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recensione di Massimo Versolatto

Se nel 1970 qualche buontempone si fosse preso la briga di fare una lista dei film western prodotti fino a quel momento, avrebbe finito con elencarne una caterva. Fra i tanti, magari passato inosservato, ci sarebbe stato anche "Il mucchio selvaggio", film distribuito (tagliato) l'anno precedente. Anche se, a dire il vero, definire questo film un western, è un po' riduttivo...

Alla fine degli anni 60 Sam Peckinpah aveva già girato alcune pellicole, tutte ambientate nell'universo western e nelle quali si poteva già notare una certa "necessità" di violenza. Non "necessità" in senso stretto, più che altro una convinzione della capacità della violenza di "descrivere" e "interpretare" il disagio dell'essere umano. Peckinpah stesso, in un certo senso, è stato un figlio disagiato dell'America contemporanea. Alcolista irrecuperabile, dedito al fumo, alla cocaina e agli eccitanti, arrivava spesso sul set in condizioni tali da non essere in grado di reggersi in piedi. Tuttavia, nella sua spericolatezza alcolemica, trasudava un grande talento visivo. In ogni sua pellicola è il senso di "smarrimento" a farla da padrone, e la morte violenta ne è la principale protagonista. Fondamentalmente pessimista, Peckinpah, oltre che autore notevole - il suo zampino in sceneggiatura c'è quasi sempre - ha sempre dimostrato di avere un controllo totale della macchina da presa. Coadiuvato da professionisti notevoli al montaggio, ha saputo rivoluzionare il concetto d'azione. Moltissimi registi, successivamente, si sono ispirati al suo utilizzo del ralenty (John Woo su tutti, che ha elevato questa tecnica a livelli di stilizzazione quasi totale).
In qualità di autore, Peckinpah creava un certo scandalo e nella quasi totalità dei suoi film ha avuto da ridire con i produttori. Estremo nella messinscena ed estremo nei contenuti - per l'epoca, ma soprattutto per la capacità di dare alla violenza un senso "reale" - non ha mai avuto il successo che avrebbe meritato. "Il mucchio selvaggio" è un po' la sintesi delle sue magagne. È per certi versi un sunto del suo cinema e della sua mentalità. E come tutto il resto del suo artistico modo di vedere il mondo, all'epoca della sua uscita non ha venduto praticamente nulla - anche se oggi è riconosciuto quasi all'unanimità come capolavoro del genere western.

Western da un punto di vista formale - ci sono i cavalli, i cowboy, le pistole, la frontiera - "Il mucchio selvaggio", raccontando le vicende di un gruppetto di rapinatori di banche a "fine carriera", si eleva a manifesto di un "modo di vivere". Peckinpah non millanta la vita criminale, ma attraverso di essa traccia i connotati di un preciso senso di "libertà" e di "onore".
Da un punto di vista tecnico, il primo quarto d'ora di pellicola segna un'iperbole perfetta di dissonante bellezza. L'entrata in banca del "mucchio" è così lentamente girata da spingere anche l'emotività dello spettatore verso lo studio attento dell'ambiente. I suoi quadri statici placano l'animo, assopendolo quasi, per poi esplodere, successivamente, in una escalation di violenza devastante. Violenza che nei film di Peckinpah è ebbra, bagnata di un senso d'alterazione. Ne è palese dimostrazione la sequenza dello scorpione ucciso dalle formiche all'inizio del film, osservato da vicino, sadicamente, o il montaggio delle morti in combattimento, intervallate al resto dell'azione quasi come dei flash, come colpi di pistola, come attimi rapidissimi di dolore. Stilettate di violenza rabbiosa. Peckinpah non si compiace della sua violenza, sia chiaro. La scarnifica e ne mostra solo il cuore pulsante: un battito, latente, ultimo grido di rabbia contro il mondo. Anche i dialoghi, relativamente pochi, sono rabbiosi ed eroici: "vado a prendere il diavolo per la coda"...

Film di ampio respiro, questo. Dove la dimensione socio-politica ha una sua valenza neppure troppo implicita - i messicani del generale Mapache che fa la guerra a Villa e tiranneggia nel pueblo, la polizia che insegue il "mucchio" e "si serve" di altri banditi per catturarli, il ragazzo messicano del "mucchio" che vede nelle armi l'unica soluzione per difendere il suo popolo - e dove concettualmente Pekinpah esprime il suo pensiero malinconico attraverso "figurazioni" esterne all'azione. In quasi tutte le sparatorie sono presenti dei bambini, il cui sguardo, spesso, è tutt'altro che spaventato. A contrario, la loro visione della situazione è estasiata. I protagonisti del film non mangiano praticamente mai, ma bevono moltissimo. Spesso è l'alcool a suggellare momenti di unità del gruppo, o esaltare la riuscita del colpo.

Capolavoro visionario, è divenuto cardine di una nuova cinematografia western. Da antologia, in numerose sequenze, gioca sugli improvvisi scoppi di violenza e, nell'uso del ralenty spinto a ritmi vertiginosi - montaggio alternato quasi rivoluzionario, per l'epoca, con oltre 3600 inquadrature -, trova la stilizzazione, innaturale, plastica, della morte. Peckinpah, come McCarthy o Leonard con la penna, ha raccontato in modo diverso il Far West, disegnandone i contorni finali del suo crepuscolo e configurando il suo modo di fare cinema come spartiacque del genere. La differenza, rispetto al concetto di spartiacque vero e proprio, sta nel fatto che dopo il suo passaggio le acque si sono richiuse su loro stesse e hanno affondato il West come l'abbiamo conosciuto in precedenza. È la fine di quel mondo, di quel sogno, il "Vecchio West", che Peckinpah ci racconta. La ferrovia, le Colt automatiche 1911, l'automobile e l'aereo... L'America è pronta al grande passo, la vita sta per cambiare. "Bisogna ragionare col cervello, le pistole non bastano più..." Ma non per tutti il passaggio è indolore. Anzi, per la maggior parte della gente il cambiamento epocale si trascina dietro profonde cicatrici. Però c'è anche chi non lo accetta, tutto ciò, perché sa onestamente di non avere un posto nel mondo a venire. È figlio del suo tempo, e nel suo tempo ha vissuto. Ora vuole solo spingere al massimo, fino in fondo, per spremere quello che gli resta. Il "mucchio" è questo. Peckinpah è questo. E ce l'ha dimostrato. Nel cinema e fuori dal cinema.

Guardare "Il mucchio selvaggio" è come dilatare all'infinito il finale di "Pat Garrett & Billy the Kid" (altro capolavoro di Peckinpah, successivo), è come ascoltare a repeat "Cortez The Killer" di Neil Young o "The End" dei Doors. È come provare il senso d'ebbrezza caldo e avvolgente di una notte esagerata, prima del risveglio col mal di testa. È come guardare l'ultimo tramonto dell'ultimo giorno d'estate, consapevole che anche questa storia sta per concludersi. Definitivamente, un film sulla fine. Di che cosa, decidetelo voi. Si presta a molte più interpretazioni della evidente "chiusura" di un'epoca o di un modo di intendere la vita, l'onore e l'amicizia.


29/08/2009

Cast e credits

cast:
William Holden, Robert Ryan, Warren Oates, Ernest Borgnine


regia:
Sam Peckinpah


titolo originale:
The Wild Bunch


distribuzione:
Warner Bros, Seven Arts


durata:
145'


produzione:
Phil Feldman


sceneggiatura:
Sam Peckinpah, Walon Green


fotografia:
Lucien Ballard


montaggio:
Lou Lombardo


musiche:
Jerry Fielding


Trama
Ai primi del Novecento, di fronte alla fine dell'epopea del Vecchio West, un gruppo di rapinatori decide che è arrivato il tempo di spingere fino in fondo e dare un senso conclusivo alla loro avventura. In fuga perché braccati dai federali, troveranno la loro ragione di vita in un paesino messicano tirannizzato dal generale Mapache