umano, imprinting nelle azioni di ogni singolo individuo fin dai giochi infantili, testimonianza di una società dove i soprusi e le coercizioni sono alla base della quotidianità (e questo quanto lo rende distante da un John Ford dove la centralità della comunità, e il ritorno ad essa e al suo ordine, è fondamentale, mentre per Peckinpah rappresenta il terreno fertile del caos e della violenza da cui allontanarsi).
Del resto, Peckinpah vive all'interno del film, del set, e ogni opera rappresenta un momento della storia personale, così come i protagonisti non sono altro che alter ego in celluloide. E i (difficili) rapporti con le numerose mogli, amanti, compagne occasionali e prostitute si riaffacciano costantemente nella sua filmografia, così come la necessità di circondarsi di amici di bevute e di avventure fuori e dentro il set, fin dagli inizi, in un mucchio, una crew, con cui condividere pezzi di vita (tra tutti l'attore feticcio Warren Oates, ma anche L. Q. Jones, R. G. Armostrong, James Coburn, Jason Robards, Kris Kristofferson, il direttore della fotografia Lucien Ballard e tanti altri). Padre assente, marito infedele, in Peckinpah l'uomo e l'artista sono inscindibili: dietro l'irascibilità e la continua ricerca dell'eccesso si nasconde una personalità complessa e complicata, piena di sfumature e di grande sensibilità, difficilmente classificabile e incasellabile. Un uomo di (al) confine, che sentenziava: "La fine di un film è sempre la fine di una vita".
2. L'apprendistato e l'affermazione come autore televisivo
Sam Peckinpah nasce il 21 febbraio 1925 a Fresno in California. Il padre David appartiene a una famiglia di immigrati di origine tedesca, che durante la seconda metà dell'Ottocento si trasferisce all'Ovest dedicandosi al commercio. David viene assunto presso il ranch del giudice Denver Samuel Church, ne sposa la figlia Fern e diventa gestore del ranch. Il suocero è un uomo di legge e un politico apprezzato (è eletto Procuratore della Contea di Fresno e poi è deputato democratico al Congresso degli Stati Uniti negli anni 10 e anni 30) e convince David a studiare diritto, permettendogli ben presto di diventare un affermato avvocato.
Quindi, Sam cresce in un ambiente dove la legge e la Bibbia sono onnipresenti in un luogo immerso nella natura incontaminata. Fin da bambino il suo carattere ribelle si esprime con le scorribande tra i boschi e le montagne della Sierra Nevada, mal sopportando sia il rigore morale del padre e del nonno sia l'educazione imposta dalla religiosissima madre. Durante il college i suoi risultati sono mediocri e l'unico interesse è giocare nella squadra di football. Ai discorsi di diritto del padre e del nonno preferisce le letture dei romanzi di Edgar Rice Burroughs, Charles Dickens e del "Moby Dick" di Herman Melville, ma soprattutto il mondo libero del West, con le storie di cowboy e indiani, tanto da mettere in giro la voce di avere lui stesso sangue indiano grazie alle sue due zie di una tribù della Sierra Mono, al contrario adottate dal nonno paterno.
A causa della sua indisciplina e degli scarsi risultati scolastici, il padre lo iscrive all'accademia militare di San Francisco e nel 1943 si arruola nei Marines: negli anni seguenti passa dagli studi di ingegneria militare (senza diplomarsi) a Lafayette alla scuola ufficiali di Camp Lejeune nella Carolina del Nord. Nel 1945 lo spediscono in Cina con la sua unità, dopo che si è fatto notare più per l'indisciplina e le ubriacature e, ormai a guerra finita, passa gran parte dei suoi diciotto mesi di missione in servizio a Pechino. Congedato, nel 1947 riprende gli studi all'università di Fresno e conosce e sposa nello stesso anno Marie Selland, la sua prima moglie, giovane attrice. Sam studia teatro e s'immerge nella lettura di autori come Joseph Conrad, Ernest Hemingway e William Faulkner e nella visione dei film di John Ford, Howard Hawks e John Huston. La nascita della sua prima figlia, Sharon, nel '49 lo costringe ad abbandonare gli studi e accettare la direzione dell'Huntington Park Civic Theather di Los Angeles, dove per due stagioni mette in scena opere di William Saroyan e soprattutto di Tennessee Williams che ha una grande influenza sulla sua formazione culturale. Ma il denaro non è sufficiente per mantenere la famiglia in modo dignitoso e quindi, dopo un primo fallimentare tentativo a entrare alla Paramount, nel 1952 è assunto dalla Klac Tv, televisione locale di Los Angeles, dove inizia la sua gavetta, partendo da macchinista e assistente di scena. Il nuovo lavoro gli permette di riprendere gli studi e di diplomarsi in Arte Drammatica all'University of South California (Usc).
E' in questo periodo che Peckinpah inizia a sperimentare la regia televisiva, per la tesi di laurea mette in scena Portrait of a Madonna (1952) tratto da una dramma di Tennessee Williams, prima al teatro dell'Università e poi riprendendolo a circuito chiuso con tre telecamere in 35 mm per la Klac Tv. Il personaggio principale è interpretato dalla moglie Marie e già s'intravede la capacità di dirigere gli attori che Peckinpah aveva affinato negli anni dell'apprendistato teatrale. Già si possono apprezzare il senso di tragica fine di un personaggio racchiuso nel suo mondo, di questa giovane donna nevrotica e depressa. E' sempre di questi anni la prima regia di una serie per ragazzi che non ebbe seguito. Il progetto, voluto da Flora Mock pittrice di Los Angeles, prevedeva una serie di cortometraggi sperimentali tratti dalle favole più conosciute. Ma l'unico realizzato è Tom Tit Tot (1953) tratto da una favola dei fratelli Grimm e giocato sulle ombre cinesi con attori che recitano in costume e la voce narrante over. Un primo esempio della versatilità potenziale di Sam Peckinpah che non disdegnava confrontarsi con tutti gli strumenti offerti dal mezzo.
Il giovane irrequieto abbandona però la televisione locale dopo una serie di litigi e approda alla Cbs News come assistente sceneggiatore. E' in questi anni che inizia a collaborare con il produttore Walter Wanger e la Allied Artists supervisionando i dialoghi delle sceneggiature di numerosi lungometraggi tra cui alcuni di Don Siegel come "L'invasione degli ultracorpi", dove fa anche una breve apparizione. I rapporti tra i due non sono eccelsi e anzi Siegel non apprezza fino in fondo il lavoro del suo assistente (3).
La breve parentesi con la Allied Artist lo introduce nel mondo del cinema, ma per Peckinpah non è ancora il momento propizio per compiere il grande salto. Siamo in un periodo dove la divisione professionale tra chi lavora per il piccolo schermo e chi per le produzioni hollywoodiane è ancora molto netta. Il regista, quindi, decide di rimanere alla CBS che gli permette di lavorare alla rete come sceneggiatore e ideatore di serie televisive. Gli anni 50 poi sono molto fruttuosi per il western, un genere che ha un grande fascino e presa sul pubblico, in particolare per le serie "adulte" in prime time.
Il futuro regista de Il mucchio selvaggio trascorre questi anni scrivendo sceneggiature per le principali serie televisive della CBS. Tra tutte, citiamo gli undici episodi tra il '55 e il '58 della serie "Gunsmoke" sulle avventure dello sceriffo di Dodge City Matt Dillon, interpretato da James Arness. Già in questi lavori la volontà di rendere il più realistico possibile il mondo della frontiera con l'inserimento di una visione violenta viene poi smussata nella messa in scena della serie stessa. Il grande successo di pubblico rende Peckinpah uno sceneggiatore ricercato dai produttori televisivi delle serie western.
Peckinpah è ingaggiato per scrivere la prima stagione della serie The Rifleman (1958-1959) (4) a cui partecipa attivamente anche come regista di quattro episodi, anche se il suo debutto come regista avviene con la regia di un episodio, passata inosservata, della serie "Broken Arrow". The Rifleman vede protagonista un tiratore scelto che arriva con il figlio in una piccola cittadina del West e acquista un vecchio ranch in disuso. Interpretato da Chuck Connors, ex giocatore di baseball, le vicende restano all'interno di dinamiche classiche del genere. A Peckinpah non piace il protagonista e vorrebbe rendere il figlio un personaggio più ribelle e adulto. La produzione invece lo riduce a un bambino molto educato e obbediente - a tratti anche un po' lagnoso - e il personaggio di Connors ha sempre una linearità e indissolubilità morale che gli permettono di affrontare le varie vicissitudini in cui è coinvolto con uno stile da eroe senza macchia e senza paura. La serie ha successo e per Peckinpah resta un passaggio obbligato per la carriera di regista televisivo.
Ma è con The Westerner (1960) in cui la poetica di Peckinpah di questo periodo si esprime nella piena maturità. Creatore, produttore, sceneggiatore dell'intera serie (è anche regista di 5 dei 13 episodi) che dura per un'unica stagione e viene trasmessa sulla Nbc dal settembre al dicembre 1960 (5) in prima serata. Il personaggio del cowboy Dave Blassingame, interpretato da Brian Keith, rappresenta un uomo normale alle prese con la quotidianità del lavoro da cowboy, accompagnato dal fedele cane Brown. Gli episodi alternano vicende picaresche - dove a tratti si arriva a toni da commedia, che il regista americano riprenderà in film come La ballata di Cable Hogue - con scazzottate messe in scena come dei balletti, a storie tragiche o drammatiche - come sparatorie con giovani pistoleri o banditi. La violenza verbale si fonde con quella formale e la messa in quadro e il montaggio veloce sono i prodomi cinematici delle future pellicole per il grande schermo. Peckinpah riesce a creare una forte complicità con Keith, a cui il regista si affida per rendere reale e profondo Blassingame. Gli episodi sono poi sorretti da una scrittura precisa e ricca pur contenuta dalla brevità dovuta al formato televisivo. L'episodio "Hand of the Gun" ad esempio racconta il confronto con il giovane venuto dall'Est cittadino che si è nutrito di storie del West e il confronto con i veri cowboy della Frontiera lo vede perdente per la sua superficiale voglia di affermazione come pistolero. Il duello finale, dove il ragazzo viene ucciso, è una delle sequenze più intense dell'intera serie, con l'inquadratura finale, che riprende Blassingame e il suo amico allontanarsi a cavallo lungo la strada della cittadina, ritornando all'accampamento dei mandriani, rappresenta in nuce esteticamente altre sequenze future come ad esempio quelle di Pike e dei suoi compagni ne Il mucchio selvaggio, quando entrano nella città prima della rapina alla banca oppure quando lasciano il villaggio messicano. Uno stile asciutto e superbamente fotografato da quel Lucien Ballard, operatore che arriva dal cinema e che diventerà uno dei principali collaboratori di Peckinpah in molti dei suoi film.
Lo scontro con la produzione, costante per tutta la vita artistica del regista, qui si rivela con l'ostracismo di Robert Kinter, allora a capo della Nbc, a cui i temi e il soggetto di The Westerner non piacciono e tanto meno la forte personalità di Peckinpah. La disistima di Kinter nei confronti del giovane autore lo porta a sabotare la trasmissione nella diffusione nella rete fino a farla chiudere anzitempo, interrompendo uno degli esempi più fulgidi di narrativa televisiva di quel periodo e che aveva fatto compiere un salto di qualità alla produzione degli anni 50 e 60.
Per l'autore californiano gli anni 60 sono un decennio dove lo vedono alternarsi tra i primi tentativi cinematografici e i ritorni al piccolo schermo. Proprio grazie a Brian Keith, Peckinpah debutta l'anno successivo dietro alla macchina da presa con La morte cavalca a Rio Bravo, seguito dal capolavoro di Sfida nell'Alta Sierra, ma le alterne fortune di questi anni lo riportano a dirigere film tv basati su drammi contemporanei come Mon petite chou, Pericles on 31° Street e The Losers tra il 1961 e il 1963. Soprattutto in The Losers, Peckinpah modernizza il personaggio di Dave Blassingame riprendendone il nome e facendolo interpretare a un Lee Marvin in un ruolo di un giocatore d'azzardo, bevitore, girovago. In questo film tv il regista sperimenta per la prima volta la slow motion che utilizzerà ne Il mucchio selvaggio e un'atmosfera goliardica e tragica allo stesso tempo (compreso l'uso di velocizzazione delle riprese stile slapstick) che si vedrà ne La ballata di Cable Hogue.
Peckinpah è un autore ricercato e affermato della televisione e diventa sempre più difficile creare la propria fortuna come regista cinematografico. L'occasione di girare un film come Sierra Charriba gli dà la possibilità di confrontarsi con una Major hollywoodiana, ma è anche l'esempio del più grande scontro con gli odiati produttori che arrivano a massacrare il film durante il montaggio definitivo. Dopo questo film Sam Peckinpah entra nella lista nera degli Studios, non per motivi politici ma proprio per la sua ingestibilità come regista agli ordini della produzione. Questo lo tiene lontano dai set cinematografici per molti anni e si rifugia di nuovo nella televisione con due film tv: Noon Wine (1966) e The Lady is My Wife (1967). Soprattutto il primo è un piccolo gioiello interpretato da Jason Robards e Olivia de Havilland nelle vesti di una coppia di farmer all'inizio del Novecento in un West colpito dalla Grande Depressione. Jason Robards assume come uomo di fatica un giovane vagabondo per aiutarlo nella fattoria e proprio grazie al suo lavoro passa un periodo felice. Ma un cacciatore di taglie è sulle sue tracce e quando lo trova presso la fattoria ha uno scontro con Robards che lo uccide pur di evitarne la cattura. Il giovane fugge, ma viene arrestato e condannato a morte per l'omicidio non commesso. Il rimorso per l'ingiustizia, la comunità che non crede al fattore ma ha già incolpato l'estraneo, il confronto morale con la moglie e i due figli, portano Robards al suicidio per emendare la propria colpa. Robards dona al personaggio di Earl Thompson una profondità tragica e Peckinpah dirige un'opera utilizzando una messa in scena ariosa ed elegiaca, di grande forza poetica con una fotografia impostata su toni caldi. L'ineluttabilità della fine, lo scontro dell'integrità etica tra l'individuo e l'imposizione di leggi implacabili e regole bigotte di una comunità che non prova pietà, rendono Noon Wine un'opera di alta drammaticità.
Gli anni 60 sono alla fine e Peckinpah sente sempre più stretto la cornice del piccolo schermo. Il rischio è di diventare per sempre un autore televisivo, ma arriva l'occasione de Il mucchio selvaggio che gli apre definitivamente la via del cinema. Peckinpah abbandona la televisione e d'ora in poi si dedicherà solo più alle opere per il grande schermo, raggiungendo l'obiettivo di diventare un autore cinematografico.
3. Il western rinnovato tra sconfitte produttive e capolavori cinematografici
Tre avventurieri entrano in una cittadina di frontiera: sono Yellowleg, Turk e Billy. Il primo è stato scotennato da un sudista durante la guerra e riconoscendolo in Turk lo segue per vendicarsi. Durante una sparatoria per sventare una rapina, Yellowleg uccide accidentalmente il figlio di Kit, che lavora nel locale saloon e che le donne del paese considerano una prostituta. Kit decide di portare la salma del figlio nel villaggio per seppellirlo vicino al padre e marito a cui nessuno crede dell'esistenza. Il viaggio è lungo e pericoloso perché attraversa un territorio presidiato da tribù indiane. Yellowleg, assalito dal senso di colpa, accompagna la donna e durante il tragitto l'odio di Kit nei confronti di Yellowleg, attraverso un continuo scontro, si trasforma in sentimento affettuoso. Giunti al villaggio riescono a trovare la tomba del marito di Kit nel cimitero fatiscente e Yellowleg ha un duello con Billy e Turk. Uccide Billy e ferisce Turk, ma Kit interviene convincendolo a non scotennare il vecchio sudista e lasciarsi alle spalle i sentimenti di vendetta.
Questa in sintesi la trama di La morte cavalca a Rio Bravo (The Deadly Companions, 1961) primo lungometraggio di Sam Peckinpah, opera quasi disconosciuta dal regista, che a distanza di anni continuava a non volerne parlare, per lo scontro avuto con il produttore Charles B. FitzSimons (6), fratello di Maureen O'Hara protagonista e interprete di Kit. Brian Keith, scelto per il ruolo di Yellowleg proprio dopo la fine di The Westener, sponsorizza fortemente la scelta di Peckinpah come regista, visto che lo aveva apprezzato durante l'esperienza televisiva. Peckinpah non riesce a intervenire sulla sceneggiatura che viene blindata da FitzSimons, ma con la complicità di Keith cerca di personalizzare il film durante le riprese, anche se il produttore lo monta secondo il proprio gusto. Storia che rimane su un solco abbastanza classico di vendetta e riscatto con "uno schema piuttosto comune" (7), Peckinpah riesce solamente a controllare la messa in scena e fornire una certa profondità psicologica ai personaggi, in particolare a quello di Yellowleg, ma la violenza viene attenuata poi dal montaggio voluto dalla produzione. Se per Peckinpah la rappresentazione della violenza doveva essere realistica e senza sconti, per FitzSimons deve avere una morale: ad esempio, il rimaneggiamento del finale contro il volere del regista, che vede Yellowleg uccidere in un duello leale Billy e perdonare Turk per poi convogliare in un happy end con Kit. Certo, ci sono elementi preziosi tipicamente peckinpahniani come la sequenza nella città fantasma e il cimitero, dove diventa luogo di morte e allo stesso tempo di felicità nella scoperta del ritrovamento della tomba del marito di Kit, che comprovano la verità della donna, in una messa in scena che accenna alla compresenza di sentimenti contrastanti e inusuali per il genere. Altro elemento di interesse è la psicologia complessa di Yellowleg, con le cicatrici dello scalpo subito e il problema con il braccio destro che diventano segni fisici, reali e per nulla banali, di un malessere interiore. Elementi caratteristici di molti personaggi nelle opere future del Nostro. Ma d'ora in poi, agli occhi di Peckinpah il produttore diviene la nemesi da combattere per poter prendere completamente possesso del suo lavoro.
Anche se in Europa viene in qualche modo apprezzato dalla critica francese (8), La morte cavalca a Rio Bravo è un insuccesso commerciale negli Usa, ripetuto anni dopo quando, in un secondo tentativo di sfruttamento della pellicola, viene ridistribuito con un altro titolo. L'esperienza produttiva di FitzSimons rimane isolata e Peckinpah ritorna in televisione a dirigere un episodio della serie "Route 66".
Si presenta ben presto però un'altra occasione per il regista, apprezzato da Sol Siegel, responsabile della Metro Goldwyn Mayer, per il lavoro alla televisione e che gli offre la direzione di un film basato sulla sceneggiatura di N. B. Stone jr., per cui sono stati già ingaggiati Randolph Scott e Joel Mc Crea come protagonisti. Arriva sugli schermi così Sfida nell'Alta Sierra (Ride the High Country, 1962), primo vero capolavoro di Sam Peckinpah che spariglia in cinema western.
Opera crepuscolare simbolica del western degl anni 60, Sfida nell'Alta Sierra rappresenta bene il sentore del cambiamento in atto all'interno del genere dove il tradimento, la vecchiaia dell'eroe, la modernità che invade e cancella il vecchio mondo, sono messi in scena e declinati in varie forme. Del resto anche il grande John Ford con il suo "L'uomo che uccise Liberty Valance", quasi coevo del film di Peckinpah, da par suo, racconta questo tipo di cambiamento. Senza citare i western che hanno cambiato il genere e in qualche modo sono state anche opere simboliche della New Hollywood, la storia dell'ultimo viaggio di una vecchia coppia di amici, un tempo uomini di legge, ma adesso il primo, Steve Judd (Joel Mc Crea), ha passato gli ultimi anni a svolgere lavori infimi e il secondo, Gil Westrum (Randolph Scott), si è ridotto a saltimbanco in una fiera di paese rivendendo e imbellendo le sue avventure da pistolero. Sfida nell'Alta Sierra è il primo grande film sul passare del tempo, elegia della vecchiaia, del crepuscolo di uomini, più che di eroi, che devono lasciare il passo alla modernità e alla giovinezza. Stesso discorso che affronterà anche Henry Hathway qualche anno dopo con "Il Grinta" con un John Wayne vecchio sceriffo pieno di acciacchi ma ancora combattivo; oppure "I cowboys" di Mark Ryddel nel 1972, dieci anni esatti dopo il film di Peckinpah, dove sempre John Wayne fa da mentore a un gruppo di ragazzi che devono portare una mandria, un po' come i Randolph Scott e Joel Mc Crea fanno con il giovane aiutante Ronald Starr; o ancora "Il pistolero" del 1976 di Don Siegel che rielabora in qualche modo le tematiche peckinpahiane, l'ultimo film di John Wayne, già malato, che interpreta praticamente sé stesso come icona morente di un western ormai tramontato. Così come anche per Randolph Scott, anche lui altra icona del western maturo e classico degli anni 40 e 50, Sfida nell'Alta Sierra è l'ultima sua interpretazione che ribalta il ruolo di eroe senza macchia della sua carriera cinematografica.
Un'opera seminale il secondo film del regista californiano che ha avuto mano libera nella realizzazione, riesce a riscrivere praticamente i dialoghi nella sceneggiatura e ritrova il direttore della fotografia Lucien Ballard, dopo l'esperienza televisiva, e che diventa un punto di riferimento per molti dei suoi film.
Peckinpah mette in scena un western atipico, ibrido tra classico e moderno, dove ci sono continui ribaltamenti dei ruoli e contrapposizioni forti. La sequenza iniziale dell'arrivo di Joel Mc Crea nella cittadina è emblematica: sta per arrivare la corsa di cavalli contro un cammello, un'automobile scoppiettante taglia la strada, la gente è in festa, e lui pensa che siano lì per lui, invece arriva un poliziotto in divisa che lo manda via, e già ti mostra che siamo agli inizi del 900 e che il vecchio West è diventato una storia da raccontare nei baracconi del luna park. Peckinpah per tutto il film continua a rimarcare l'aspetto della decadenza, del vecchio: i vestiti consunti di Joel Mc Crea; i primi piani sui volti rugosi dei protagonisti; gli acciacchi e i reumatismi di cui si lamentano e le storie del passato che si raccontano, con Randolph Scott che si dimostra deluso e pieno di recriminazioni per una vita onesta che non gli ha concesso nulla. La contrapposizione si fa più forte affiancando loro il giovane Starr e Mariette Hartley nel ruolo di Elsa, figlia di un fattore bigotto. Il duplice percorso narrativo del viaggio dei tre uomini (più la ragazza) verso un villaggio di minatori, per recuperare l'oro da trasportare alla banca della città, e l'innamoramento dei due giovani trovano poi un punto di sintesi nelle sequenze centrali del film. Il villaggio dei minatori è poco più di un accampamento dove regna la violenza e la sopraffazione, con la Hartley che si illude di lasciare la prigione del genitore sposando uno di loro. E il futuro sposo con il gruppo di fratelli (tra cui spicca Warren Oates) sono un prodromo di un "mucchio selvaggio", rappresentazione di tutta la decadenza etica della società a cui i due vecchi sceriffi tentano di porre una diga. La sequenza del matrimonio tra la Hartley e il minatore è emblematica di questa confusione: chiesa, bordello, saloon, legge, sono rappresentati nello stesso luogo e persone con un occhio realistico e brutale. Girata in modo magistrale, con quella ricchezza di inquadrature che sono una delle cifre stilistiche di Peckinpah, la sequenza diventa l'architrave su cui ruota il film, il punto di discesa etico, temporale e spaziale, visto che i due protagonisti discenderanno dalla montagna per tornare in città inseguiti dai fratelli che vogliono recuperare la giovane sposa, in una caccia all'uomo all'ultimo sangue. Nel mezzo oltre all'innamoramento dei due giovani, c'è il tradimento di Randolph Scott che vuole rubare l'oro ma viene scoperto dall'amico; il confronto tra i due protagonisti e la messa in discussione della loro amicizia; la morte del padre di Mariette da parte dei fratelli arrabbiati dello sposo; il riscatto morale del giovane e di Scott durante la fuga dal villaggio dei minatori; fino alla sparatoria finale nella fattoria della ragazza. In uno scontro aperto tra i due uomini con i fratelli rimasti vivi fino a quel momento, assistiamo al canto del cigno del vecchio westerner Joel Mc Crea che morente pone l'ultimo sguardo alla Sierra Nevada in un allineamento scopico tra personaggio, regista, spettatore, di elegiaca bellezza.
Sfida nell'Alta Sierra è un film a basso budget e viene distribuito male nelle sale americane in doppio spettacolo con un'altra pellicola. Il grande successo critico in Europa, la premiazione in molti festival in giro per il mondo, porta la critica americana a "rivalutare" il giudizio sul film.
Peckinpah si rifugia nuovamente nel lavoro televisivo e deve attendere un paio d'anni per ricevere una nuova offerta. Sierra Charriba (Major Dundee, 1965) diventa uno delle opere più controverse della carriera del cineasta ed è quella che lo inserisce nella "lista nera" delle Majors con cui arriverà a uno scontro frontale a causa del produttore Jerry Bresler. Pur iniziando con un'apparente positiva collaborazione, il malinteso tra i produttori e Peckinpah deriva da una visione agli antipodi del film: se da un lato volevano un grande western con scene di massa e scontri a fuoco, dall'altro Peckinpah aveva in mente già la rappresentazione di uno scontro di tutti contro tutti dove il mucchio selvaggio diventa il personaggio principale nel suo girovagare tra la frontiera messicana. E' ormai storia il continuo battibecco con il produttore e la troupe: Bresler comunica a Peckinpah che il film si deve girare in soli sessanta giorni tagliando quindici giorni di riprese. Tra varie minacce di abbandono di massa del set e di licenziamenti in tronco, sarà il gesto di Charlton Heston (che interpreta il protagonista Maggiore Dundee) che, rinunciando al suo cachet, permette di continuare tra mille difficoltà le riprese.
Girato in gran parte in Messico, la caccia al capo Apache Sierra Charriba da parte di un'accozzaglia guidata da Dundee, e composta da prigionieri sudisti, ladri di cavalli e delinquenti comuni, è un'avventura che a tratti ha un sapore epico, ma dove si assiste a un ribaltamento della figura dell'eroe. Dundee è un frustrato che durante la Guerra Civile americana viene relegato a comandare un campo di prigionia alla Frontiera; il suo amico ed ex compagno d'armi, passato nelle file dei Sudisti, è suo prigioniero con i suoi soldati, e aspira alla fuga e alla vendetta nei confronti di Dundee. Il nuovo dualismo tra i due protagonisti si arricchisce con la descrizione del confronto interno al "mucchio" che rimane insieme solo per dare la caccia all'indiano ribelle che scorrazza nella Sierra uccidendo coloni e soldati. Oltretutto la missione non è autorizzata e Dundee con la scusa di recuperare dei bambini rapiti si cimenta in un'avventura che deve portare lustro alla sua carriera, sconfinando in Messico e scontrandosi con l'esercito francese di Massimiliano I.
La distinzione tra carcerieri e prigionieri, tra sudisti ed esercito confederato, è labile e la caccia a Sierra Charriba gira a vuoto (e nelle intenzioni di Peckinpah non avrebbe dovuto portare a nulla, ma è costretto a girare dalla produzione la sequenza dello scontro con la banda di indiani e la loro uccisione. E' il giovane trombettiere, voce narrante intradiegetica, che uccide casualmente Sierra Charriba e non Dundee). La sequenza all'interno del villaggio messicano se in origine ha lo scopo di trasformarsi in una razzia per approvvigionarsi di viveri, nel momento in cui ci si accorge che gli abitanti non hanno nulla e sono sotto il dominio delle armate francesi, si trasforma in uno scontro a fuoco per liberare il villaggio. Insomma abbiamo un western girato con grande profusione di mezzi e con una linea narrativa classica da caccia all'indiano da parte di soldati a cavallo, ma con ribaltamenti di temi e concetti moderni di sconfitta e inutilità delle azioni tipiche della filosofia dell'autore californiano.
Peckinpah aveva divorziato dalla prima moglie qualche anno prima e s'innamora della giovane attrice messicana Begonia Palacios durante le riprese. La sposa e si prende dieci giorni di pausa per la luna di miele prima di iniziare il montaggio, facendo ulteriormente infuriare Bresler che monta il film tagliando intere sequenze e scene, tra cui quelle iniziali dove Charriba massacra un plotone dell'esercito e poi distrugge la fattoria, uccide i coloni e rapisce i bambini e il finale in cui dovevano morire tutti dopo lo scontro con l'esercito francese al confine messicano. Peckinpah è disgustato dal comportamento di Bresler e perde la battaglia legale di far togliere il suo nome dai titoli di testa. Il film pur massacrato nel montaggio finale (alcune scene sono state recuperate nelle versioni dvd negli ultimi anni), con incongruenze narrative e alcuni personaggi ridimensionati, rimane un esempio di cinema spettacolare moderno, pieno di anarchica violenza e un'anticipazione delle tematiche che saranno compiutamente realizzate ne Il mucchio selvaggio.
Lo scontro con Bresler apre un periodo oscuro e difficile per Peckinpah. Per lasciarsi dietro le spalle il western accetta l'offerta del produttore Martin Ransohoff di dirigere "Cincinnati Kid" una storia di giocatori di poker durante la Grande Depressione interpretato da Steve McQueen e Spencer Tracy. Dopo però otto giorni di scontri durissimi sul set con la produzione, Peckinpah è licenziato in tronco e sostituito da Norman Jewison (nel frattempo anche Tracy ha abbandonato ed è rimpiazzato da Edward G. Robinson).
La carriera cinematografica del talentuoso regista sembra terminata ancor prima di essere iniziata. Deve mantenere due mogli e quattro figli e per tirare avanti ritorna a dirigere film per la televisione e scrivere sceneggiature come "Doringo" di Arnold Laven. E' il successo di Noon Wine che riporta in auge il suo nome e gli permette di ritornare dietro la macchina da presa.
4. Il ritmo della violenza e dell'amore
Il produttore Kenneth Hyman, diventato responsabile produttivo della Warner Bros, che conosceva da qualche tempo Peckinpah e che aveva ammirato Sfida nell'Alta Sierra, gli propone di girare un film che per vari problemi di casting non partirà mai. Peckinpah allora gli sottopone due sceneggiature: La ballata di Cable Hogue e Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969).
Girato completamente in Messico, Il mucchio selvaggio è il film summa del regista californiano: la storia della banda di Pike Bishop (William Holden), liberamente ispirata alle gesta di Butch Cassidy, diventa la concentrazione dei temi cari al Nostro e allo stesso tempo l'esempio più completo del nuovo cinema americano. Tra azione e contemplazione, la messa in scena di Il mucchio selvaggio è una sintesi estrema di epica individuale all'interno di un'etica di gruppo e scontro tra modernità e passato, tra genere e mainstream, tra Storia della Frontiera e della Rivoluzione Messicana e storia di un gruppo di uomini selvaggi la cui unica molla è la violenza, perché con essa (con)vivono e in essa si realizzano. La rappresentazione della violenza non è fine a se stessa e la sua estetica si basa su una raffigurazione realistica come mai prima di allora è stata portata sullo schermo. Fino in fondo Peckinpah vuole mostrare il prodotto della violenza e la sua messa in scena perché solo così la si può esorcizzare senza esaltarla per una superficiale bellezza esteriore. Nella famosa sequenza della sparatoria finale nel fortino del generale Mapache (Emilio Fernandez) dove Bishop insieme ai suoi tre sodali - Dutch (Ernest Borgnine), Lyle Gorch (Warren Oates) e Tector Gorch (Ben Johnson) - affrontano da soli un intero esercito, i fiotti di sangue, la massa dei corpi di uomini, donne e persino bambini, sono moltiplicati dai punti di vista della macchina da presa, dalle zoomate repentine, dagli stacchi di un montaggio sincopato e da un uso dello slow motion che come spiega bene Katy Haber (9) non vuole essere un puro elemento estetico ma rappresentarne la crudezza, perché la morte è sempre penosa e lentamente deve essere accettata. La morte non è pulita, veloce, indolore, ma sporca, violenta e dolorosa. Con tutto ciò che ne consegue. E la sua rappresentazione fa apprezzare di più la vita: la convivialità con gli amici, le bevute, la musica, l'amore di una donna, uno sguardo di un bambino, un gioco infantile, la bellezza questa sì di una vita semplice e contemplativa come viene messa in scena nella sequenza del villaggio messicano di Angel (Jaime Sanchez) dove i quattro banditi sono ospiti per un breve momento.
Peckinpah lavora sulla dilatazione del tempo accelerando l'azione e decelerando la messa in serie, così che l'attimo, il momento, si trasforma in un'eternità emotiva e spaziale. La continua contrapposizione della forma filmica si compenetra con la dualità dei contenuti mediante i personaggi e i loro movimenti all'interno della scena. La coppia Bishop-Thornton (Robert Ryan) come simbolo di un presente senza futuro (Bishop) e di un passato senza presente (Thornton). Ma è anche l'incapacità da parte di Bishop di abbandonare un modo di vita come ha già fatto il vecchio compagno di rapine Thornton. E del resto i due non s'incontreranno mai durante tutto il film in un confronto a distanza, dove il primo fugge in Messico dopo una rapina andata male e il secondo che lo insegue controvoglia assoldato dalla compagnia ferroviaria che lo vuole morto.
Ci sono più "mucchi selvaggi" che si confrontano sul terreno: quello dei cacciatori di taglie capitanati da Thornton; l'esercito raffazzonato e rapace di Mapache; i peones rivoluzionari di Pancho Villa, che vogliono le armi per combattere Mapache; gli stessi soldati dell'esercito americano, che stanno a guardia del carico di armi sul treno rapinato dagli uomini di Bishop, sono un mucchio lento e disordinato. Ma se vogliamo parlare di "mucchi" dove il "selvaggio" prevale non possiamo traslare il concetto anche alla compagnia ferroviaria simbolo di un capitalismo conquistatore per cui la vita non ha nessun valore fino ad arrivare a causare una strage di innocenti in un centro cittadino pur di catturare dei banditi? Oppure le forze straniere con interessi economici e politici che non si fanno scrupolo di armare dei banditi così ben rappresentati dai consiglieri militari di Mapache? O ancora la manifestazione di ignari cittadini contro l'alcool che sono pronti a condannare chi non segue i loro dogmi moralistici? Del resto il "mucchio selvaggio" come emblema della società moderna, quella che sta arrivando o è già arrivata alle soglie del 900 con la ferrovia, viene simbolicamente rappresentata nella sequenza iniziale dall'orda di formiche che attaccano e uccidono lo scorpione, mentre un gruppo di bambini ride e si diverte per poi bruciarli insieme, in un montaggio alternato con le immagini della disastrosa rapina fallita di Bishop e dello scontro a fuoco della sua banda con gli uomini della ferrovia.
Il cinema di Peckinpah ne Il mucchio selvaggio è liminale, border line sotto l'aspetto geografico, umano, temporale: la frontiera attraversata del Messico, spazio geografico in frantumi e in costruzione; la vita da fuorilegge secondo regole riconosciute dagli appartenenti al gruppo; la nostalgia di un passato che non esiste più (e forse non è mai esistito). Sia i flashback personali di Bishop e Thornton sia la presenza del vecchio Sykes (Edmond O'Brien), testimone delle gesta della banda al completo, rappresentano questo passato; così come la vecchiaia che diventa emblema di finis vitae così come il Messico è una finis terrae.
Peckinpah parla di uomini che agiscono in un mondo e in una realtà intrinsecamente violenta, dove è saltata anche la differenza tra giusto o sbagliato. Allora ciò che rimane è la parola di un uomo, come nel famoso scambio del dialogo tra Bishop e Dutch, mentre parlano del tradimento di Thornton che gli sta dando la caccia. Bishop, giustificando il vecchio amico, dice: "Ha dato la sua parola". Dutch in risposta: "Ma è importante a chi l'hai data!". In una riaffermazione di un tipo di etica che rimane alla base della relazione del gruppo e che li porterà alla fine a tornare nel fortino di Mapache per recuperare Angel catturato dal generale.
Anche la frontiera e il Messico stesso diventa un non-luogo, una zona dove vige un movimento circolare, zigzagando tra le montagne, le gole, il deserto, i fiumi e i piccoli e poveri villaggi. Dopo che Bishop e i suoi amici sono morti e i cacciatori di taglie se ne vanno con i corpi, Thornton resta appoggiato a alle rovine dell'arco in pietra, all'entrata nel forte di Mapeche. Quando Sykes torna e gli chiede cosa farà, lui risponde: "Penso di andarmene in giro qui intorno per un po'". Ecco, il girovagare senza meta, senza punti cardinali precisi, muoversi restando fermi. Che è poi quello che fa il cinema: ti fa viaggiare attraverso i sogni delle immagini, restando seduto sulla tua poltrona.
Dopo Il mucchio selvaggio non solo il western, ma il cinema tout court non è più lo stesso. Si può dire, senza tema di smentita, di essere alla presenza di un capolavoro del cinema mondiale: abbiamo una messa in serie innovativa con inquadrature (il film ne conta 3.650) velocissime che durano pochi secondi, montate con altre in slow motion; il calibrato e drammatico raccordo degli sguardi dei personaggi nella messa in quadro; il perfetto connubio tra forma e contenuto con una sceneggiatura equilibrata nel suo sviluppo diegetico tra azione e dialoghi e con tutti personaggi profondi e disegnati a tutto tondo; una messa in scena controllata nei minimi dettagli eppur dovuta anche a tantissima improvvisazione creata dal genio registico di Peckinpah (10). Infine, il tutto è sorretto dalla fotografia di Lucien Ballard, che gioca su colori tenui e riprese ariose negli esterni e geometriche nelle strade strette durante la sparatoria iniziale e nel cortile del fortino in quella finale, e dalla colonna sonora di Jerry Fielding, che dona un ritmo interno alle sequenze con il tema ormai diventato un classico della musica per il cinema.
Il mucchio selvaggio è un successo di pubblico e di critica. Peckinpah approfitta del momento felice e si mette subito al lavoro con la stessa produzione. La ballata di Cable Hogue (The Ballad of Cable Hogue, 1970) è il primo film fortemente e completamente voluto da lui.
Un altro western atipico nello scenario del cinema statunitense: storia di un cercatore d'oro che viene rapinato e abbandonato nel deserto dai due ex soci e ormai allo stremo, dopo giorni passati ad attraversare il deserto dell'Arizona alla ricerca dell'acqua, scopre una fonte per puro caso. Il pozzo è vicino a una pista dove passano le diligenze e Cable Hogue costruisce una stazione di posta dove i viaggiatori possano rifocillarsi durante il lungo viaggio da una città a un'altra. L'altra faccia de Il mucchio selvaggio, La ballata di Cable Hogue è una commedia e una storia d'amore tra il protagonista principale, un Jason Robards in stato di grazia (con cui aveva già lavorato in Noon Wine e grande amico e compagno di sbronze di Peckinpah), e Hildy (Stella Stevens) una giovane e bella prostituta che il vecchio cercatore incontra nel vicino villaggio.
La spinta alla sopravvivenza di Cable Hogue è fornita dalla sete non solo fisica ma anche spirituale, quella della vendetta nei confronti dei suoi compari, convinto che prima o poi sarebbero passati da lì. Al contrario dei personaggi dei film precedenti, qui Cable Hogue resta fermo in un punto preciso mentre è il mondo nel suo girovagare che va verso di lui, centro di vita in mezzo al nulla. La storia d'amore per Hildy viene raccontata con estrema grazia e divertimento da Peckinpah ed è proprio l'amore che porta a smussare il carattere vendicativo del protagonista. Altro personaggio divertente, e che funge da fool all'interno di una commedia dai toni shakespeariani, è Joshua (David Warner) predicatore vagabondo di una strana chiesa, in realtà un simpatico imbroglione sempre a caccia di donne che lo mettono nei guai. Alcune sequenze sono girate utilizzando l'accelerazione (in particolare le fughe di Joshua dalle magioni delle giovani donne oppure all'arrivo della diligenza quando Cable Hogue sta facendo il bagno a Hildy e scappa nuda in casa per coprirsi) in un gusto da commedia che Peckinpah aveva già usato in alcuni episodi della serie The Westerner (dove li alternava a quelli drammatici). Hildy alla fine lo lascerà per andare a San Francisco alla ricerca della ricchezza. Dopo tre anni, quando ormai la sua stazione è avviata, il destino risponde alla paziente attesa di Cable Hogue: i due compari scendono da una diligenza di passaggio e Cable si vendica uccidendone uno, ma perdonando il secondo. Proprio in quel momento arriva Hildy su un'automobile, donna ricca che ritorna a prendere Cable. Ma il nostro finisce maldestramente schiacciato sotto le ruote dell'automezzo. Ancora una volta, dopo Sfida nell'Alta Sierra (nella sequenza iniziale quando Joel Mc Crea arriva in città) e in Il mucchio selvaggio (quando Bishop e i suoi commentano il funzionamento dell'auto del generale Mapeche al loro primo incontro) appare un'automobile come simbolo dell'arrivo della modernità che mai come in questo caso fisicamente spazza via il vecchio West, la storia passata, rappresentata da Cable Hogue, per far posto al nuovo che avanza che porta con sé ricchezza, ma allo stesso tempo chiede in cambio un prezzo molto alto.
Opera di molteplici sfumature stilistiche dove lo spazio diventa un genius loci fotografato questa volta da Lucien Ballard con colori saturi e caldi, per raccontare la vita, l'intraprendenza dell'individuo alla propria affermazione sociale, all'interno di uno spazio geografico delimitato ma con linee di fuga infinite verso l'orizzonte. La stazione come punto di passaggio geografico, diviene così emblematico luogo di mutazione temporale: di nuovo della storia individuale di un uomo e della Storia moderna in uno stato violento all'affacciarsi del nuovo secolo.
Sam Peckinpah è un regista che ha una visione della messa in scena sontuosa e articolata; una grande capacità di montare sequenze composte da frasi articolate in immagini raccolte in un puzzle, dove ogni inquadratura sorregge l'altra; uno sceneggiatore (soprattutto dialoghista) dove la rudezza e la finezza si mescolano in un mélange perfetto. Ma è soprattutto anche un grande direttore di attori. In tutti i suoi film le star devono sottomettersi alla sua forza di volontà e visione del mondo (Charlton Heston, Richard Harris, Jason Robards, Steve McQueen, James Coburn) riuscendo a canalizzarne la personalità all'interno dei personaggi e lavorando di sottrazione, mentre da attori e attrici meno capaci riesce a ottenere il meglio, accrescendone la presenza scenica. Lo fa in continuazione con tutti gli attori non protagonisti che si ricordano per le loro interpretazioni come Warren Oates, Ben Johnson, Ernest Borgnine, tanto per citarne alcuni, oppure con Ali McGraw e Stella Stevens. Ad esempio quest'ultima forse può ancora essere ricordata, oltre che per il film di Jerry Lewis "Le folli notti del dottor Jerryll" proprio per l'interpretazione di Hildy in La ballata di Cable Hogue, in mezzo a una filmografia in maggioranza anonima e modesta (11).
Peckinpah considera La ballata di Cable Hogue come una delle sue opere migliori, da lui molto amata e che accompagnerà spesso in futuro in proiezioni pubbliche nei cineforum e nelle università americane. Ma il film è quasi invisibile: quando esce ha della buona stampa, ma il pubblico non reagisce come la Warner desidera e inspiegabilmente non investe per la distribuzione negli Usa e in Europa, facendolo scomparire rapidamente dalle poche sale cinematografiche. Peckinpah è amareggiato e di nuovo in rotta con gli Studios a cui non perdona l'ennesimo boicottaggio al suo lavoro. Decide così che è venuto il momento di cambiare aria.
5. Cane di paglia ovvero homo homini lupus
Daniel Melnick, produttore di Noon Wine, propone a Sam Peckinpah di trarre un film dal romanzo di uno scrittore inglese. "The Siege of Trencher's Farm" di Gordon M. Williams non piace al regista californiano, ma dopo il fiasco dell'ultimo film ne approfitta per andare al di là dell'oceano e lasciarsi alla spalle per un po' di tempo una situazione per lui diventata insopportabile.
Nasce così il primo film non di genere western Cane di paglia (Straw Dogs, 1971). Stravolgendo completamente la fonte, insieme a David Zelag Godman, Peckinpah scrive una sceneggiatura influenzata dalla lettura dei testi dell'antropologo Robert Ardrey, mettendo in evidenza l'istinto alla violenza e alla difesa del territorio innata nell'uomo, mentre, al contrario, la concezione del male appresa durante le esperienze violente in vita subite o compiute. Peckinpah inserisce questo tema principale nella storia del giovane matematico americano David Summer (Dustin Hoffman) che con la moglie Amy (Susan George) torna nel villaggio natale di quest'ultima in Cornovaglia per passare un periodo di tranquillo studio. Lo sviluppo diegetico è lento e costantemente in tensione nella rappresentazione della cattiveria e ignoranza di una piccola comunità nei confronti dei più deboli e degli estranei. Questa violenza si scatena in due momenti clou del tessuto narrativo: il primo, a circa metà del film, è lo stupro che subisce Amy da parte di un ex spasimante e di un suo amico, in casa, quando con la scusa di andare a caccia, abbandonano David in mezzo alla brughiera; il secondo, è il finale, quasi una catarsi, dove il mite e timido studioso si trasforma in una furia per difendere la propria casa e soprattutto Henry Niles (David Warner, imposto dallo stesso regista alla produzione), un uomo con un ritardo mentale, oggetto di scherno e che uccide involontariamente una ragazza del villaggio. Niles si rifugia a casa di Summer e quest'ultimo decide che consegnerà lui alla polizia l'uomo invece di lasciarlo nelle mani degli uomini che vorrebbero compiere giustizia sommaria.
Cane di paglia è un trattato sulla violenza che si (ri)produce all'interno delle dinamiche degli individui che interagiscono a partire dalle relazioni di coppia, passare dal gruppo di amici, alla comunità del villaggio e per sineddoche fino all'intera società, dove nessuno ne è immune, sia esso un mite intellettuale pacifico oppure un uomo-bambino (e Warner dipinge il suo personaggio di "scemo del villaggio" ricordando Lennie Small di "Uomini e topi" di John Steinbeck). Violenza subita o prodotta in alternanza: gli uomini che violentano Amy e uccidono per poi essere uccisi da Summer; Niles che subisce le angherie dei concittadini e le punizioni corporali del fratello e poi uccide una ragazza; Amy che provoca il suo conoscente e dileggia il marito con dispetti e umiliazioni per poi subire la violenza sessuale. I personaggi si muovono come cavie in un labirinto, un laboratorio antropologico-comportamentale, dove Peckinpah agisce come demiurgo della messa in scena.
Ancora oggi nel vedere Cane di paglia si percepisce la tensione fisica che viene espressa in ogni inquadratura, in ogni frame, in ogni sguardo e gesto dei personaggi. Peckinpah si avvale della fotografia dell'inglese John Coquillon (che entra a far parte della cerchia di collaboratori duraturi del regista e divide con Lucien Ballard le future migliori opere del Nostro) con cui s'intende perfettamente: filmando molte sequenze in notturna e donando una luce plumbea nelle scene diurne, con una palette di colori scuri e autunnali, trasmette attraverso l'immagine la sensazione di angoscia e tensione in modo costante e coerente.
Coevo di "Arancia meccanica" di Stanley Kubrick, non a caso è un tema sentito quello della violenza sistemica dell'individuo all'interno della società. Ma se il maestro newyorkese costruisce una sinfonia rarefatta, gelida, dura, il genio californiano ne dà un'interpretazione corporea, carnale, realistica: due capolavori che si confrontano e testimoniano l'universalità dello stato violento dell'individuo. Prendiamo ad esempio la scena dello stupro che ha provocato molte polemiche all'uscita del film. In "Arancia meccanica" la scena della violenza di Alex nei confronti della signora Alexander, cantando "Singin' in the Rain", è metaforica, irrituale, lo stupro diventa un nero burlesque che distrugge e si prende gioco dell'intellettualismo fine a se stesso, una violenza antiborghese, anche ironicamente cinica, e comunque di devastante impatto; altrettanto impatto lo si ha nella sequenza dello stupro di Amy in Cane di paglia, ma al contrario qui la violenza è icastica, brutale, ravvicinata, microscopica, ambigua, focalizzandosi sull'individuo, sul rapporto uomo-donna di prevaricazione e controllo.
Nel bagno di sangue della sequenza finale Summer utilizza oltre il fucile, altre armi non convenzionali o domestiche per contrastare gli invasori del proprio territorio: dall'acqua bollente, agli arnesi da cucina, i vetri rotti fino a una tagliola per cacciare i cinghiali, in una rappresentazione "primitiva" dello scontro bellico ("Non so con quale arma si combatterà la terza guerra mondiale, ma la quarta si combatterà con la clava" scriveva Albert Einstein a proposito della armi nucleari).
E non è un caso che Peckinpah metta a esergo del film una frase del filosofo cinese Lao Tse, da cui ha tratto il titolo: "Il saggio è senza pietà e tratta le creature come dei cani di paglia". Siamo tutti vittime sacrificali, ma tutti possiamo diventare carnefici.
Cane di paglia viene definito come un capolavoro dalla critica americana e odiato da quella europea con accuse di "fascismo" nei confronti di Peckinpah in una definizione ideologica e dogmatica che non tiene conto del discorso sulla rappresentazione della violenza, stilema che percorre l'intera opera del regista e non è dissimile da quanto visto in Mucchio selvaggio. In questo caso la discussione critica attira un pubblico incuriosito nelle sale cinematografiche trasformando il film nel primo vero successo commerciale dell'autore (incassa più di dieci milioni di dollari, producendo un guadagno ai produttori).
6. Due forti personalità a confronto
Tornato negli Stati Uniti, Peckinpah accetta subito di girare un nuovo film, possibilmente meno faticoso emotivamente dell'ultimo. Martin Baum (già coproduttore di Cane di paglia con la sua ABC film) si associa con Joe Wizan e ingaggiano Steve McQueen, anche lui alla ricerca di una storia più "tranquilla" dopo gli ultimi ruoli violenti recitati.
L'ultimo buscadero (Junior Bonner, 1972) è a tutti gli effetti un western contemporaneo: si svolge durante il rodeo annuale di Prescott in Arizona, uno dei più antichi degli Usa, e mette in scena quel mondo e il popolo che vive intorno ad esso, macchina del tempo di un passato che vive ancora negli stati del Sud Ovest americano secondo le tradizioni della Frontiera. Junior Bonner (Steve McQueen) è un cowboy che sopravvive girando le varie manifestazioni e tornare a Prescott diventa l'occasione per un bilancio di vita. Tra cavalcare cavalli selvaggi e restare in sella per pochi secondi a enormi tori, Junior si confronta con un padre ex campione di rodeo, una madre a cui è legato da profondo affetto e il fratello maggiore e sua cognata invece coinvolti in un'impresa immobiliare.
Un'altra elegia quella di Peckinpah, su una famiglia destrutturata e apparentemente frantumata, ma nella realtà con forti legami affettivi. Soprattutto, forse, l'unico vero film che riesce a rappresentare con una certa malinconia il mondo dei cowboy da rodeo. Junior Bonner è l'alter ego di Peckinpah e allo stesso tempo per Steve McQueen un ruolo dove il personaggio e l'attore si compenetrano: libero, anarchico, senza dimora, vagabondo, con una forte personalità, individualista e idealista. Il ritratto sia dell'uno che dell'altro.
Steve McQueen e Peckinpah si erano incontrati per poco tempo sul set di "Cincinnati Kid" e il loro diventa un incontro felice riuscendo a collaborare in perfetta sintonia per la buona riuscita de L'ultimo buscadero (Peckinpah concede persino spazio a McQueen nel modificare alcune battute di dialogo che all'attore non convincevano). Un film che contiene stilemi e temi tipicamente peckinpahniani ma che indubbiamente si regge sulla forte presenza attoriale di McQueen che fa sua la storia. Arricchito da vecchie star (Robert Preston e Ida Lupino, nel ruolo dei genitori di Junior) e da solidi caratteristi (Joe Don Baker, fratello di Junior, e Ben Johnson, nel ruolo di un allevatore di tori e direttore di rodeo), ancora supportato da due fidati collaboratori come il direttore della fotografia Lucien Ballard e Jerry Fielding che cura ancora una volta la colonna sonora, Sam Peckinpah riesce a confezionare una piccola opera sui sentimenti filiali e familiari e una nuova variazione sulla nostalgia di un mondo che non esiste se non ai margini della tempo e dello spazio.
La sintonia creatasi tra Steve McQueen e Sam Peckinpah convince il primo a tornare a girare subito un altro film. Viene raccolta la stessa troupe e McQueen crea una società di produzione la First Artist (12) che riesce ad ottenere i finanziamenti necessari dalla Paramount.
Getaway! (The Getaway, 1972) tratto da un romanzo di Jim Thompson e sceneggiato da Walter Hill, è un thriller solido e stilisticamente diretto con grande perizia tecnica da Peckinpah.
Doc McCoy è un rapinatore di banche che sta scontando la sua pena ma non riesce a resistere al regime carcerario. Convince la moglie a intercedere con un importante funzionario del Texas, ma questi, oltre a ottenere favori sessuali dalla donna, chiede a McCoy di organizzare una rapina in una banca.
La sequenza iniziale è un perfetto meccanismo a orologeria: sui titoli di testa, partendo dall'esterno del carcere, sono inquadrati alcuni cerbiatti che pascolano nel campo; in un montaggio veloce ci viene presentato McCoy a cui viene negata la libertà sulla parola; la sua quotidianità fatta di lavoro nella lavanderia; le notti in cella; i movimenti in gruppo con gli altri detenuti, scanditi da tempi precisi, in giorni e notti tutte uguali, senza soluzione di continuità. Il montaggio del sonoro intradiegetico è sincronizzato in un equilibrio drammatico così da mostrare allo spettatore immediatamente la situazione anomica che il personaggio sta vivendo.
McCoy e la moglie sono alla fine dei piccoli rapinatori, ma la loro furbizia e volontà di fuggire in Messico per ricominciare una nuova vita gli permette di salvarsi e superare diversi ostacoli. Traditi da un complice che lavora per l'uomo politico, sono inseguiti da lui e dagli sgherri di un'organizzazione malavitosa che ha ramificazioni nell'intero stato. Tra inseguimenti d'auto, sparatorie, omicidi, fughe attraverso discariche di rifiuti, si sviluppa il rapporto forte e conflittuale tra McCoy e la moglie Carol (una giovane Ali MacGraw non all'altezza del ruolo e molto insicura nella recitazione), tra gelosie, ripicche, litigate e rappacificamenti. La storia d'amore è la struttura portante dell'intero film e prende ancora più vigore con il rapporto malato messo in scena in parallelo tra il complice traditore e una giovane donna che rapisce insieme al marito. Una duplice visione di coppia, una contrapposizione etica, di differente percezione di lealtà e giustizia all'interno di un mondo senza regole.
Se la resa dei conti finali nell'albergo nei pressi della frontiere messicana è l'ennesima variazione del "mucchio selvaggio", ormai una firma autoriale inconfondibile sia per la messa in scena che per il montaggio, tra inquadrature veloci e slow motion, il Messico è continuamente evocato e alla fine raggiunto fortunosamente, meta desiderata dalla coppia come luogo altro, spazio di libertà, opportunità di felicità, contrapposto a una società americana i cui valori sono in perenne contraddizione, in crisi e rinnegati.
Pur avendo un certo sapore da "western metropolitano", Getaway! è l'esempio di action movie moderno che traccerà la strada a molti film e autori che si cimenteranno con il genere negli anni a seguire. Per la seconda volta la personalità della star Steve McQueen è palpabile e sovrastante in ogni inquadratura e la collaborazione con Sam Peckinpah s'interrompe bruscamente: McQueen, sfruttando a suo favore anche il ruolo di produttore, rimonta il film per aggiungere degli effetti sonori e soprattutto per sostituire la colonna sonora di Jerry Fielding con quella di Quincy Jones ritenuta più "adatta" dall'attore. Peckinpah cerca di far valer il suo punto di vista litigando con McQueen ma ne esce perdente. Getaway! comunque diventa il nuovo successo di pubblico del regista.
7. La fine di un'epoca: Pat Garrett e Billy the Kid
Il western è un genere in crisi fin dagli anni 60, e anche Peckinpah sembra averlo abbandonato, ormai denaturalizzato e destrutturato dai tanti autori della New Hollywood, compreso lo stesso regista che fin da Sfida nell'Alta Sierra e La ballata di Cable Hogue e passando per Il Mucchio Selvaggio, ne ha riscritto temi e stilemi e allo stesso tempo ne ha determinato gli ultimi fuochi. Ma la leggenda dell'amicizia tra il giovane cowboy ribelle Billy the Kid e la sua amicizia con Pat Garrett nello scenario della lotta tra gli allevatori del New Mexico è un tema che affascina il regista californiano. Con Pat Garrett e Billy the Kid (Pat Garrett and Billy the Kid, 1973), Sam Peckinpah sceglie di raccontare gli ultimi mesi dei due personaggi, quando Garrett viene nominato sceriffo della contea di Lincoln al soldo del governo e di Chisum che controllava gran parte del territorio, dopo una lunga e sanguinosa lotta con gli altri proprietari terrieri e allevatori. Billy è il simbolo della ribellione a questo sistema e Garrett viene incaricato di catturarlo e ucciderlo.
Peckinpah sceglie di dare un taglio elegiaco all'opera, in aperto contrasto con la Metro Goldwyn Mayer e il produttore James Aubrey che voleva un altro film sulla scia de Il mucchio selvaggio. Gli scontri hanno inizio fin da subito con lo sceneggiatore Rudolph Wulitzer (13), con Peckinpah che interviene pesantemente nei dialoghi e nel voler inserire una cornice ambientata diciassette anni dopo lo scontro tra i due protagonisti, dove si assiste all'assassinio di Pat Garrett da parte degli stessi mandanti dell'omicidio di Billy. La sequenza iniziale viene montata con inquadrature del passato, dove vediamo Billy e i suoi compari che compiono un tiro a segno su galline sepolte fino al collo. Al saltare delle teste dei volatili corrispondono i colpi dei sicari al corpo di Garrett in un montaggio alternato di rara bellezza estetica e che, in una circolarità del tempo, chiudono anche il film.
Pat Garrett e Billy The Kid quindi si può considerare come un lungo flashback costruito con sequenze montate in una serie di quadri in cui si alternano momenti di tensione con altre di pause e dialoghi, dove la violenza è sempre presente, sia che essa esploda in furiose sparatorie oppure è latente nei confronti tra i vari personaggi. Ad esempio la sparatoria tra Garrett che si riposa sotto un albero lungo il fiume e ha una scaramuccia con una famiglia su un barcone incontrato per caso (senza nessuna conseguenza) lo stesso Peckinpah la definisce come "un momento di violenza esistenziale", fatto che fa infuriare James Aubrey e che non ne voleva sapere di questo modo di intendere il film (14).
Questo respiro esistenzialista voluto dall'autore pervade tutta l'opera fin dal primo dialogo tra i due protagonisti, quando ormai Garrett si è "venduto" al potere degli allevatori perché i tempi sono cambiati e lui vuole invecchiare e vivere (da borghese assimilato e non più come un ribelle). Ma Billy di rimando dice al suo vecchio sodale che i tempi saranno anche cambiati ma lui no. E in questo breve dialogo sta tutto il nucleo tematico di un'opera piena di nostalgia per il passato e dove per sopravvivere bisogna adeguarsi al nuovo ordine costituito. L'uccisione di Billy da parte di Garrett è la cancellazione della propria storia, il suo superamento per vivere un nuovo presente. In tutti i film di Peckinpah i personaggi vivono la dicotomia tra un presente in continuo mutamento su un passato di cui non rimane più nessuna traccia, e senza alcuna certezza del futuro.
Il film è un insieme di scene memorabili che entrano profondamente nel cuore e nella mente delle spettatore. Citiamo quelle che a nostro parere sono tra le più belle e poetiche e che possono entrare di diritto nella storia della Settima arte. La prima è il prefinale, dove Garrett scopre Billy a Fort Summer, rifugiatosi dopo l'ultima evasione dalle prigioni di Lincoln. In varie sequenze girate in notturna, vediamo Garrett, insieme a uno sceriffo locale e a un uomo del governatore, che si aggira tra gli edifici fino a individuare quello in cui si trova Billy. Attende che il ragazzo finisca di fare l'amore con la sua donna per poi entrare nella stanza e sparare a Billy disarmato e seminudo, ed esplodere un secondo colpo di pistola contro lo specchio che riflette la sua immagine. Lo specchio va in frantumi così come il riflesso di Garrett: uccidendo Billy è come se avesse ucciso sé stesso, o almeno una parte profonda del suo essere, il passato, la memoria, l'etica che lo aveva sorretto fino a quell'istante. Una scena semplice, lenta, montata con grande maestria che fa da contrappunto all'intera sequenza finale de Il mucchio selvaggio. Lì era il dinamismo e la ricchezza delle inquadrature in un caos controllato; qui abbiamo il lirismo e l'essenzialità dell'evento. Entrambe rappresentano la fine, la morte, il passaggio da un passato ribelle a un presente di ordine e controllo. Due perfetti esempi di rappresentazione cinematografica di uguale potenza visiva ed emotiva.
La seconda sequenza che vogliamo citare è quella della morte dello sceriffo Baker, interpretato da Slim Pickens, colpito a morte dopo una sparatoria mentre con Garrett assaltano una casa dove si pensa si possa trovare Billy. Baker è seduto sulle rive del fiume che fissa il tramonto all'orizzonte e guarda respirando affannosamente la moglie (Katy Jurado) che piange accasciata a poca distanza, mentre vede morire l'uomo che ama. E in sottofondo si sentono le note della canzone "Knockin' on Heaven's Door" di Bob Dylan, che diventerà un classico della musica folk negli anni a venire. Una sequenza girata con estrema eleganza formale dove i primi piani si alternano ai campi lunghi, in cui il paesaggio diviene materico e avvolge i personaggi in una luce morente, metafora della vita che scorre via con le acque del fiume, con gli ultimi barlumi di luce, con le lacrime che scendono lentamente e silenziosamente sul volto della Jurado.
Pat Garrett e Billy the Kid è arricchito dalla presenza di attori della cerchia stretta di Peckinpah (dai citati Slim Pickens e Katy Jurado, Jason Robards, Matt Clark, Emilio Fernandez, L. Q. Jones, Harry Dean Stanton, R. G. Armostrong, e dallo stesso Peckinpah che vediamo in una brevissima scena quando incontra Garrett a Fort Summer), ma soprattutto da Kris Kristofferson nella parte di Billy, di James Coburn come Patt Garrett e da Bob Dylan in quella di Alias.
Se Coburn aveva già lavorato con Peckinpah (in Sierra Charriba e sarà protagonista in La croce di ferro), Kristofferson è al debutto come protagonista e diviene ben presto grande amico di Peckinpah. Il giovane è un famoso folk singer negli Usa e riesce a rivitalizzare il personaggio di Billy dandogli un aspetto naif, in una recitazione intuitiva e spontanea così come il regista desiderava, mentre Coburn, che fortemente voleva il ruolo, dipinge un Garrett malinconico, dubbioso, psicologicamente intenso e travagliato nell'affrontare la parte. Mentre Dylan che desiderava lavorare con Peckinpah, su suggerimento di Kristofferson, viene preso dal regista prima come compositore della colonna sonora (un vero e proprio valore aggiunto della pellicola e sarà l'unico esempio di musica composta appositamente per un film della lunga discografia del cantautore americano) per poi scrivergli appositamente il ruolo di Alias, personaggio quasi silente, ma sempre presente nelle scene topiche e che da artigiano abbandona il lavoro per seguire poi Billy nel suo ultimo scorcio di vita, una sorta di testimone intradiegetico delle gesta dell'antieroe della Frontiera americana.
La presenza di Dylan, di Kristofferson e di altri cantanti country in piccoli ruoli nella banda di Billy, danno ancora più una sostanza di ballata country folk melanconica a Pat Garrett e Billy the Kid, un western con una cifra rappresentativa di una fine di un'epoca, della Storia di un paese, di quella di un genere cinematografico e di uno dei suoi autori più rappresentativi e innovatori.
Pat Garrett e Billy the Kid ha una storia travagliata e diviene il campo di battaglia più sanguinoso tra il suo autore e la produzione dai tempi di Sierra Charriba. Le riprese sono svolte a Durango, in Messico, in condizioni estreme, dove tutta la troupe si ammala, e con continue interferenze di Aubrey, e terminano con due mesi di ritardo sul programma. Gordon Dawson, stretto collaboratore di Peckinpah, direttore della seconda unità e produttore associato, viene escluso sistematicamente dalla riunioni con i produttori della MGM e ai due montatori scelti dal regista, Roger Spottiswoode e Garth Craven, viene proibito di finire il lavoro negli studi negli States perché inglesi. Peckinpah riesce a montare una prima versione di 140' presentata al regista Martin Scorsese e ai critici Pauline Kael e Jay Cocks, che i produttori ritengono troppo lunga. Peckinpah ne rimonta una seconda versione di 124', ma Aubrey ha già dato mandato di rimontare il film a collaboratori di sua fiducia, riducendo l'opera a un western di 106' dove sono mantenute le sparatorie per trasformarlo in un film d'azione. L'opera così massacrata esce nelle sale trasformandosi in un insuccesso commerciale.
Peckinpah fa causa alla produzione chiedendo due milioni di dollari di danni, ma senza successo e il film cade nel dimenticatoio per un po' di tempo. Si devono attendere la fine degli anni 80 per una ricostruzione dell'opera. E' Ted Turner, nuovo direttore della Mgm, che recupera il negativo dagli archivi della casa di produzione e rimette sul mercato una versione di 122' fedele alla versione che voleva Peckinpah. Ma il dibattito critico sul film continua negli anni successivi. Paul Seydor, facendosi forte di appunti recuperati di Peckinpah, nel 2005 rimette in commercio un cofanetto con una versione "restaurata" di 115'. Nella realtà, confrontandola con la "versione Turner", si nota che più di un restauro si tratta di un vero e proprio rimontaggio (a nostro avviso arbitrario), dove la sequenza iniziale dei titoli di coda viene stravolta e la circolarità con la morte di Garrett all'inizio del 900 viene eliminata nel finale; sono inseriti i titoli di testa ex novo; viene inserita la sequenza dell'incontro di Garrett con sua moglie all'interno della loro casa; inserita la scena di Garrett alla prostituta prima dell'orgia; eliminata la scena dove Poe scopre dove si trova Billy; accorciato il dialogo iniziale tra Billy e Garrett; e effettuati tutta una serie di micro tagli all'interno delle sequenze (15).
Al di là del dibattito critico, tutt'ora in corso negli Usa, la versione del 1988 mostra come Pat Garrett e Billy the Kid sia uno dei capolavori del western moderno.
8. Postmodernismo e autobiografia: Voglio la testa di Garcia
Il massacro che la sua ultima opera ha dovuto subire dai produttori, i continui litigi, la cattiva distribuzione di La ballata di Cable Hogue e L'ultimo buscadero, la rielezione di Nixon (di cui il Nostro trovava insopportabile la politica e i poteri che rappresentava), gettano nello sconforto più profondo Sam Peckinpah e per tenersi lontano da quel "sistema hollywoodiano" che odia sempre più si rifugia in Messico, dove ha amici ed estimatori e dove c'è sempre Begonia Palacios che periodicamente va a trovare.
Nasce in questa atmosfera pessimista Voglio la testa di Garcia (Bring Me the Head of Alfredo Garcia, 1974), da un'idea dello stesso regista californiano che aveva già fatto scrivere una sceneggiatura (16) al fidato collaboratore Gordon Dawson quando stava girando Cane di paglia in Inghilterra.
La storia di Bennie (uno straordinario Warren Oates, nella parte della vita), vecchio e stanco suonatore di piano bar, un loser che si è rifugiato in Messico da molti anni e ha una storia d'amore con la prostituta Elita (l'attrice messicana Isela Vega), s'interseca con la caccia da parte degli uomini di un boss messicano, El Jefe, di Alfredo Garcia che ha messo incinta la figlia.
Voglio la testa di Garcia alla sua uscita e per molto tempo è accusato di essere misogino, violento, sadico, considerato uno dei film meno riusciti del regista. Nella realtà, a distanza di anni, può essere rivalutato come uno delle opere più importanti di Sam Peckinpah (17). Un film sulla morte, la vendetta, il senso etico di giustizia, profondamente personale e in parte autobiografico, con Warren Oates che diventa l'alter ego di Peckinpah all'interno della realtà filmica, imitandolo non solo fisicamente - nei gesti, nei movimenti del corpo, nella pettinatura, nel modo di vestire - ma anche psicologicamente, nei comportamenti, nel tono della voce, nelle espressioni verbali, nel modo di parlare. Si viene a creare un cortocircuito tra realtà e finzione, trasformando Voglio la testa di Garcia in un riuscito esempio di metacinema e postmodernismo, con commistione di generi di cui il tessuto narrativo e stilistico il film è composto.
All'inizio sembra un western, con la prima sequenza idilliaca della giovane sulle rive di uno stagno in una fazenda per poi buttare lo spettatore in una scena di estrema violenza, quando il padre tortura la figlia pur di conoscere il nome dell'uomo che ha osato deflorarla. Con la taglia che il boss mette sulla testa di Alfredo Garcia e la caccia di squadre di killer per catturare l'uomo, si trasforma velocemente in un thriller con furiose sparatorie collettive tra Bennie e gli uomini dell'organizzazione che vogliono Garcia e la sua famiglia. E diventa nella seconda parte quasi un horror, a partire dalla sequenza del cimitero, dove Bennie scopre che Garcia è sepolto dopo essere morto in un incidente d'auto. Da lì in poi, il trasporto della testa del cadavere in un sacco verso la villa di El Jefe da parte di Bennie è surreale e metafisico. E nel mezzo il regista mette in scena anche una tenera e drammatica storia d'amore tra Bennie ed Elita.
Voglio la testa di Garcia, a una prima visione superficiale, può apparire come un assemblaggio inconcludente di generi diversi, ma Peckinpah riesce, al contrario, a creare un'opera controllata da un geniale montaggio millimetrico, rendendo fluido il passaggio tra le varie parti e, all'interno di esse, mettendo in serie le sequenze con continue pause e ripartenze della tensione drammaturgica della narrazione. Una storia con improvvise svolte, utilizzando sempre lo slow motion nelle sequenze delle sparatorie che dilatano il tempo della violenza e della morte che si abbatte sui personaggi senza preavviso. Un esempio esplicativo di questo tipo di messa in scena lo abbiamo nell'inseguimento della famiglia di Garcia dietro Bennie per recuperare la testa del parente. Lo scontro all'incrocio stradale, che appare come una fine certa per Bennie, si trasforma immediatamente in un'occasione di fuga all'arrivo della coppia dei killer. Il loro intervento trasforma l'impasse, rimettendo in moto l'azione e la continuazione del viaggio di Bennie dopo che tutti si elimineranno a vicenda.
Oltre a quella dell'incipit sopra citata, ci sono altre sequenze memorabili in Voglio la testa di Garcia.
Bennie convince Elita a compiere il viaggio verso il villaggio dove è sepolto Garcia, trasformandolo in una gita con la donna amata che nella sequenza del pic nic raggiunge un alone poetico, una ballata, in un rapporto costruito sul momento presente, sognando un futuro di coppia che non ha possibilità di realizzazione. Del resto, subito dopo arrivano due balordi che stuprano Elita e che Bennie uccide e la stessa Elita muore nella notte quando vanno al cimitero per recuperare la testa di Garcia. La sequenza del cimitero è emblematica di questa onnipresenza del senso di morte e perdita che pervade tutto il film. Lo stesso Bennie viene colpito alle spalle e si risveglia immerso nella terra della tomba di Garcia. Peckinpah gira in modo che Bennie sembra resuscitare dal sepolcro, ma metaforicamente si può leggere tutta la parte finale come un futuro alternativo a una vicenda che potrebbe terminare nel cimitero. Bennie si rialza e diventa a tutti gli effetti uno zombie, un morto che cammina, e quando recupera la testa di Garcia il suo continuo dialogo ha un tono straniante, la messa in scena di un confronto con l'Aldilà, con i morti e la Morte, una modernizzazione di temi del romanticismo letterario. Il caldo soffocante, le mosche che infestano l'abitacolo dell'auto, la puzza della putrefazione della carne, il sudore che avvolge Bennie sono materici, travalicano lo schermo, sembrano toccare lo spettatore che improvvisamente si trova a compiere il viaggio a fianco del protagonista. E la catarsi finale con l'uccisione di El Jefe, dopo che Bennie gli ha consegnato la testa di Garcia e incassato il denaro, non può non finire con la ripetizione della sua morte da parte degli uomini di Bennie. Peckinpah non ce la mostra, non è necessario, Bennie è già morto, e inquadra il dettaglio delle armi da fuoco in primo piano, e sembra che sparino direttamente in faccia allo spettatore nel fermo immagine finale.
Peckinpah, tra i fumi dell'alcool e l'assunzione di droghe (18), gira in uno scenario mai visto sugli schermi prima di allora, nei dintorni della provincia di Città del Messico, e crea un'opera anticipatrice di tanto cinema dei decenni successivi, un film pulp prima di Quentin Tarantino, violento e pieno di commistioni prima di "Natural Born Killer" di Oliver Stone, nichilista e anarchico, disturbante e poetico, insomma un capolavoro.
9. Una veloce discesa verso l'autodistruzione
Come uno dei personaggi dei suoi film dopo l'ennesimo periodo messicano di continuo vagabondaggio, Sam Peckinpah torna a Los Angeles. La salute peggiora e i medici gli ordinano di smettere di bere. Il regista per controbilanciare aumenta le dosi di cocaina che aveva iniziato ad assumere durante le riprese di Voglio la testa di Garcia su suggerimento di Warren Oates. Il regista si sente perduto al di fuori del set, con la sua vita privata disordinata ed eccessiva (vive in una roulotte a Malibu con alle spalle un numero considerevole di matrimoni, divorzi e figli con cui praticamente non ha rapporti) e l'insuccesso commerciale del suo ultimo film. Cerca a qualsiasi costo un altro progetto da realizzare. L'occasione arriva con una proposta da parte di Martin Baum, uno dei pochi produttori con cui Peckinpah s'intende, che gli offre la direzione di Killer Elite (The Killer Elite, 1975) sotto l'egida della United Artists (19).
Peckinpah sceglie come protagonista James Caan e desidererebbe ambientare la storia in Africa e Inghilterra, ma l'attore vuole rimanere a Los Angeles, visto che era appena tornato proprio dall'Inghilterra dove aveva recitato in "Rollerball" di Norman Jewison. Le riprese del film si rivelano difficili fin da subito con il budget sforato ancor prima di girare e con la United Artists che obbliga Peckinpah a seguire un'unica linea narrativa. Arriva a litigare con Martin Baum, uno dei pochi produttori dalla sua parte, proibendogli di mettere piede sul set. Oltretutto, la sceneggiatura di Marc Norman e Stirling Silliphant viene infarcita di combattimenti di arti marziali diretti da più maestri con stili differenti che la rendono (particolarmente la seconda parte) molto disomogenea.
Detto questo, la storia dell'amicizia e del tradimento tra due agenti di un'agenzia privata al soldo della Cia, Mike Locken (James Caan) e George Hansen (Robert Duvall), ha un certo fascino. I due devono proteggere un testimone per conto dell'agenzia di spionaggio, ma Duvall vendutosi ai nemici, uccide l'uomo e ferisce gravemente Caan. Messo a riposo, Caan passa i mesi successivi in un lento recupero del braccio e della gamba per tornare operativo. Pur rimanendo storpio, costretto ad aiutarsi con un bastone, arriva l'occasione di vendicarsi del suo ex-amico quando assume l'incarico di proteggere un politico giapponese in visita negli Usa e oggetto di minacce di morte. Caan mette insieme un gruppo male assortito come squadra di protezione (una versione contemporanea della banda Bishop de Il mucchio selvaggio) e Killer Elite si sviluppa in una sequenza di inseguimenti, sparatorie, attentati e scontri all'arma bianca con killer orientali e Duvall che si contrappone al suo ex amico e collega. Il tutto inserendo l'elemento del doppiogiochismo dei superiori di Caan che per denaro sono disposti a cambiare bandiera velocemente, in una destrutturazione del cinema d'azione basata tutta sull'utilitarismo e senza nessuna raffigurazione psicologia dei personaggio, dove il potere è sempre violento e pronto a tradire. La stessa riabilitazione dell'eroe Caan appare ironicamente come il tentativo di Peckinpah di affrancarsi di fronte al suo pubblico.
Killer Elite ha momenti in cui la mano di Peckinpah è ben visibile, come nella sequenza iniziale o negli scontri nella prima parte del film, mentre perde un po' di lucidità nella parte finale in cui questa volta il regista sembra che non riesca a controllare la messa in scena dei combattimenti sulle navi nel porto di San Francisco, che a tratti risultano confusionari e senza il famoso tocco personale per le scene di azione. Il regista ha voluto mettere in risalto più l'aspetto paranoico e complottista della storia, non volendo girare un film d'azione tout court come aveva chiesto Baum. Il risultato finale non soddisfa nessuno dei due per i motivi opposti e il film rimane in mezzo al guado tra due generi poco amalgamati come la spy story e le arti marziali.
Tra la proposta di girare il nuovo "King Kong" e "Superman", Peckinpah se ne va in Europa e accetta l'offerta di un produttore tedesco di film porno che gli sottopone l'idea de La croce di ferro (Cross of Iron, 1977).
Unico film di guerra ambientato sul fronte russo nel 1943 visto dalla parte dei tedeschi, il regista americano mette in scena la violenza assurda del potere e della gerarchia in uno scenario bellico. Il caporale Steiner, poi promosso sergente, è l'ennesima variante iconica dei vari Dundee, Bishop, Cable Hogue, Billy Kid, Bonnie, e il plotone di soldati tedeschi al suo comando è un altro "mucchio selvaggio" il cui unico scopo è quello di salvare la pelle in una guerra che risulta essere solo l'espressione di una classe aristocratica in cerca di affermazione e di esercizio di potere. Steiner (interpretato da James Coburn che ritorna a lavorare con Peckinpah e di cui è un vecchio amico) ha il suo antagonista nel capitano Stransky (Maximillian Schell) il cui unico obiettivo all'arrivo sul fronte russo è ottenere l'onorificenza della Croce di ferro, come emblema di virilità, coraggio e affermazione sociale da mostrare al suo ritorno in patria alla famiglia e al suo censo aristocratico a cui appartiene. Il proletario e ribelle Steiner, che odia gli ufficiali e la gerarchia da loro imposta, quella Croce di ferro l'ha appuntata al collo e a cui non tiene, tanto che in un confronto serrato con Stransky su come l'ha ottenuta gliela getta addosso in regalo. Steiner è il nuovo alter ego del regista e La croce di ferro diviene la rappresentazione dell'odio nei confronti della guerra e dei militari, e lo scontro tra il sergente e il capitano è una metafora tra il regista (Peckinpah) e i produttori (il sistema degli Studios hollywoodiani).
Come in Voglio la testa di Garcia, anche in La croce di ferro sono presenti elementi postmoderni: un vistoso iperrealismo (soprattutto nelle scene di battaglia); la morte del bambino russo che riappare nella sequenza finale, ad accentuare la finzione cinematografica, dove la morte è apparente, o alternativamente i bambini come vittime tutte uguali di fronte alla stupidità della morte in guerra; tutta la parte ambientata nell'ospedale militare, in cui Steiner è ricoverato dopo essere stato ferito in un'esplosione, di chiaro stampo onirico e psichedelico, mette in evidenza lo stato allucinatorio del protagonista, in qualche modo "drogato" dalla guerra stessa. Le affinità elettive con Il mucchio selvaggio sono più d'una con La croce di ferro, compreso il finale che, utilizzando dei fermi immagini, viene mostrato l'ultimo combattimento, mentre l'esercito tedesco è in rotta sotto l'avanzata dell'Armata Rossa, in cui il capitano Stransky viene trascinato da Steiner. Il tutto racchiuso da una sonora e isterica risata, ultimo sberleffo per una situazione assurda e fatalistica.
Arricchito dalla fotografia pastosa e calda di John Coquillon, La croce di ferro riceve il sostegno da parte di Orson Welles che scrive a Peckinpah una lettera dove si complimenta con il collega per aver girato il miglior film contro la guerra mai realizzato. Il regista californiano, sempre più sprofondato nell'abisso dell'alcol e della droga, riesce a portare a termine un'opera potente, ribelle e anticonformista pur con i pochi mezzi messi a disposizione da parte di una produzione improvvisata e dilettantesca.
Ormai l'equilibrio di Sam Peckinpah è in caduta libera. Convoy - Trincea d'asfalto (Convoy, 1978) è decisamente un film minore, girato controvoglia, con poche idee e ripetitivo. La storia del camionista Martin Penwald, interpretato da Kris Kristofferson, e del suo duello lungo le high way del sud ovest americano con lo sceriffo Lyle Wallace (un cattivissimo Ernest Borgnine) porta le tematiche de Il mucchio selvaggio nella comunità dei guidatori dei bisonti della strada.
Peckinpah non riesce a rendere credibile né i personaggi - per la verità deboli dal punto di vista delle motivazioni - né la vicenda di cui sono protagonisti, con una rivolta fine a sé stessa e che gira a vuoto. Anche la ribellione di Penwald si riduce a uno sterile scontro verbale con lo sceriffo Wallace quando lui gli urla: "Io rappresento la legge, l'ordine", e lui gli risponde: "Io ci piscio sopra la tua legge", riprende uno spirito anarchico ormai abusato e già sviluppato al meglio nelle opere precedenti. Se ci mettiamo poi una sceneggiatura, basata su una canzone country di B.W.L. Norton, che è poco più di un pretesto narrativo e degli attori che non riescono a essere credibili (come la pessima performance di Ali MacGraw), Convoy si trasforma per Peckinpah ben presto in un incubo. I suoi sbalzi d'umore, la paranoia causata dall'abuso di droga e alcool, lo portano a isolarsi e ad abbandonare il set per lunghi periodi di tempo rinchiudendosi nella roulotte della produzione. E' James Coburn, direttore della seconda unità, che porta a termine il film così che per la prima volta Peckinpah non ha nemmeno il totale controllo della messa in scena. Viene licenziato prima della fine del film, senza che il regista faccia nessuna obiezione, e la pellicola viene montata dalla produzione con un lieto fine forzato. Il regista californiano è un angelo caduto, inviso da tutti, lanciato in una corsa folle verso l'autodistruzione. Come ultimo affronto deve sopportare che il suo film meno personale e riuscito diventi il suo più grande successo commerciale, incassando oltre 46 milioni di dollari all'uscita nelle sale americane.
10. Finale di trasmissione
Dopo l'ultimo disastro Sam Peckinpah passa i mesi successivi tra droga, alcool e sesso nei bordelli del Messico da solo o con i suoi amici. La ricerca dell'eccesso diventa predominante e lo porta fuori controllo. Nei brevi momenti di lucidità frequenta Begonia Palacios e la figlia Lupita. Cerca di creare una casa di produzione insieme agli amici messicani per finanziare nuovi progetti, ma il tutto resta un tentativo velleitario e nessuno si fida del suo stato psicofisico. Anche dopo il ritorno negli Stati Uniti il ritmo non cambia. Si rifugia in un capanno nel Montana e continua in un costante e lento percorso autodistruttivo. Alterna a stati psichedelici e alcolici momenti di lucidità, dove abbozza progetti e soggetti che abortiscono fatalmente. Fino ad arrivare al maggio del 1979, quando è colpito da un infarto che lo costringe all'impianto di un pacemaker e un lungo e difficile periodo di disintossicazione in ospedale.
Gli anni successivi sono un tentativo di riannodare i fili spezzati con Hollywood che sembra averlo dimenticato. Incontra Michael Cimino a cui fa visita sul set de "I cancelli del cielo": i due si piacciono e si stimano. Cimino gli offre la direzione della seconda unità, ma Peckinpah rifiuta per il precario stato fisico. Riprende i contatti con Martin Baum, uno dei pochissimi produttori con cui negli anni, tra alti e bassi, è comunque riuscito a lavorare. Ottiene un paio di offerte per scrivere delle sceneggiature che però non hanno un seguito; partecipa a cineforum e premiazioni ai suoi film nelle Università; compie un viaggio in Giappone per conoscere Akira Kurosawa, che considera un suo maestro.
Nel 1981, Martin Baum gli propone una sceneggiatura dal titolo "Hang Tough", un dramma poliziesco tratto da un romanzo di Elmore Leonard e da girare a Detroit. Peckinpah riduce drasticamente il consumo di alcool e droghe (che nel frattempo aveva ripreso ad assumere). Il progetto sembra concretizzarsi grazie all'intervento della United Artist ma subisce un'interruzione a causa di uno sciopero degli sceneggiatori e dei registi e poi l'annullamento dopo che la Mgm assorbe la UA.
Don Siegel, in ricordo dei vecchi tempi e per dargli una mano, gli offre di lavorare al film che sta girando, "Jinxed!". Peckinpah mette in scena la maggior parte delle sequenze di azione. Non è accreditato nei titoli, ma è la prima volta che torna sul set dietro una macchina da presa da Convoy.
Dopo anni di tentativi andati a vuoto, grazie al continuo interessamento di Martin Baum, Peckinpah torna a dirigere un nuovo film. Osterman Weekend (The Osterman Weekend, 1983) è un thriller ambientato nel mondo della televisione, dove l'agente della Cia Lawrence Fassett (John Hurt) inscena un complesso progetto di vendetta contro lo stesso direttore dell'agenzia Maxwell Danforth (Burt Lancaster), reo di aver ordinato l'uccisione della moglie anni prima. Fassett coopta con l'inganno un famoso opinionista televisivo John Tanner (Rutger Hauer) a collaborare con lui per stroncare una rete di spie composta dai suoi più cari amici con cui ogni anno passa insieme un weekend.
Al di là del meccanismo spionistico un po' meccanico - cui Peckinpah non ha potuto nulla, visto che i produttori gli hanno impedito qualsiasi intervento sulla sceneggiatura (tratta da un romanzo di Robert Ludlum) - l'interesse principale del film è la denuncia della corruzione del potere e della sua capacità di manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa. Un potere che si auto conserva e perpetua attraverso l'eliminazione fisica di uomini e donne, trasformati in mere figure dentro un televisore o un monitor. L'ossessione del mezzo televisivo che diventa attivo e rivelatore lo si ha in tutta la pellicola. Basti pensare ai surreali dialoghi tra John Hurt che appare nel televisore nella cucina della villa di Rutger Hauer e dialogano sul da farsi. Oppure la modifica delle registrazioni dei dialoghi degli amici di Hauer che vengono fatti passare come pericolose spie invece sono dei semplici evasori fiscali. Film coevo non per caso con "Videodrome" di David Cronenberg, dove ci sono alcune assonanze, e sostanzialmente portano in primo piano la televisione e la comunicazione di massa come strumento di trasformazione dell'uomo. Ma se il capolavoro del maestro canadese è un complesso saggio sulla mutazione sociale basato sulle teorie del villaggio globale di MacLuhan, Osterman Weekend si focalizza sostanzialmente sullo smascheramento del potere. Se all'inizio assistiamo, tramite la ripresa di una videocamera, all'omicidio della moglie di John Hurt, al contrario nel finale l'intervista di Hauer a Lancaster viene fatta da un'immagine virtuale, visto che fisicamente il protagonista invece corre a salvare la moglie e il figlio rapiti da Hurt. Una presenza/assenza che però rende diffusivo il potere e la sua azione. Peckinpah in questo senso mette in scena tutta la sua paranoia nei confronti di individui che utilizzano qualsiasi mezzo tecnologico pur di controllare e decidere la vita e la morte delle persone. Ma che subiscono il loro disvelamento da parte del mezzo televisivo, dietro cui c'è un pubblico, una massa questa volta giudicante.
Osterman Weekend è quasi profetico nella scena finale dello studio vuoto, al termine della trasmissione, che sembra anche una fine vita. L'ultima opera di Peckinpah finisce ironicamente con l'inquadratura di uno studio televisivo, là dove aveva iniziato la sua carriera di regista.
Il film subisce interventi e tagli significativi da parte della produzione, e che depotenziano ad esempio il personaggio di Rutger Hauer, che Peckinpah descrive come un fedifrago con una personalità piena di ombre, rispetto all'eroe tutto d'un pezzo voluto dai produttori.
La salute di Peckinpah è sempre più precaria. Martin Baum riesce a trovargli un altro lavoro: un documentario su Julian Lennon, figlio di John Lennon, al debutto come cantante. Il produttore però prima gli chiede due clip tratte da due canzoni dell'album che Peckinpah dirige molto agevolmente, ma facendo disperare Martin Lewis con le sue bizzarrie e gli improvvisi cambi d'umore, tanto che alla fine, pur riconoscendo l'eccellente lavoro fatto dal regista, rescinde il contratto per il documentario.
Girovago, vagabondo, continuamente in movimento, affronta la fine dell'ennesimo breve matrimonio e dopo l'ultimo litigio con la moglie, il 27 dicembre 1984 si rifugia in Messico per parlare con Begonia. Ma ormai la sua salute è perduta e i continui abusi ed eccessi hanno completamente debilitato il fisico. Nella notte è vittima di un'embolia polmonare e in tutta fretta lo riportano a Los Angeles. Sam Peckinpah si spegne il giorno dopo: non ha ancora compiuto sessanta anni. Muore l'uomo, nasce il mito.
Note
(1) Entretien avec Gordon T. Dawson di Maroussia Dubreuil in Sam Peckinpah, Capricci, 2015 ppgg. 64-71. Dawson è stato uno stretto collaboratore di Peckinpah in cinque film da Sierra Charriba a Voglio la testa di Garcia come costumista, sceneggiatore, produttore esecutivo e direttore della seconda unità. Durante le riprese di Sierra Charriba ricorda che Peckinpah "era un uomo furioso. Esprimeva poco chiaramente quello che voleva e pretendeva che tutti dovessero comprendere ciò che bisognava fare. E se qualcuno faceva un errore" s'innervosiva e "più era nervoso, più la gente faceva errori e più la collera di Sam montava (...). Andare sul set era come andare all'inferno" (mia traduzione). Gli insulti, i battibecchi e gli scontri verbali (e a volte fisici) con i componenti della troupe e del cast erano all'ordine del giorno.
(2) "Nel 1925 furono distribuiti duecentoventidue western; nel 1936 centotrentacinque; nel 1947 novantacinque; nel 1958 cinquantaquattro; nel 1969 venti; nel 1980 sei. (...) Il tramonto del sistema degli studi (studio system) di produzione e distribuzione, determinato da diversi fattori economici e sociali (concorrenza straniera, produzione indipendente, mancanza di capitali, sviluppo del consumo televisivo) tra gli anni Cinquanta e Sessanta, fu fatale per la produzione del film di genere, e quindi anche del western" in Il cinema western - da Griffith a Peckinpah, a cura di Toni D'Angela, Edizioni Falsopiano, 2004, pag. 237.
(3) Don Siegel negli anni a venire ha sempre smentito il decisivo apporto di Peckinpah ai dialoghi dei film da lui diretti. Bisogna dire però che anni dopo, nel momento peggiore della vita di Sam Peckinpah è uno dei pochi che gli dà una mano a restare nel mondo del cinema.
(4) Creata da Arnold Laven, la serie è attiva fino al 1963 e conta 168 episodi divisi in 5 stagioni.
(5) Sam Peckinpah è regista rispettivamente degli episodi: nr. 1 "Jeff"; nr. 3 "Brown"; nr. 6 "The Courting of Libby"; nr. 12 "Hand on the Gun"; nr.13 "The Painting". Gli altri sceneggiatori della serie sono Bruce Geller, Tom Gries, Jack Curtis, Robert Heverly e i registi dei restanti episodi sono André de Toth e Tom Gries.
(6) Fitzsimons non sopporta Peckinpah e il suo volere essere autore totale dell'opera. Per lui è il produttore che deve avere l'ultima parola e vede il regista solo come mero esecutore. A questo proposito è interessante la disamina che ne fa Garner Simmons nel suo saggio The Deadly Companions Revisited, raccolto in Peckinpah Today, New Essays on the Films of Sam Peckinpah, Southern Illinois University Press, 2012, ppgg. 6-35, dove viene analizzata la sceneggiatura di Albert Sidney Fleischman e le vicende della realizzazione del film, difficile fin da subito per il cattivo rapporto tra il produttore e il regista.
(7) Valerio Caprara, Sam Peckinpah, Il Castoro Cinema, 1997, p. 35.
(8) Jaques Belmans (Saison cinématographique, 1968) lo descrive come un western moderno che demistifica l'epopea del West. Citazione raccolta nel volume Sam Peckinpah, Un rèalisateur dans le système hollywoodien des années soixante et soixante-dix di Gérard Camy, L'Harmattan, 1997, p. 31.
(9) Affermazioni raccolte dall'autore della monografia durante la Round Table Retrospettiva Sam Peckinpah al 68° Festival del film di Locarno il 10 agosto 2015. Alla Round Table hanno partecipato Jean Douchet, Chris Fujiwara, Fernando Ganzo, Paul Seydor, Garner Simmons, Katy Haber, coordinata da Roberto Turigliatto e con l'intervento di Valerio Caprara. Katy Haber è stata stretta collaboratrice di Sam Peckinpah nella seconda parte della carriera, lavorando con lui da Cane di Paglia fino a La croce di ferro. La Haber racconta che Peckinpah ebbe un incidente automobilistico e che durante lo scontro vide la morte in faccia, in cui tutto era rallentato e aveva avuto l'impressione dell'arrivo della morte lentamente. Il tempo si dilatava e non accelerava. E questa sensazione la riproduceva nei film utilizzando lo slow motion.
(10) Pur essendo meticoloso nella realizzazione del set e delle scene, Peckinpah amava improvvisare come confermato da molti dei suoi collaboratori. A titolo di esempio l'intera sequenza dell'assalto al treno non era prevista nella sceneggiatura e le battute furono scritte il giorno stesso così come la disposizione degli attori. Oppure nella sceneggiatura c'era solo la battuta "Andiamo" di Bishop rivolta ai fratelli Gorch nella casa delle prostitute, prima di andare a liberare Angel. Peckinpah, poco prima di girare, disse che voleva spazio e fece la famosa carrellata della banda di Bishop che arrivano nel cortile, così crea tensione e aspettative, (si può vedere il backstage in The Wild Bunch. An Album in Montage, documentario di Paul Seydor, 1996).
(11) Ci sono interessanti documentari sulla vita e l'opera di Sam Peckinpah. Citiamo quelli che sono stati utilizzati come fonti per la presente monografia: "Passion & Poetry - The Ballad of Sam Peckinpah" (2009) di Mike Siegel; "Sam Peckinpah: Portrait" (2006) di Umberto Berlenghini e Michelangelo Dalto; "Sam Peckinpah's West. Legacy of a Hollywood Renegade" (2003) di Tom Thurman; "The Wild Bunch: An Album in Montage" (1996) di Paul Seydor; "Sam Peckinpah: Man of Iron" (1992) di Paul Joyce. Nei vari documentari e testimonianze filmate (disponibili anche come extra in alcuni dvd dei film del regista) gli attori e le attrici, chi più chi meno, ricordano sempre Peckinpah come un uomo irascibile e con cui era difficile rapportarsi, ma anche dotato di un'estrema sensibilità e gentilezza. E se era difficile e faticoso lavorare con lui, concordano che riuscivano a rendere al massimo sotto la sua direzione. Per quanto riguarda Stella Stevens per La ballata di Cable Hogue, pur riconoscendone il genio e la bravura come direttore di attori, ha parole non proprio concilianti e gentili nei confronti di Peckinpah come persona (vedere l'intervista Un après-midi avec l'actrice Stella Stevens tra gli extra nell'edizione francese del dvd del film edito dalla Warner Bros. nel 2006).
(12) La Paramount in un primo momento era interessata a produrre il nuovo film di Peckinpah, ma si tira indietro senza spiegazione. Steve McQueen allora ci mette la faccia in prima persona e una quota di rischio economico creando una casa di produzione per l'occasione insieme a Paul Newman, Barbra Streisand e Sidney Poitier. (Cfr. Sam Peckinpah ..., Gérard Camy, op.cit., ppgg. 68-69)
(13) Nel suo romanzo "Slow Fade" del 1984, Wurlitzer descrive Peckinpah come "un violento, autodistruttivo, perverso e alcolizzato" (mia traduzione). Gérard Camy, Sam Peckinpah..., Op. Cit., p.76.
(14) In Sam Peckinpah, Op. cit, Capricci, p. 115: "Existential fucking violence!? Je ne veux plus jamais entendre parler de ça!" è la risposta di Aubrey a Peckinpah.
(15) Per chi volesse approfondire la storia della pellicola può leggere Gérard Camy, Sam Peckinpah..., Op. Cit., ppgg.73-83. Ma soprattutto gli ultimi saggi sul dibattito critico in corso e sulla diversa interpretazione di "restauro di un film" e di Pat Garrett e Billy the Kid in particolare, cfr. Stephen Prince, The Recutting of Pat Garrett and Billy the Kid: Ethical Problems in Film Restoration e Paul Seydor, The Authentic Death and Contentious Afterlife of Pat Garrett and Billy the Kid: The Several Versions of Peckinpah's Last Western due saggi che si trovano in Peckinpah Today, op.cit., rispettivamente ppgg.82-100 e ppgg.101-136.
(16) Scritta in dieci giorni, Dawson dichiara che "ho scritto" la storia "alla maniera di Peckinpah, avevo la sua voce nella mia testa (...). Il modo in cui il personaggio di Bennie tratta le donne, era veramente lui. Sam era un bad boy! Un cattivo ragazzo hollywoodiano!" in Sam Peckinpah, Capricci, op. cit., pag. 69 (mia traduzione).
(17) Alla già citata Round Table al Festival film di Locano del 2015, i critici e storici ne parlano come uno dei più innovativi e importanti, per alcuni oggi rivalutato come uno dei capolavori del regista.
(18) Sempre Gordon T. Dawson nella citata intervista in Sam Peckinpah, Capricci, op. cit. racconta che il regista "beveva tutto il tempo (...) Era completamente ubriaco dopo le otto di sera. E alle sei del mattino prendeva della cocaina" (mia traduzione).
(19) Katy Haber riferisce che Peckinpah non si sentiva vivo al di fuori del set e sia Killer Elite sia Convoy - Trincea d'asfalto, considerati dei film minori all'interno della filmografia peckinpahiana, sono accettati da Peckinpah con lo spirito di "una buona puttana che va dove la mandano". Se sul secondo film la critica è unanime nel considerarlo il peggiore del regista, su Killer Elite i pareri sono contrastanti a iniziare dalla stessa Haber che lo considera un buon film (testimonianze raccolte alla citata Round Table al Festival film di Locano del 2015).
Bibliografia
- "Sam Peckinpah", ouvrage dirigé par Fernando Ganzo, Capricci, Locarno, 2015
- "Catalogo 68° Festival del Film Locarno", 2015
- "Peckinpah Today. New Essays on the Films of Sam Peckinpah", edited with an Introduction by Michael Bliss, Southern Illinois University Press, Carbondale, 2013
- "Il cinema western da Griffith a Peckinpah", a cura di Toni D'Angela, Edizioni Falsopiano, Alessandria, 2004
- Gérard Camy, "Sam Peckinpah. Un réalisateur dans le système hollywoodien des années soixante et soixante-dix", L'Harmattan, Paris, 1997
- Valerio Caprara, "Sam Peckinpah", Il Castoro Cinema, Milano, 1997 (seconda edizione aggiornata)
- Umberto Mosca, "Sam Peckinpah. Il mucchio selvaggio", Lindau, Torino, 1997
Il mucchio selvaggio (1969)
La morte cavalca a Rio Bravo (The Deadly Companions, 1961) 6
Sfida nell'Alta Sierra (Ride the High Country, 1962) 9
Sierra Charriba (Major Dundee, 1965) 7
Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) 10
La ballata di Cable Hogue (The Ballad of Cable Hogue, 1970) 8
Cane di paglia (Straw Dogs, 1971) 9
L'ultimo buscadero (Junior Bonner, 1972) 7
Getaway! (The Getaway, 1972) 8
Pat Garrett & Billy the Kid (id., 1973) 9
Voglio la testa di Garcia (Bring Me the Head of Alfredo Garcia, 1974) 10
Killer Elite (The Killer Elite, 1975) 7
La croce di ferro (Cross of Iron, 1977) 8
Convoy - Trincea d'asfalto (Convoy, 1978) 5
Osterman Weekend (The Osterman Weekend, 1983) 7
Serial e TV Movie
Portrait of Madonna (Klac Tv, Academy Film Archive, 1952) 6
Tom Tit Tot (episodio pilota mai trasmesso, Academy Film Archive, 1958) 6
The Transfer (episodio in Broken Arrow, Abc, 1958)
The Rifleman (prima serie, episodi: The Marshal; The Boarding House; The money Gun; The Baby Sitter, Abc, 1958-1959) 6,5
Zane Grey Theather (episodi: Trouble at Tres Cruces; Lonesome Road; Miss Jenny, Cbs, 1959-1960)
Klondike Fever (episodio Klondike, Nbc, 1960)
The Westerner (serie unica, 13 episodi, Nbc, 1960) 8
Mon Petite chou (tv movie in Route 66, Cbs, 1961)
Pericles on 31st Street (tv movie in The Dick Powell Show, Nbc, 1962),
The Losers (tv movie in The Dick Powell Show, Nbc, 1963)
Noon Wine (tv movie in Abc Stage 67, Abc, 1966) 8
The Lady is My Wife (tv movie in Bob Hope Presents The Chrysler Theatre, Nbc, 1967)