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LOCARNO 68 - In occasione del Festival del film nella cittadina svizzera abbiamo incontrato il regista americano ormai lontano da parecchi anni dal set cinematografico. Un vero e proprio happening per conoscere da vicino uno dei grandi personaggi del cinema mondiale e ripercorrere velocemente la sua breve ma ricca filmografia

 "I film sono un'anarchia controllata, è un'impresa sanguinosa il cinema. Perché ho fatto quello che ho fatto e sono entrato in questa prospettiva folle? Devo essere venuto da qualche strano pianeta"
(Michael Cimino)

 

michael_cimino_locarno68_03Ecco, forse, questa affermazione detta dallo stesso Michael Cimino spiega più di tutto il personaggio, autore di soli sette film in un breve scorcio di tempo che va dal 1974 di "Una calibro 20 per lo specialista" al 1996 con "Verso il sole".  A distanza di quasi vent'anni dal suo ultimo film, in occasione dell'assegnazione del Pardo d'onore al regista americano all'ultimo Festival del film di Locarno, abbiamo avuto la fortuna di assistere all'incontro con il pubblico e gli addetti ai lavori il 10 agosto scorso tenutosi allo Spazio Forum della cittadina svizzera. Era presente una vera e propria folla a sentire parlare del suo cinema e l'area messa a disposizione dall'organizzazione festivaliera non riusciva a contenerla tutta. Cimino fin da subito ha rotto il protocollo stabilito per questi incontri, superando la sicurezza, brancando un microfono e mettendosi seduto sul tavolo del relatore di fronte al pubblico, protetto solo da un grosso paio di occhiali scuri. Il moderatore ha cercato di porgere delle domande, ma Cimino non lo ha nemmeno degnato di uno sguardo escludendolo e indirizzandosi direttamente alle persone presenti in sala. Ne è venuto fuori un vero e proprio happening che ha stravolto la scalette dell'incontro (che all'origine sarebbe dovuto durare novanta minuti e invece è durato più del doppio). Un confronto a ruota libera dove Cimino è stato un vero e proprio mattatore, passionale, simpatico, che non nascondeva il disappunto per le domande che non gli piacevano (e a cui non rispondeva), chiedendo sempre il nome e il cognome delle persone con cui parlava e avvertendo tutti: "Chiamatemi Michael, non mister Cimino!".

Il regista americano, nato a New York nel 1939, è stato sempre ai margini di quel mondo hollywoodiano della sua generazione che negli anni 60 e 70 si era formato nelle università di cinema californiane e presso gli studi televisivi. Il suo percorso di arrivo al cinema è stato differente rispetto ai vari Coppola e Scorsese e i registi della New Hollywood: "Io ho studiato soprattutto pittura e architettura, non sono un cinefilo ma un architetto frustrato" spiega Cimino, parlando dei suoi inizi.

"Facevo soprattutto spot pubblicitari" racconta, "soprattutto sulle auto che amo molto e con le auto ci sono sempre belle donne. E io le amo tutte e due. Io amavo la California, la sua gente, le belle donne. Mi piaceva la vita in California. Mi dicevano che c'era un solo modo in cui potevo fare un film ed era scrivere una sceneggiatura. Ma io non so scrivere, però se volevo restare in California e fare film dovevo imparare in fretta a scrivere. E lo feci in breve tempo. Vivevo a quel tempo in una camera in affitto in una casa che era stata di un produttore e avevo aperto per caso un armadio e mi è caduta addosso una montagna di copioni...".

michael_cimino_locarno68_02Quindi per il giovane mancato architetto la lettura di quei copioni è stato una specie di apprendistato tecnico per capire come scrivere delle sceneggiature. Ma subito spiega come sono nate le sue storie: "Parto sempre dai personaggi. Il cinema e la letteratura partono sempre dai personaggi. Per esempio di "Via con il vento" ti ricordi di Brett e di Rossella O'Hara, ma non che si tratta di un film sulla guerra civile americana. I film sono basati sulla vita dei personaggi. Il mio migliore amico è un vero cowboy che fa rodei" continua, "a lui piacciono le persone che dicono sempre la verità. E questo che ricerco nei personaggi. E se vi guardate dentro trovate sempre dei nuovi personaggi. Io non parto da un'idea che so... del cambiamento climatico oppure un problema politico, ma l'uomo che vede come cambia il mondo, a quello ci posso pensare. Credo che scrivere sia molto più difficile che girare, sei da solo con te stesso. Io preferisco sempre carta e penna. Ed è difficile essere autentici con se stessi, si è sempre al limite dello stereotipo, la risposta la trovi sempre nella verità".

Il regista italoamericano ha la sua ricetta per imparare a fare del cinema: "Il modo migliore è studiare recitazione, s'impara l'importanza dell'azione in confronto alla parola, al movimento del corpo, alla sua gestualità rispetto alla spiegazione. Chiunque voglia fare dei film deve prima imparare a recitare. Il regista non dovrebbe apparire mai, non far sentire la propria presenza, ma dovrebbe stare dietro la macchina da presa. Il cinema usa e ingloba tutte le altre arti e quindi abbiamo il dovere di farlo al meglio".
Cimino non risponde a domande su quanto è accaduto con "I cancelli del cielo", le difficoltà con la produzione, il fallimento della United Artists, il suo ostracismo da parte degli Studios.

A una domanda su cosa pensa del cinema di Sam Peckinpah, che ha conosciuto personalmente, risponde: "Un tipo selvaggio pieno di talento. Sam amava il western, era un vero cowboy".  E cosa ha fatto in questi anni? Ha scritto tre romanzi e "ho una montagna di progetti che non sono stati fatti solo per mancanza di soldi, mai perché non si trovavano gli attori giusti".

Sul suo film più famoso che lo ha reso celebre in tutto il mondo "Il cacciatore" dice sostanzialmente che è un film contro la guerra: "Quello che non è cambiato è l'orrore della guerra. Solo il luogo dove si combatte è diverso, ma per il resto è sempre la stessa storia". E continua: "Con Il cacciatore non m'interessava fare politica, volevo fare un film sulla famiglia composta da un gruppo di amici che sono più di una sorella e un fratello perché gli amici te li scegli, sono fratelli per scelta. La guerra è terribile ed è fatta dagli anziani che mandano a morte i giovani. I giovani dovrebbero ribellarsi. Ogni film dovrebbe parlare male della guerra. Questo volevo raccontare".

Spiegando le sequenze girate in montagna, l'importanza della scenografia, il suo gusto estetico per il paesaggio, dice che "tutto ha uno spirito. In montagna per esempio devi avere massimo rispetto del luogo. E devi avere il coraggio di aspettare anche quando il mondo ti sta guardando e ti dice cosa aspetti a girare? Ma quando quella luce o quella nube particolare arriva, la montagna mi concede il regalo della sua bellezza e posso riprendere il luogo, allora sei in sintonia con la montagna". Il paesaggio come vero e proprio genius loci che diventa personaggio metafisico dei suoi film.

A una domanda su cosa voleva rappresentare "Una calibro 20 per lo specialista", il primo film da regista, risponde icasticamente che "è una favola".  Aggiunge poi un gustoso aneddoto: "La piccola chiesa dove è nascosta la refurtiva della prima rapina esiste veramente e si trova nel paese dove è nato Gary Cooper. Questa cosa faceva preoccupare Clint (Eastwood, protagonista del film, n.d.r.) perché lo poteva far entrare in competizione con la figura di Cooper come mito".

michael_cimino_locarno68_01Si ripete Cimino, si lancia in invettive contro la guerra. C'è poi un intermezzo con Enrico Ghezzi che in un primo momento non riconosce e non risponde a una sua domanda. Poi parlando dell'Italia e de "Il Siciliano" racconta la sua esperienza di presidente di Giuria al Festival di Taormina e parla di un "matto" che era il direttore del festival. E' solo allora che riconosce Ghezzi e inizia uno show all'interno dell'incontro con l'abbraccio alla regista che aveva premiato a suo tempo (e presente anche lei in sala) e a Ghezzi.

Sembra strano ma è "Il siciliano" che dice di avergli dato più grattacapi: "Girarlo è stato incredibilmente difficile. Per esempio quando c'era la pausa pranzo era quasi impossibile far tornare i figuranti e le comparse sul set in tempo. Oppure durante le riprese mantenere ordinata la folla di comparse. Io poi sono un pignolo e c'erano degli aspetti dei costumi che non mi convincevano e volevo discuterne con Umberto Tirelli (non accreditato nel film, n.d.r.), ma lui non voleva incontrarmi e questo mi adirò non poco. Poi alla fine dopo mie insistenze e minacce che me ne sarei andato dal set venne da me e sospirò "Lo sapevo che dopo Visconti non dovevo più accettare di lavorare per il cinema", ma dopo questo inizio alla fine ci intendemmo. Ecco, questo è un altro esempio delle difficoltà che ho avuto con il film".
Il One Man Show finisce per l'intervento dell'organizzazione e Cimino saluta un pubblico conquistato da questo grande personaggio. Ma di lui restano i film. E, alla fine, solo questo è ciò che conta.


Filmografia

Una calibro 20 per lo specialista
(Thunderbolt and Lightfoot, 1974)

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Il primo fotogramma che dà il via alla cinematografia di Michael Cimino la dice lunga su quello che sarà il suo cinema. La fissità silenziosa della mdp intenta a osservare l'orizzonte che separa il cielo dalla terra riflette come meglio non si potrebbe l'interesse del regista nei confronti degli spazi naturali del territorio americano, paradiso perduto restituito a quella funzione mitologica che gli era stata assegnata a partire dai grandi film del cinema western e a cui Cimino si rivolge per cercare un senso alla conflittualità degli esseri umani. Viene quasi da sé che i personaggi dei suoi film, a partire da quelli di Thurdenbolt e Lightfoot, siano angeli e insieme demoni, creature a metà strada tra la santità e la perdizione. Così come è altrettanto naturale considerare "Una calibro 20 per lo specialista" una storia di indiani e di cowboy, con le macchine al posto dei cavalli ma con la stessa voglia di esplorare la possibilità di una nuova frontiera. Sostenuto da Clint Eastwood e dalla sua Malpaso Film, la direzione di Cimino può contare anche su uno dei migliori attori giovani del periodo, Jeff Bridges e su un paio di caratteristi come non esistono più.


Il cacciatore (The Deer Hunter, 1978)

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Per essere il film che lo ha reso celebre al grande pubblico, "Il cacciatore" è rappresentativo di una purezza e di un'intransigenza normalmente sconosciuta al cinema dei grandi numeri. Di più, a compensare gli svantaggi di una durata fuori dalla norma e di una violenza psicologica altamente disturbante, ci pensano il tono epico della storia e lo sguardo universale che Cimino riesce a dare al canto della generazione spazzata via dalle conseguenze del conflitto vietnamita. Prima che lo facciano altri, il regista ci porta nell'antro del mostro per mostrarlo nella sua folle crudeltà. Ma "Il cacciatore", oltre a essere l'ultimo atto del grande John Cazale, è anche l'occasione per mettere insieme alcuni dei migliori talenti attoriali del periodo, a cui Cimino, da par suo, consegna personaggi davvero indimenticabili. Vincitore di cinque premi Oscar tra cui quello di miglior film e miglior regia.


I cancelli del cielo (Heaven's Gate, 1980)

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Il Grande Evento della storia del cinema. Il film che ha contribuito a far fallire la United Artists (costato 44 milioni di dollari ne incassa solo 3) e che ha messo fine alla stagione della New Hollywood e al ritorno dello strapotere degli executive degli Studios. Opera ciclopica, dove il dettaglio maniacale di Cimino ha il suo apice con la ricostruzione di "The Johnson County War", gli eventi storici dello scontro tra gli allevatori di bestiame e gli immigrati dall'Est Europa nel Wyoming di fine Ottocento. Uno sguardo atipico di un episodio poco amato dagli americani, un film monstre per durata (l'originale è di 219') e per messa in scena. Film travagliatissimo, dopo le stroncature unanimi dell'epoca è stato rivalutato con il tempo ed è diventato uno dei capolavori del western moderno. Le sequenze della battaglia finale, il ballo degli immigrati nella loro common room, il prologo girato all'università di Harvard con il ballo dei diplomati intorno alla quercia secolare sono tra le sequenze più emozionanti. Il triangolo tra lo sceriffo James Averill (Kris Kristofferson), il vigilante Nathan D. Champion (Christopher Walken), suo amico, e il loro amore per la prostituta Ella Watson (Isabelle Huppert) ha un tocco poetico e decadente. Un film epocale sotto tutti i punti di vista.


L'anno del dragone (Year of the Dragon, 1985)

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Il capitano di polizia Stanley White arriva a Chinatown per combattere le gang e il crimine organizzato della Triade cinese. La guerra del Vietnam continuata in un altro terreno e in un'altra epoca. Mickey Rourke, in una delle sue migliori interpretazioni, tratteggia un personaggio razzista, maschilista, ossessionato ed egoista, che distrugge tutto ciò che tocca, amici e nemici. Una metropoli che sembra una giungla fumosa, le grandi scene di massa dei funerali lungo Canal Street, il movimento distruttivo di White per tutto lo sviluppo diegetico (che somiglia molto ad Achab e la caccia alla balena bianca), con la sequenza finale girata nel porto di New York e lo scontro a fuoco tra White e il boss della mafia cinese Joey Tai (John Lone) rendono il film un affresco moderno di grande respiro. L'opera della rinascita (momentanea) di Cimino, che pur risentendo degli anni passati (in particolare nei dialoghi a volte rozzi e didascalici) rimane un poliziesco d'autore duro e teso godibilissimo.


Il siciliano (The Sicilian, 1987)

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"Girarlo è stato incredibilmente difficile". Così parla Cimino di questa sua avventura in terra siciliana. Certo la vicenda di Salvatore Giuliano nel secondo dopoguerra tra rivendicazioni sociali (la terra ai contadini), aneliti indipendentisti (si fa promotore della Sicilia come nuovo stato per gli americani) è molto personale e romanzata. Niente a che vedere con il capolavoro di Francesco Rosi del '62. Tratto da un romanzo di Mario Puzo, lo stesso del Padrino coppoliano, "Il siciliano" pecca di ingenuità nello sviluppo dei personaggi (così importanti per Cimino) con Christopher Lambert nella parte del protagonista inverosimile e impomatato più in versione da soap opera che di attore drammatico. Fotografia patinata, volti puliti e da sfilata di moda, ricercatezza dei dettagli fine a se stessi, il film risulta essere l'opera meno riuscita del regista americano alla continua ricerca di una bellezza formale che resta tutta in superficie.


Ore disperate (Desperate Hours, 1990)

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Alla ricerca del tempo perduto "Ore disperate" si lascia indietro le difficoltà italiane per rituffarsi nella tradizione della cinematografia americana e di una pellicola che è il remake dell'omonimo film del 1955 girato da William Wyler. Nei piani di Michael Cimino la storia dell'evasione di tre ergastolani che si rifugiano nella casa di una famiglia benestante è l'occasione per mettere in scena un confronto di caratteri che si trasforma in tragedia non prima di aver svelato le ipocrisie dell'American Style of Life. A differenza dei lavori precedenti "Ore disperate" si sottrae alla luce del sole e agli spazi sterminati per rifugiarsi all'interno di un decoro privo d'orizzonti. Cimino tenta di far convivere la sua Wilderness in un cinema claustrofobico e domestico, scommettendo sulle possibilità di manovrare la mdp con la stessa fluidità utilizzata negli ambienti esterni. Le scorie de "Il siciliano" si fanno sentire e, al di là di qualche sprazzo, ad avere la meglio sono gli eccessi d'estetismo visibili soprattutto nella mise modaiola di Mickey Rourke che, abbronzato e vestito di tutto punto, sembra riproporre il personaggio interpretato in "Orchidea Selvaggia".


Verso il sole (The Sunchaser, 1996)

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Blue è un giovane navajo ribelle malato di cancro che fugge dalla prigione approfittando di una visita medica. Trascinandosi con sé l'oncologo ricco e cinico Dr. Michael Reynolds, intraprende un viaggio verso un luogo mistico per la sua cultura per incontrare il grande spirito prima di morire. L'ultimo film di Cimino è grande cinema, pura elegia in immagini, con ancora una volta la capacità personale di far parlare il paesaggio e mettere in scena questo confronto-scontro tra due visioni della vita: una spirituale e legata alla natura (quella di Blue) e l'altra materiale e legata al profitto (quella del medico). La sequenza finale si avvicina alla trascendenza per un'opera apprezzata al Festival di Cannes del '96 e che meritava di essere premiata. L'ultimo saluto al cinema del maestro americano non poteva essere migliore.





Michael Cimino, l'uomo venuto da un altro pianeta