Il 68 Festival del film di Locarno si chiude con l'assegnazione del Pardo d'oro a "Right Now,Wrong Then" del coreano Hong Sang-soo. Premio speciale della giuria a "Tikkun" di Avishai Sivan. Alle attrici di "Happy Hour" va il premio per la miglior interpretazioni femminile e il regista giapponese porta a casa una menzione speciale per la sceneggiatura. Ad Andrzej Zulawski il premio per la miglior regia.
Finale di Festival
E' sempre difficile tirare le somme di un festival, in particolare ricco come quello di Locarno. La 68sima edizione ha visto un concorso internazionale equilibrato tra le varie cinematografie mondiali con nomi nuovi, conferme e ritorni di maestri che mancavano dal grande schermo come Andrzej Zulawski. C'è da dire che anche le sezioni collaterali sono state di alta qualità come ad esempio il concorso Cineasti del Presente dove sono state proiettate opere prime di autori che hanno portato un cinema sperimentale, coraggioso, fuori dalle righe e alcune opere non avrebbero sfigurato nella competizione principale. Dobbiamo dire come la cinematografia dell'Estremo Oriente ha prodotto le opere migliori (confermate dai premi assegnati dalla giuria) e abbiamo avuto conferma della vitalità del documentario d'autore italiano, sempre con film di alto livello. Il Festival ha visto quest'anno ospiti d'onore di grande importanza per la storia del cinema come Michael Cimino (il suo incontro con il pubblico e gli addetti ai lavori si è trasformato in un happening fuori dagli schemi), Marco Bellocchio, il montatore e sound design Walter Murch, gli attori Andrew Norton e Andy Garcia. Locarno ha poi dedicato una retrospettiva ricca e completa a Sam Peckinpah, autore che ha attraversato la storia del cinema degli anni 60 e 70, arricchita dai suoi lavori televisivi e da una round table finale che ha visto la partecipazione dei massimi esperti mondiali del regista americano. Un festival che ha visto una grande partecipazione di pubblico ed è stato un successo personale di Carlo Chatrian, deus ex machina e vera anima della manifestazione, che ha vinto la sua scommessa di un'edizione di successo.
Pardo d'oro
Jigeumeun Matgo Geuttaeneun Teullida (Right Now, Wrong Then) di Hong Sang-soo, Corea del Sud
Premio speciale della giuria
Tikkun di Avishai Sivan, Israele
Pardo per la miglior regia
Andrzej Zulawski per Cosmos, Francia/Portogallo
Pardo per la miglior interpretazione femminile
Tanaka Sachie, Kikuchi Hazuki, Mihara Maiko, Kawamura Rira per Happy Hour di Hamaguchi Ryusuke, Giappone
Pardo per la miglior interpretazione maschile
Jung Jae-Young per Jigeumeun Matgo Geuttaeneun Teullida (Right Now, Wrong Then) di Hong Sang-soo, Corea del Sud
Menzioni speciali
Per la sceneggiatura di Happy Hour di Hamaguchi Ryusuke, Giappone
Per la fotografia di Shai Goldman per Tikkun di Avishai Sivan, Israele
Concorso internazionale
Happy Hour di Hamaguchi Ryusuke
Nel prologo di "Happy Hour" ci vengono presentate quattro amiche, tutte donne che hanno meno di quarant'anni, protagoniste della storia, mentre vanno a fare un pic nic sulle colline di Kobe. Da una giornata soleggiata, le quattro si ritrovano a mangiare sotto un gazebo mentre piove e la nebbia rende invisibile la città. Fin dall'incipit il regista Hamaguchi Ryusuke dichiara quello che lo spettatore dovrà attendersi dalla visione della sua opera: la messa in scena delle relazioni delle quattro amiche, il loro sviluppo emotivo tra di loro e le persone che le circondano (mariti, figli, amici, amiche, conoscenti, figli). Un sicuro cambiamento, preannunciato da quello meteorologico, tema principale che si svolgerà lungo tutta il proseguo della diegesi. Quello di Hamaguchi è un mondo solo alla superficie ordinato e tranquillo, mentre sottotraccia si muovono correnti di sentimenti contrastanti e contrapposti come i corsi di acqua delle terme di Arima, dove le quattro amiche andranno in gita una domenica di agosto e dove ci sarà uno snodo narrativo determinante per l'avanzare della storia e lo sviluppo dei personaggi. Happy Hour" di Hamaguchi Ryusuke è un'opera complessa, articolata, ricca, che richiede partecipazione allo spettatore e la sua lunga durata non spaventa. Come nel seminario del film, l'autore trasmette pensieri e immagini a chi vede, utilizzando il perfetto equilibrio tra immagine e parola, una comunione di sentimenti tra personaggi e il suo autore, una rappresentazione della realtà fenomenica instancabile tra creatore dell'opera e i suoi fruitori. In due parole: un capolavoro. Leggi la recensione. (AP)
Concorso internazionale - Intervista
Happy Hour e il pudore della macchina da presa: intervista con Ryusuke Hamaguchi
Abbiamo incontrato Ryusuke Hamaguchi, regista di "Happy Hour", uno dei film più belli presenti in questa edizione del festival di Locarno. Leggi l'intervista (CC)
Concorso internazionale
Suite Armoricaine di Pascale Bretone
Il cinema francese che fa il verso a quello americano. Con i modi che però gli sono tipici, e cioè raccontando con molte parole e pochi fatti un esistenzialismo da ultima spiaggia, sul modello di quello proposto agli inizi degli anni 80 dal Lawrence Kasdan de "Il grande freddo". Succede infatti che "Suite Armoricaine" nel raccontare le storie di Francoise, professoressa di storia dell'arte tornata a insegnare nella propria città natale e di Jon, liceale che nasconde l'esistenza di una madre di cui si vergogna, scelga il passato dei suoi protagonisti più maturi per fare il punto della situazione rispetto a un presente che ha deluso le premesse di partenza. In questo modo a farla da padrone è un'alternanza di sentimenti che vanno dalla malinconia per il tempo che fu e la voglia di non arrendersi al verdetto delle rispettive esistenze. Al tema degli amori finiti abbinato a quello per la musica rock, "Suite Armoricaine" aggiunge l'attenzione per il paesaggio naturale considerato sia nella sua dimensione estetica che salvifica. Una ricchezza di sfumature e di psicologie che "Suite Armoricaine" analizza e su cui a volte si perde, consegnando il film a una dimensione di vaghezza che lo rende poco incisivo. (CC)
Voto: 5,5
Piazza Grande
The Laundryman (Qing tian jie yi hao) di Lee Chung
E' un'opera prima di un giovane taiwanese dal sapore pop, che miscela il thriller con la ghost story, una delle ultime proiezioni in Piazza Grande. La storia è presto detta: un giovane lavora presso una lavanderia che funge anche come organizzazione di sicari a pagamento, dove il nostro risulta il più bravo e richiesto. Però il ragazzo ha un problema: i fantasmi delle persone da lui assassinate lo perseguono senza sosta. La datrice di lavoro (la classica dark lady), pur non credendo alla sua storia, lo indirizza alla giovane medium Lin Hsiang che effettivamente vede i fantasmi e lo aiuterà a portare loro la pace compiendo una detection inversa per trovare i mandanti e i moventi delle richieste di assassinio. In un tourbillon di inseguimenti, omicidi, scontri con fantasmi, il giovane dovrà fare i conti con il passato che è la causa della sua odierna condizione. Lee Chung gira un film divertente e divertito, molto colorato (con una fotografia satura e luminosa) e con personaggi simpatici (in particolare i due protagonisti che interagiscono bene tra di loro). La sua scrittura però è ancora acerba e il gusto citazionistico non sempre lo aiuta, oltretutto peccando di presunzione nell'osare troppo con la commistione dei generi, che a volte danno la sensazione di essere forzatamente incrociati. Poi ci sono sequenze in cui non controlla perfettamente la messa in scena, in particolare in due sequenze di azioni: quella nel casolare del bosco, dove recupera il figlio di una coppia da lui assassinati, girata quasi al ralenti con combattimenti che hanno troppo il sapore dello slapstick; e il finale, lunghissimo, con continui stop and go, che lasciano un po' interdetti. Pur con queste mancanze, il film è apprezzabile per la vitalità e il coraggio del giovane autore. (AP)
Voto: 6
Concorso internazionale
Right Now, Wrong Then di Hong Sang- Soo
Non ci sorprende per nulla eppure continua a stupirci. Stiamo parlando del regista coreano Hong Sang- Soo e del suo "Right Now, Wrong Then", passato in concorso ad appena due anni dalla conquista del premio per la miglior regia ottenuto a Locarno con "Our Sunhi". Non è certo una novità infatti, come succede in quest'ultimo lavoro, che l'autore coreano prediliga, il gusto del paradosso, le atmosfere surreali e gli acquarelli di vita quotidiana in cui la riflessione sul cinema prende spunto dall'amore nei confronti dei suoi personaggi. Ad abbassare la sorpresa prodotta da "Right Now, Wrong Then", concorre anche la trama, tanto nella similitudine topografica degli ambienti - anche se in questo caso non siamo a Seul ma in una metropoli della provincia coreana - quanto nella proposizione dell'incrocio sentimentale tra un regista arrivato in città per presentare il suo film e una giovane artista alla ricerca d'ispirazione, che al primo impatto sembra fare da appendice alle vicende raccontate nel suo penultimo film. Senza dimenticare l'espediente dello sliding door narrativo che, presentando con lievi varianti due storie pressoché identiche, fa venire in mente "In Another Country", realizzato nel 2012. Leggi la recensione. (CC)
Piazza Grande - Shorts
Pastorale cilentana di Mario Martone
La giornata dall'alba al tramonto di un pastorello nella campagna del Cilento del XIV secolo è il soggetto di questo corto (19') del regista napoletano. Senza alcun dialogo, con una colonna sonora composta dai suoni intradiegetici emessi dall'uomo oppure dall'ambiente dove si muove il ragazzino che porta a pascolare il gregge di capre per le campagne. Una lunga soggettiva composta da una serie di sequenze che mettono in scena la caccia, il mercato, i pescatori, le donne che salano il pesce, l'incontro con la figlia del mugnaio, fino ad arrivare a sera e assistere alla nuova presenza del fratellino (o sorellina) appena nato nelle braccia del padre, dopo che la mattina la madre lo aveva salutato ancora incinta. Una serie di tableaux vivants di gusto pittorico (con una luce e una rappresentazione del paesaggio del Seicento che ricorda certa pittura ottocentesca), dove una sola giornata illustra il naturale ciclo della vita e con un finale che comunica un senso di religiosità per la nascita di un(a) bambino(a) in mezzo alla paglia in una stanza della casa. Certo, a fronte di una perfezione formale e di un tema così esplicito si ha comunque la sensazione di una programmatica finzione estetica fin troppo idealizza(nte)ta. L'ultimo Martone ci ha regalato un grande ritratto di Giacomo Leopardi nel suo "Il giovane favoloso" e ci auguriamo che "Pastorale cilentana" sia un primo esperimento per un futuro lungometraggio. (AP)
Voto: 6,5
Piazza grande
Amnesia di Barbet Schroeder
Attivo tra le fila della nouvelle vague in veste di produttore di un autore come Eric Rohmer, lo svizzero Barbet Schoereder ha avuto il suo momento di gloria lavorando in progetti americani ("Barfly", "Il mistero Von Bulow") in cui in qualità di regista ha cercato di conciliare lo spirito autoctono di quelle storie con le prerogative di uno sguardo prettamente europeo. "Amnesia" in questo senso rappresenta il ritorno a un cinema più personale, e, aggiungiamo noi, alle strutture più classiche del cinema di finzione, con una storia che racconta l'incontro tra una donna in fuga dalla vita e un ragazzo che giunge a Ibiza nella speranza di intraprendere una carriera da Dj. L'apparenza inganna così come gli sviluppi della trama che dapprima ci immergono in un'atmosfera da sogno, lasciando intendere una qualche tipo di liason tra i due protagonisti e poi, bruscamente, ci riporta alla realtà, inducendoci a riflettere sugli orrori del nazismo e sulla persecuzione antisemita che coinvolge in maniera diversa i due personaggi principali. L'irruzione della tragedia ebraica è tanto più forte quanto inaspettata, in un contesto come quello della costa balneare spagnola, normalmente legata a un immaginario di divertimento e libero svago, e che invece in questa occasione diventa un inedito luogo della memoria. L'importanza dei contenuti però, non può far passare in secondo piano le caratteristiche di una messinscena piattamente televisiva. Il titolo del film si riferisce al nome della famosa discoteca iberica e, allo stesso tempo, al fenomeno di rimozione, legato alla volontà di obliare gli orrori dell'Olocausto.(CC)
Voto: 5,5
Concorso internazionale
Tikkun di Avishai Sivan
Un giovane ebreo della comunità chassidica, per aver fatto cadere inavvertitamente il proprio tefillin, decide di digiunare per espiare la mancanza. Una sera sviene mentre si sta lavando in bagno e per la debolezza del fisico non si riprende. I paramedici accorsi, dopo aver provato per più di quaranta minuti a rianimarlo, lo dichiarano morto, ma il padre non desiste e con un ulteriore massaggio cardiaco riesce a far ripartire il cuore del figlio. Inizia in questo modo il film del giovane regista israeliano Avishai Sivan al suo terzo lungometraggio in cui affronta dei temi strettamente legati all'universo culturale ebraico. Sivan muove la macchina da presa all'interno del mondo chassidico, in particolare raccontando il rapporto tra Haim-Aaron, giovane studente ligio ai doveri religiosi, e suo padre, un macellaio kasherut. Dopo l'esperienza di quasi morte, in Haim-Aaron inizia un lento e impercettibile cambiamento che lo porta al mancato rispetto dei precetti, alla scoperta della sessualità fino a quel momento repressa, con il risultato di essere espulso dalla scuola. Il padre è colpito da vere e proprie visioni apocalittiche fatte di apparizioni del figlio morto, con le mosche che lo tormentano, e di un coccodrillo che fuoriesce dalla tazza del gabinetto (tutte allegorie demoniache) che lo accusa di non aver adempiuto alla volontà di Dio. I rapporti tra padre e figlio si deteriorano: il primo inizia a pensare di aver commesso una grave colpa strappando il ragazzo dalla morte; il secondo è turbato dal cambiamento che percepisce in lui e che lo porta in territori in cui perde ogni riferimento. Mentre il padre sogna di usare il coltello per l'uccisione rituale kasherut dei bovini sul corpo del figlio, Haim-Aaron vaga nella notte nella periferia della città israeliana, in un'atmosfera al limite della trance. Con richiami anche al mito del sacrificio del figlio Isacco da parte di Abramo, al contrario della narrazione biblica, quando Haim-Aaron è vittima di un incidente d'auto, dopo essere tornato fortunosamente a casa, sarà lasciato morire dissanguato nel proprio letto dal padre. Le sue ultime parole sono di ringraziamento nei confronti del genitore, in quanto la morte non è vista come sacrificio, ma come salvezza di una vita ormai orfana delle fede e in preda alle tentazioni del peccato. Sivan mette in scena un dramma denso, granitico, composto da long take dove il senso di oppressione sale durante lo scorrere del tempo filmico, in una fotografia con un bianco e nero dalle linee nette e poi immerso in grana pastosa per l'effetto della nebbia nella sequenza finale (metafora della perdita del personaggio). Opera piena di allegorie e simbolismi religiosi non immediatamente fruibili e con uno sviluppo diegetico centripeto, si fa apprezzare per l'intensità drammatica della messa in scena e la bellezza estetica delle immagini. (AP)
Voto: 7
Concorso internazionale
Chant d'Hiver di Otar Iosseliani
Accanto al lancio dei cineasti del futuro anche in questa edizione il festival di Locarno ha saputo tenere alto il prestigio della tradizione, inserendo, all'interno della sua rassegna, alcune degli autori che negli scorsi decenni si sono distinti per la peculiarità delle rispettive cinematografie. Così, dopo aver tenuto a battesimo il ritorno alle scene di Andrzej Zulawski che alla vigilia della premiazione qualcuno dà già per vincitore, il concorso internazionale ufficializza la presenza di Otar Iosseliani, regalando agli spettatori la visione del suo "Chant d'Hiver". Anche questo film, alla pari degli altri girati dal regista, non rinuncia a raccontare la realtà del presente, attraverso la trasfigurazione dei sentimenti e dello stato d'animo che la caratterizzano. Mediante un'alternanza di luoghi e di personaggi che inseguono a vicenda, il regista georgiano passa in rassegna gli eventi più salienti del nuovo secolo, condensandoli in un vortice di immagini che prendono in considerazione l'intero spettro della condizione umana. A partire dalla guerra, proposta nelle scene d'ordinaria follia del frammento iniziale, dedicato a una delle tante invasioni messe in pratica dall'esercito russo, riconoscibile dalla maglietta a strisce orizzontali bianche e blu indossata sotto la divisa dai soldati; e continuando, dopo il secco cambio di scena che ci catapulta nella Parigi dei nostri giorni, con gli sfollamenti coatti di improbabili reietti, che Iosseliani filma con una libertà d'ispirazione che si disfa di logiche narrative che non siano quelle dettate dall'estro del momento. Ovviamente, ciò che vediamo sullo schermo è il risultato di un controllo del dispositivo cinematografico in cui la naturalezza di gesti, come quelli messi in mostra nelle sequenze dei borseggi effettuati dalla banda di giovani lestofanti, è il frutto di un'ossessiva attenzione del particolare. Sta di fatto che il film, riesce a compiere il miracolo di un cinema che parla di cose serie con una levità, che, se ci è concesso il paragone, ricorda quella del grande Jaques Tatì. Che ci parli di vita o di morte, di dittatura o democrazia, di ricchezza o povertà, "Chant D'Hiver" non perde neanche per un attimo l'occasione di essere poesia, costruendo un mondo personale di cui fanno parte i temi che sono cari all'umanesimo del regista e che vanno dal senso di sradicamento - anche personale, ricordando i fatti che hanno spinto Iosseliani a emigrare in Francia - affermato attraverso la precarietà esistenziale dei personaggi, allo sberleffo del potere, raffigurato nel film da un capo della polizia che sembra uscito dalla ceneri dell'impero bolscevico, all'amore per l'arte e la conoscenza, presente nei migliaia di libri accatasti negli spazi abitativi e nell'erudizione (con la musica classica in prima fila) che impregna i dialoghi degli arzilli vecchietti protagonisti della storia. Con Mathieu Amalric e la propria signora e un Enrico Grezzi più straniato che mai, a figurare, alla pari degli altri, nel presepe vivente realizzato da un regista dal formidabile regista.(CC)
Voto 7,5
Concorso internazionale
The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers di Ben Rivers
Il film, con una sceneggiatura di pochissimi dialoghi, utilizzando le tecniche documentaristiche, è diviso in due parti: nella prima viene messa in scena il set cinematografico di un film che si sta girando sulle montagne dell'Atlante in Marocco; nella seconda parte, il giovane regista, in una momentanea interruzione delle riprese, viene rapito da tre predoni e trasformato in oggetto di divertimento facendogli subire violenze (con il taglio della lingua per renderlo muto), rinchiuderlo in una tuta ricoperta di fondi lattine e alla fine vendendolo come ballerino. Regista inglese di cinema sperimentale, Ben Rivers mette in scena il doppio tema del cinema come viaggio mentale e ricostruzione della realtà, dove il personaggio-regista si perde all'interno di un mondo che non riesce a comprendere appieno e finendo per essere fagocitato dal lato oscuro di una natura idealizzata. Tra cinema pasoliniano (quello degli "Appunti per un film sull'India" e "Appunti per un'Orestiade africana") e romanzi di Paul Bowles ("Tè nel deserto" e in qualche modo l'evoluzione della seconda parte ha delle assonanze anche con il film di Bernardo Bertolucci), Rivers utilizza volutamente la pellicola e i filtri per rendere uniforma la luce, rendendo il film più antinaturalistico possibile, e dove la presenza dell'autore è costante. Ma questo sogno che si trasforma in incubo ha il sapore del dejà vu e risulta alla fine un bell'esercizio di stile. (AP)
Voto: 6
Concorso internazionale
O Futebol di Sergio Oksman
In occasione del Campionato del Mondo di calcio in Brasile nel 2014, dopo tanti anni, Sergio torna al suo paese natale per passare un po' di tempo con il padre Simão. La metafora del calcio è il collante a un'elegia sulla figura paterna e alla condivisione della memoria con il figlio (toccante il video amatoriale del matrimonio del padre con la giovane moglie, colti in un momento di autentica felicità): l'obiettivo di Sergio di vedere tutte le partite insieme al padre fallisce proprio perché quest'ultimo non ha tempo ed è impegnato con il suo lavoro. Fin quando Simão è in scena, le partite di calcio, che comunque fanno da punteggiatura cinematografica, restano in secondo piano, poi quando si sente male improvvisamente e viene ricoverato in ospedale, il calcio torna in primo piano a colmare la sua assenza. Oksman opera una messa in quadro molto elegante del personaggio: una prima parte, dove il soggetto è presente, ripreso nella sua quotidianità, con le sue debolezze, a volte con l'intervento diretto dell'autore in scena che si prende il ruolo di spalla con uno sguardo pudico, carezzevole, bonario (divertente il dialogo che hanno in auto andando a vedere una partita, che in realtà non vedranno restando in auto per tutto il tempo, e commentata dal padre sentendo le urla provenire dalla stadio); una seconda parte, dove il soggetto è assente, malato e morente, dove ci sono delle inquadrature scarne ma di grande bellezza emotiva che rappresentano l'attesa e il dolore per l'imminente scomparsa del padre (una su tutte, il totale dell'esterno dell'entrata dell'ospedale con a fianco il bar dove gli avventori guardano la partita del brasile in televisione, dove lo schermo sembra perfettamente diviso a metà a rappresentare la convivenza di gioia e tristezza, passaggio dalla vita alla morte). Questo tocco struggente di Oksman poi raggiunge il suo vertice con la ripresa dei luoghi, spazi vuoti, dove il padre ha vissuto e gli oggetti comuni che lui ha toccato. E su tutto il banale dettaglio delle decine di copie di riviste di enigmistica che il padre si divertiva a compilare, con inquadrature che via via sono montate fino al dettaglio della singola lettera impressa sul giornale. Anche il semplice segno diventa un lascito della sua presenza del padre, perché quando una persona che si ama ci lascia il minimo dettaglio diventa essenza. Oksman ci regala un piccolo gioiello, un film di una scrittura nitida con la capacità di far comprendere il mondo e la vita. (AP)
Voto: 7
Concorso internazionale
Entertainment di Rick Alverson
Lo stand-up comedian è una figura tipica dello spettacolo nei club e nei locali americani: in piedi, davanti al pubblico con un microfono e un repertorio di barzellette, battute salaci, giochi di parole. Da Bob Hope a Woody Allen, da Lenny Bruce a Robin Williams (tanto per citarne alcuni tra i più famosi) gli esempi si sprecano. E' la gavetta di molti comici americani per poi fare il salto nel cinema o in televisione oppure diventare famosi tenendo spettacoli nei teatri di Broadway o Las Vegas. Ma la maggioranza orbita all'interno di circuiti per tutta la loro carriera. Il giovane regista americano Rick Alverson sceglie di raccontare la vita di uno di quest'ultimi, un comico non più giovane in tournée in locali di terz'ordine nel sud desertico della California. Il taglio narrativo scelto da Alverson è minimalista, lavora di sottrazione e di comparazione di scene significanti, e il film si poggia sulla grande interpretazione di Gregg Turkington, che meritebbe un premio. Leggi la recensione. (AP)
Concorso Cineasti del Presente
Le Grand Jeu di Nicolas Pariser
Nella guida del festival "Le Grand Jeu" figurava con due caratteristiche che ci hanno indotto ad andarlo a vedere; quella più stimolante è che si trattava di un'opera prima presentata nel concorso dei Cineasti del Presente, la sezione dedicata alla scoperta dei nuovi talenti cinematografici. L'altra invece, riguardava direttamente il nostro gusto personale e la predilezione verso un genere, il polar, a cui "Le Grand Jeu" senza dubbio appartiene. Il grande gioco a cui si riferisce il titolo ha una valenza che, a posteriori, è indicativa della doppia natura della storia raccontata nel film. Perché la ricompensa che Joseph Paskin offre allo scrittore Pierre Blum, per aiutarlo a screditare l'operato di un importante ministro con la scrittura di un pamphlet che inneggia alla ribellione e alla violenza costituisce il nucleo del mistero e delle ambiguità che sono parte integrante di qualsiasi storia criminale. Paskin infatti, è un uomo di potere che vive negli interstizi del sistema e che rappresenta l'ago della bilancia di un gioco di potere che fa capo ai vertici stessi dello stato. Pierre, a sua volta, stanco della scrittura e deluso da anni di militanza politica né è il perfetto controaltare, per la visione eroica e appassionata dell'esistenza umana. Leggi la recensione (CC)
Piazza grande
Un disastro di ragazza di Judd Apatow
Being Amy Schumer. Lei è più che mai sulla cresta dell'onda in virtù del successo della serie televisiva "Inside Amy Schumer", di cui è assoluta protagonista, e recentemente, per la scelta di Madonna, di affidarle l'apertura del concerto che darà il via al tour mondiale della cantante. Ultima di una serie di attrici provenienti dalla gavetta televisiva e da programmi di sketch comedy sul tipo di quelli prodotti dalla catena televisiva Comedy Central, Amy, Schumer è una stand up comedian convertita al cinema, che si distingue dalle colleghe per la presenza di una fisicità bordeline (rispetto ai canoni del cinema Hollywoodiano) che, alla pari del linguaggio senza fronzoli e forse di più, contribuisce a scardinare i confini del bello, reinventandoli secondo una tipologia femminile, in cui le sinuosità del corpo vanno di pari passo con la qualità del quoziente intellettivo. Basti pensare al grado di consapevolezza che l'attrice impone - sua è la sceneggiatura - alla Amy di "Trainwreck", la quale, lungi dal considerarsi alla stregua delle molte damigelle in pericolo, riesce a essere pericolosamente appetibile e allo stesso tempo fortemente caratterizzata dal punto di vista della personalità. Leggi recensione (CC)
Concorso internazionale
Chevalier di Athina Rachel Tsangari
Il migliori film del cinema greco o almeno, quelli che si sono imposti nei maggiori festival internazionali avevano tutti una matrice comune che è era quella di collocare le storie in uno spazio concentrato e con un numero ristretto di personaggi. I motivi di quelle scelte dipendevano dalla volontà di evidenziare le ragioni della decadenza morale e culturale del paese, ricavandole da un tipo di messinscena che travalicava il reale per diventare metafora della crisi.. Chevalier della regista Athina Rachel Tsangari applica alla lettera la lezione dei suoi predecessori, immaginando che, durante il viaggio che li riporta ad Atene, un gruppo di uomini imbarcati su uno yacht decida di dare vita a una gara per stabilire colui che tra i presenti è la persona migliore. Partita come un gioco, la sfida diventa una sorta di tutti contro tutti che non mancherà di svelare la fragilità e la meschinità di ciascuno dei partecipanti. Se "Chevalier" si dovesse giudicare per la maniera in cui è stato girato, non c'è dubbio che se ne parlerebbe come di un film eccellente, perché la telecamera del regista è capace di trasformare gli spazi angusti e ristretti del natante in un campo di battaglia, che riesce a sublimare le difficoltà logistiche imposte dall'ambiente. Considerando però che nel cinema le qualità tecniche sono solo una parte del dovuto, e che da un film come "Chevalier", che fa del contenuto la sua parte più importante, è naturale far pesare il computo negativo del nostro giudizio all'inefficacia suo impianto narrativo. A poco vale infatti l'abilità con cui la Tsangari trasforma la contesa in una succursale del grande fratello televisivo, con i personaggi/ concorrenti pronti a confessare qualsiasi nefandezza e disponibili a ogni compromesso pur di vincere la posta in palio. Come pure non basta l'evidente atto d'accusa nei confronti di una categoria maschile vanesia e inetta che rimanda a quella incapace nella realtà di governare il paese. Perchè una volta intuito il meccanismo che sottende al film e capita la direzione in cui la vicenda va a parare, "Chevalier" risulta ripetitivo, e, visto il finale, non necessario. (CC)
Voto 5,5
Concorso Cineasti del Presente
Dom Juan di Vincent Macaigne
Il valore di certi film si capisce meglio confrontandoli con quelli appartenenti alla loro stessa genia. Nel caso di Don Juan, opera prima del regista, attore e cineasta francese Vincente Macaigne, passata nel concorso dei Cineasti del presente è di quelle che rientrano in questa tipologia, proponendo una versione cinematografica e contemporanea della piece di Moliere che si affianca, nella sua progettualità, alle molte che nel corso degli anni sono state realizzate per lo schermo dalle opere di William Shakespeare. Nella maggior parte delle quali, e soprattutto in quelle meglio riuscite, a risaltare, oltre al sostrato culturale portato in dote, erano la magnificenza della messinscena, l'importanza dei costumi e la capacità di sfruttare il protagonismo della star di turno per conquistare l'empatia del pubblico. Diversamente il film di Macaigne riesce ad ottenere lo stesso effetto convertendo i principi appena elencati a un'idea di cinema che trae la sua forza da una rappresentazione ridotta ai minimi termini. In questo modo al regista basta mettere davanti allo schermo la carnalità dei suoi attori e la spoglia architettura degli ambienti per ottenere quel mix di trasgressione e levigatezza che riescono a trasformare la realtà contemporanea in quella opulenta e decadente a cui fa riferimento l'opera teatrale. Se poi si aggiunge la scelta di far interpretare il film ad attori( tra cui il Loic Corbery di "Non è il mio tipo, qui nella parte del protagonista) provenienti dalla Comedie-Francaise il gioco e fatto. Da non perdere. (CC)
Voto: 7,5
Concorso Cineasti del Presente
Der Nacthmahr di Akiz
La diciasettenne Tina, insieme a due amiche, sono in auto dirette a una festa in piscina. Lungo la strada si divertono a scherzare con Tina creando un fotomontaggio tra una sua fotografia e un feto malformato, un freak, conservato nel laboratorio di scienze della scuola. Alla festa un ragazzo mostra a Tina un filmato su youtube di un investimento di una ragazza china in mezzo a una strada. La ragazza è sempre più disgustata e si immerge in balli forsennati al ritmo di musica techno. Mentre si apparta per urinare scorge uno strano essere in mezzo al giardino nei pressi della piscina. Fugge spaventata e convince le sue amiche a tornare a casa. Vicino all'auto si accorge di aver perso una collanina e la vede in mezzo alla strada e mentre si china a recuperarla viene investita da un auto replicando la scena del video visto poco prima. Questo è l'incipit di "Der Nacthmahr" (L'incubo) scritto, prodotto, montato e diretto dal giovane regista tedesco Achim Bornhak in arte Akiz e passato nel concorso Cineasti del presente al 68° Festival di Locarno: un viaggio psichedelico all'interno della mente di un'adolescente. Leggi la recensione.(AP)
Concorso internazionale
Heimatland di registi vari
Il cielo sopra Zurigo. Inizia con lo sguardo rivolto verso l'alto il film svizzero presentato quest'anno nel concorso ufficiale del festival di Locarno. A differenza del capolavoro di Wenders, menzionato nel gioco di parole, il lungometraggio collettivo realizzato da un gruppo di registi locali si muove in tutt'altra direzione, raccontando la cronaca delle ore della nazione elvetica colpita da un'apocalisse metereologica che potrebbe metterne in forse la sua stessa esistenza. Ed è proprio il sentimento della fine, con quello che ne deriva in termini di cupezza e di drammaticità, a guidare le azioni dei molti personaggi che compongono la storia. I quali, come spesso succede in questi casi, finiscono per doversi confrontare con i fantasmi della propria esistenza e con quelle parti della propria vita rimaste in sospeso fino a quel momento. Abbiamo cosi la poliziotta che si sente in colpa per aver provocato la morte di un immigrato africano, la giovane coppia che non riesce a fare a meno dei propri egoismi, oppure il leader di una piccola comunità montana che spinge i suoi proseliti a rimanere compatti e a mantenere l'ordine all'interno del consesso cittadino, per un quadro complessivo che vorrebbe restituire l'intero spettro delle realtà esistenti all'interno del territorio.
Ma, a differenza del mainstream catastrofico di produzione americana, "Heimatland" lascia da parte qualsiasi intento spettacolare, per disegnare una sorta di metafora sulla crisi della società svizzera - indebolita dalla mancanza di ideali comuni e dalla debolezza dell'istituzione famigliare - che arriva a ribaltare in concetto stesso di cittadinanza, attraverso la sequenza ai limiti del tragicomico, in cui le persone in cerca di salvezza e in fuga dalle proprie città, vengono respinti dall'esercito della comunità europea, schierato a presidio delle frontiere, in maniera del tutto simile a quanto accade ai tanti immigrati che sbarcano nel nostro continente. Un contrappasso efficace, anche per l'evidenza con cui si schiera dalla parte di chi, in Svizzera, si oppone alle possibili restrizioni relative alle legge sull'immigrazione, e che però lascia immutata la sensazione di deja vu che ci ha accompagnato durante la visione del film. (CC)
Voto: 6
Piazza Grande
Floride di Philippe Le Guay
La grandezza di certi interpreti è quella di riuscire a trasformare un film normale in qualcosa di più. Senza la presenza di Philippe Rochefort e di Sandrine Kimberlain, il nuvo film di Philippe Le Guay sarebbe comunque un prodotto ben fatto ma senza quelle caratteristiche che permettono al film di rimanere impresso nel cuore dello spettatore. Diversamente "Floride" sembra vivere tutta la sua storia in attesa della sequenza conclusiva, quella in cui, dopo aver svelato il non detto che separava il padre dalla figlia, ce li mostra finalmente abbracciati e liberi dalle incomprensioni e dalle inadeguatezze che normalmente caratterizzano i rapporti tra genitori e figli. Prima di quel momento, commovente e vero come solo gli attori di classe sanno rendere, c'era stato una sorta di one man show di Jean Rochefort che, nella parte di un uomo giunto al termine della vita e affetto da demenza senile, ce la mette tutta per farne passare di tutti colori alla povera figlia e alle varie badanti che, una dopo l'altra, decidono di rinunciare all'annoso lavoro. La proverbiale leggerezza dell'attore francese unita alla verve surreale che da sempre ne contraddistinguono la recitazione, riempiono lo schermo con svolazzi e sghiribizzi che mettono buon umore e che però non cambiano la sostanza della storia. Fino, appunto, agli attimi che precedono il congedo dagli spettatori e che da soli valgono davvero l'intero film. (CC)
Voto: 6,5
Concorso internazionale
No Home Movie di Chantal Akerman
Il documentario d'autore è un genere molto presente a Locarno che vanta una nutrita squadra di autori che hanno portato al Festival, tra il concorso e le varie sezioni collaterali, opere fin qui viste di alto livello. Se guardiamo alle proposte che arrivano da altri paesi come il film della belga Akerman appena proiettato si rimane sconcertati per la insoddisfacente qualità del suo "No Home Movie". L'autrice mette in scena sé stessa e sua madre che diventa oggetto della sua narrazione familiare: da una famiglia ebraica in fuga dalla Polonia, l'avvento del Nazismo in Germania, un'altra fuga in Belgio, e poi la guerra, i campi di sterminio, il rapporto della madre con suo padre (nonno della regista) e il marito socialista che rinnega l'ortodossia dei genitori. Se da un lato è sempre necessario parlare della memoria, soprattutto di quella dolorosa, la Akerman sceglie un registro personale totalmente autoreferenziale e con un punto di vista fisso. Dall'altro lato risulta poco convincente anche la scelta estetica con l'utilizzo di una grammatica cinematografica che va al di là dell'essenzialità e si riduce a essere povera: camera fissa su una messa in quadro totale all'interno della casa della madre all'altezza del tavolo (ma la Akerman non è Ozu), con long take interminabili, dove lei, l'anziana madre, la sorella, la badante si muovono. Quindi l'occhio della cinepresa cattura il volto delle persone sedute, altre volte solo dettagli al livello del bacino, altre ancora lo spazio vuoto con la registrazione dei suoni della attività casalinghe che avvengono fuori quadro; l'utilizzo della luce naturale, ma senza alcuna cura né alla messa a fuoco né alla luminosità; un montaggio in assenza di controcampo e in parallelo con lunghe sequenze di esterni della casa oppure di paesaggi che sono delle nature morte. Se confrontiamo ad esempio questo documentario con l'opera di Andrea Segre e il suo "I sogni del lago salato" dove, parlando della propria famiglia, si compie un percorso storico-economico e con una precisione nella messa in scena e in quadro, risulta ancora più stridente la visione di questo modesto film. (AP)
Voto: 4
Concorso internazionale
Perche sì
Te prometo anarquia di Julio Hernández Cordón
Giunto al suo quarto lungometraggio, il regista messicano è un habitué del Festival di Locarno con la sua seconda partecipazione al concorso nel giro di pochi anni. Con "Te prometo anarquia" si cimenta in un film che lui stesso definisce con aspetti noir. Seguendo le vicende di Miguel e Johnny, adolescenti ai margini di una Città del Messico notturna e periferica, Cordón narra un'amicizia e un amore estremo che intercorre tra i due giovani protagonisti (dove anche le scene di sesso esplicito sono sempre coerenti con passaggi topici dello sviluppo della diegesi) che cerca di sopravvivere in una comunità composta da loro simili il cui collante è la vita di corsa su uno skateboard. Il film è fortemente debitore per stile e tono generale a un certo cinema americano dei Gus Van Sant (in particolare "Belli e dannati" e "Paranoid Park) e dei Larry Clark, ma lo scarto avviene proprio con l'inserimento di elementi noir. Miguel per racimolare denaro facile vende il proprio sangue con i suoi amici al mercato nero. Il suo contatto gli proporrà un forte guadagno se riesce a portargli cinquanta persone. All'appuntamento però si presentano con un camion e solo per un caso lui e Johnny non sono caricati. Da lì in poi il film cambia tono e la scomparsa di tutte quelle persone, evento non raro per altri motivi in Messico, dove anche recentemente sono state trovate fosse comuni di interi gruppi di studenti solo perché avevano dato fastidio a politici locali con le loro proteste (e che il regista ha ben presente). Insomma un film tutto sommato riuscito su una variazione sul tema di un certo cinema d'autore. (AP)
Voto: 6,5
Perche no
Che cosa ci spinge a dire di un film come "Te prometo anarchia" del regista americano di origine messicana Julio Hernandez Cordon, di non aver confermato quanto di buono ci si poteva aspettare. Procedendo per ordine d'importanza, potremmo imputare il giudizio alla mancanza di una storia da raccontare, a meno che non si voglia considerare tale, i pellegrinaggi dei due giovani protagonisti, due ragazzi di strada che vagano da una parte all'altra della città, in cerca di denaro facile. Oppure alla scelta di inserire la mancanza di orizzonti delle loro giornate, in un contesto sociale degradato da ogni tipo di illegalità - dal commercio del sangue a quello di vite umane - eppure incapace di incidere sul film dal punto di vista drammaturgico. Stile e contenuti ed esibizioni di varie nudità hanno per modello il Gus Van Sant di Paranoid Park e, in parte, la gioventù bruciata raccontata da Larry Clark. Ma anche qui, "Te prometo anarquia" non riesce a scuotersi da una programmatica imitazione che produce solo distacco e mancanza di partecipazione rispetto alle sorti degli amici amanti protagonisti di questo film. (CC)
voto: 5
Consorso internazionale - Intervista
Il cinema che fa stare bene: Pietro Marcello parla di "Bella e perduta"
Abbiamo incontrato Pietro Marcello al termine della proiezione per farci raccontare la storia del suo fil. (CC)
Concorso internazionale
Bella e perduta di Pietro Marcello
Negli ultimi anni il festival di Locarno si è distinto per dare voce alle espressioni più radicali e innovative del nuovo cinema italiano, diventando, grazie alla lungimiranza dei vari direttori, una sorta di isola felice per le libertà del nostro - e non solo - cinema d'autore. Pensiamo a certi titoli rimasti nella memoria per l'intransigenza dei loro contenuti e, senza andare troppo indietro, a film come "Sangue" di Pippo Delbono, e a "Pays Barbare" di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, capaci di guardare all'Italia e alla sue tradizioni senza alcun tipo di filtro e di compromesso rispetto alla verità delle cose. Della stessa radicalità ma con toni decisamente più poetici, si nutre il film italiano in concorso Se consideriamo la colonizzazione culturale compiuta dalla televisione negli ultimi vent'anni allora il film di Pietro Marcello, potrebbe apparire come un'opera fuori dal tempo e a dir poco presuntuosa nella sua evidente diversità. Al contrario, se ragioniamo in termini di investimento culturale, e in questo caso non possiamo non citare l'indispensabilità di Paola Malanga che dopo "L'infinita fabbrica del Duomo" ritroviamo in veste di produttrice, allora "Bella e perduta" diventa qualcosa da conservare con cura e da far vedere al cinema e nelle scuole, per risvegliare le coscienze e per guarire il nostro modo di vedere. Leggi la recensione. (CC)
Concorso internazionale
Cosmos di Andrzej Zulawski
Il giovane Witold (Jonathan Genet) si rifugia in un piccolo paesino per studiare dopo aver fallito degli esami di diritto. Insieme a lui c'è il coetaneo Fuchs (Johan Libéreau), appena licenziatosi da una casa di moda parigina. I due alloggiano in una casa dove assistono a strani eventi e scorgono segni misteriosi: Witold vede subito un passerotto impiccato nel bosco, poi un pezzo di legno, macchie sui muri, rastrelli che indicano dei percorsi geometrici immaginari. Anche la famiglia ospite ha delle peculiarità: la padrona di casa Madame Voytis (Sabine Azéma) è sempre in uno stato emotivo sopra le righe che quando è all'apice la fa cadere in una trance momentanea; il marito Leon (Jean-François Balmer) produce tic verbali ed è soggetto a improvvisi impulsi ossessivo-compulsivi; la giovane domestica Catherette (Clémentine Pons) ha un labbro imperfetto a causa di un incidente e non vuole curarselo; Lena (Victória Guerra), figlia di Madame Voytis, appena sposata a un giovane architetto, è in un continuo stato bipolare, passando da momenti di pianto isterico a stati di euforia provocatrice che proietta su Witold, affascinato dalla sua bellezza. Sono solo alcuni degli elementi del complesso e stratificato film del regista polacco Andrzej Zulawski, che torna al cinema dopo quindici anni dalla sua ultima opera "La fidélité", e presentato in prima mondiale al 68esimo Festival di Locarno. Tratto dall'omonimo ultimo romanzo dello scrittore Witold Gombrowicz. Leggi la recensione. (AP)
Concorso internazionale
Ma dar Behesht (Paradise) di Sina Ataeian Dena
Teheran oggi. Hanieh è una giovane insegnante che lavora presso una scuola dei sobborghi della capitale. Tutte le mattine si deve svegliare all'alba per raggiungere le sua classe e tutte le sere tra mezzi pubblici e taxi torna molto tardi a casa. Depressa e stanca della sua situazione cerca in tutti i modi di far avanzare la pratica del suo trasferimento presso una scuola del centro cittadino. Il giovane regista iraniano gira la sua opera prima (senza il permesso ufficiale da parte della censura del suo paese) scegliendo un punto di vista tutto al femminile e soprattutto sulla violenza subita. L'incipit del resto è programmatico con lo schermo nero e le voce di Hanieh e della funzionaria del ministero con cui sta discutendo del suo trasferimento: il nero del velo con cui la ragazza si deve coprire, il nero come rappresentazione di una violenza sottotraccia, nascosta ma onnipresente. Un altro elemento metonimico è la scomparsa di due ragazzine dalla scuola, forse rapite, che non intaccano l'indolente espressione della protagonista il cui unico scopo è quello di allontanarsi il più possibile da costrizioni per lei mal tollerate. Tutto questo senza però prendere atto di quello che le accade intorno e che il regista mette in quadro attraverso dettagli oppure le poche sequenze dove sono presenti degli uomini. Gioca quindi sull'assenza (maschile, di una violenza solo suggerita), sul fuori campo, sugli sguardo di un terzo esterno che potrebbe essere il motociclista che segue Hanieh nel suo tragitto nel bus e che alla fine del film porta con sé una bambina che ha perduto il bus scolastico. Primo capitolo di una trilogia sulla violenza, "Paradise" ha delle originalità nella sua messa in scena che però non è supportato da una sceneggiatura strutturata per reggere le potenzialità della narrazione, risultando a tratti statico nella interazione tra i personaggi e nello sviluppo della narrazione e un finale tronco che prelude ad altro ma che non è né autoconclusivo né aperto. (AP)
Voto: 6
Piazza Grande
Southpaw - L'ultima sfida di Antoine Fuqua
Non è più novità annoverare Antoine Fuqua tra quegli autori di cui si può pensare tutto e il contrario di tutto. A favore del regista americano gioca l'effetto boomerang provocato dal successo di un film come "Training Day", entrato nella storia del cinema contemporaneo per aver consentito a Denzel Washington di vincere un Oscar (come miglior protagonista) che, a quasi 40 anni dalla storica vittoria di Sidney Poitier (I gigli nel campo, 1963) tornava a premiare un attore di colore. Forte di quel credito e, diciamolo pure, di un risultato finale che si distingueva dalle altre pellicole della sua categoria per l'energia della messinscena e la sfrontatezza dei contenuti, Fuqua non è riuscito a confermare la credibilità conquistata con il film in questione, infilandosi in una serie di progetti di dubbia qualità, e viziati, prima ancora di iniziare a girare, dalla mancanza di una scrittura in grado di giustificarne la produzione Leggi la recensione (CC)
Concorso internazionale
Schneider vs Bax di Alex Wanderdam
Considerato che nel cinema non c'è più nulla di inventare e, che, nel bene e nel male, sullo schermo è passato praticamente di tutto, non si può non rimanere piacevolmente sorpresi quando capita di imbattersi in un film come "Schneider vs Bax" dell'olandese Alex Wanderdam, capace di rinfrescare un genere depresso come la commedia, innestandolo su una struttura apertamente sbilanciata sul versante del thriller. Nel film, girato interamente nel paesaggio lagunare e acquitrinoso della campagna olandese, si racconta di due killer a contratto, che a loro insaputa, e con false informazioni, vengono incaricati di uccidersi a vicenda. A dispetto del compito, le difficoltà di portarlo a termine non derivano dalla corretta applicazione delle strategie criminali, quanto piuttosto dalla presenza di una serie di personaggi (tra questi è possibile annoverare tra gli altri, nonni degeneri, figlie nevrotiche e amanti occasionali) che, per pura casualità, si ritrovano a interferire con le missione omicida dei due rivali. L'efficacia del film deriva soprattutto dalla qualità di una sceneggiatura capace di amalgamare i meccanismi della comicità e dell'ironia con quelli del ritmo e della tensione, e di mantenere alto la sensazione di straniamento prodotta da quel connubio attraverso lo scarto esistente tra la mentalità razionale e metodica dei due hit men e le caotiche improvvisazioni degli altri personaggi. Senza considerare il divertimento conseguente dal contrasto tra il privato di Schneider e Bax, cadenzato su caratteristiche di assoluta routine e quello per così dire pubblico, relativo appunto, alle peculiarità del loro mestiere, e di cui il regista si diverte a cogliere il lato più ironico; come dimostrano i siparietti in cui Schneider risponde amorevolmente alle telefonate della moglie e nel contempo si adopera per eliminare il malcapitato di turno. Certo, non siamo di fronte a novità assolute ("L'onore dei prizzi" di John Houston e "Mr. & Mrs. Smith" della coppia Pitt e Joli avevano già intrapreso questa strada) ma sul piano dei risultati il film di Van Warderman si piazza sicuramente ai primi posti. E, non è certo un caso, se la parte più debole del film sia proprio quella in cui il film rinuncia alla sua formula, organizzando una resa dei conti che si dimentica di prendersi in giro e che in qualche modo attenua l'originalità di quanto abbiamo appena visto. Detto questo il film di Alex Van Wanderdam si segnala per un posto nel palmares finale. (CC)
Voto: 7,5
Fuori Concorso
I sogni del lago salato di Andrea Segre
L'ultima pellicola di Andrea Segre in ordine di tempo, appena presentata la Festival, conferma il buon stato di salute del documentario d'autore italiano. Tra memoir e analisi sociale, il giovane regista compie un viaggio verso il Kazakistan odierno alle prese con il progresso economico, grazie allo sfruttamento dei giacimenti di gas e di petrolio, raccontando con sguardo lucido le contraddizioni di un paese dove il passato convive (sia quello di polo nomade della steppa, sia quello di ex repubblica dell'Unione Sovietica) con la nascita della modernità. Ma la macchina da presa di Segre oltre a muoversi in un territorio fisico effettua un viaggio nel tempo e nella memoria: in un montaggio parallelo, le sequenze della contemporaneità asiatica si uniscono a inserti di scene degli anni 60, tratti da materiale personale (filmini dei suoi genitori e della famiglia) e da documentari (di Giuseppe Ferrara, Giuseppe Bertolucci, dall'archivio dell'ENI) che mostrano il boom economico dell'Italia e in particolare l'arrivo dell'Agip in Sicilia che porta lavoro e speranza a una classe di braccianti a cottimo abituata al lavoro nei campi o nell'edilizia. Il regista quindi parlando di sé e della sua famiglia effettua un confronto tra lo società italiana del passato e quella kazaka del presente alle prese con lo stesso processo socio-economico. Pur intervenendo in monologhi esplicativi con la presenza della voce off, Segre riesce a mantenere il necessario distacco dalla materia narrata portando a termine un lavoro che parla di speranze attese e disillusioni conclamate. (AP)
Voto: 7
Concorso internazionale
A Dark in the White Line di Vimukthi Jayasundara
Di solito capitano quando meno te le aspetti e sono quasi sempre precedute da una scarna conoscenza del loro autore. Stiamo parlando di quei film con cui il festival di Locarno ama prendere in contropiede i suoi frequentatori. Perché nonostante il regista dello Skri Lanka, Vimukthi Jayasundara, non sia proprio un neofita, avendo frequentato con successo i maggiori festival europei (ricordiamo la vittoria della camera d'or al festival di Cannes del 2005), il suo Sulanga Gini Aran, presentato oggi nella terza giornata del concorso ufficiale, non era tra quelli che circolavano nel passaparola degli addetti ai lavori. Leggi recensione. (CC)
Concorso internazionale
Brat Dejan di Bakur Bakuradze
Dopo "James White" la prima giornata del festival continua a parlare di anime nella tempesta. Una tendenza che pur nella sua valenza storico e sociale "Bret Dejan" asseconda, ripercorrendo la tragedia della guerra balcanica attraverso il doloroso privato di un ex generale dell'esercito iugoslavo, condannato per crimini di guerra dai tribunali internazionali e per questo costretto a rifugiarsi presso gli ex compagni d'armi. Raccontata fuori campo per motivi che, di questi tempi, hanno a che fare più con le ristrettezze del budget che con quelli di ordine morale, la guerra di "Bret Dejan" è filtrata dalla figura dolente e spaesata del vecchio comandante che, nelle costrizioni imposte dalla vita raminga e nella mancata vicinanza dei propri cari, avverte i segnali di una fine oramai imminente. Girato con movimenti di macchina ridotti al minimo e caratterizzato da un uso del piano sequenza, volto a restituire il limbo temporale in cui è precipitato il protagonista, il film diretto dal georgiano Bakur Bakuradze, finisce per essere vittima del suo stesso rigore, quando, astenendosi da qualsiasi considerazione, decide di affidare ai silenzi del protagonista il compito di commentare le questioni che mette sul piatto. I quali, se da un lato trasmettono alla storia un sentimento di afflizione corrispondente all'emozione che si prova davanti alla visione dei passaggi più drammatici, dall'altro, nella spenta partecipazione con cui interagiscono con il resto del contesto, falliscono nell'intenzione di aggiungere qualcosa alla cronaca di quel conflitto, arrivando a mettere in discussione la necessità dell'intero progetto. (CC)
Voto: 5
Concorso Cineasti del Presente
Keeper di Guillaume Senez
Maxime e Mélanie si amano con la dolcezza e la passione dell'adolescenza e devono ben presto affrontare insieme una gravidanza imprevista. Maxime è un quindicenne che vive con la madre separata e il fratellino; il padre è un allenatore di una piccola squadra di calcio, dove gioca Maxime, talentuoso portiere, e riesce a ottenere un provino nelle giovanili dello Strasburgo. Mélanie è figlia di ragazza madre e la prospettiva di vere un bambino fanno esplodere tutta la fragilità della sua giovane età. Il debuttante nel lungometraggio regista franco-belga Senez mette in scena con una certa levità e forza i conflitti di queste famiglie scoppiate e la difficoltà stessa di tenere insieme rapporti a qualsiasi età che vada dall'adolescenza (Maxime e Mélanie) alla maturità (i genitori divorziati di Maxime e la madre piena di rancore di Mélanie). Senez è grandemente debitore al cinema dei fratelli Dardenne (e di un certo cinema francese di analisi sociale degli anni 90) e questo è sia un pregio che un limite se si resta troppo legati per stile alle fonti d'ispirazione. La scelta di posizionare la macchina da presa a fianco dei due giovani protagonisti (tra l'altro molto bravi nel tratteggiare i personaggi) e effettuare il pedinamento di Maxime, alla fine risulta un punto di vista della volontà di paternità e del passaggio di una linea d'ombra del ragazzo, al contrario di Mèlanie che non riuscirà a sopportare le pressioni della madre e i suoi dubbi. Un film godibile soprattutto per la freschezza dei giovani protagonisti, ma che rimane un'opera tutto sommato irrisolta, dove si assiste a delle punte di grande tensione emotiva alternate a volte a sequenze dove il tono scade in un facile sentimentalismo (ad esempio, l'abbandono del ritiro da parte del ragazzo, oppure lo scontro per decidere di tenere il bambino tra le due famiglie, o ancora la scena dell'esame ecografico). Senez è un regista talentuoso, ma in "Keeper" è ancora alla ricerca di una voce completamente propria. (AP)
Voto: 6
Signs of Life
L'infinita fabbrica del Duomo di Martina Parenti e Massimo D'Anolfi
Nell'ultimo documentario di Martina Parenti e Massimo D'Anolfi, già autori del pluripremiato "Materia Oscura" presentato alla Berlinale del 2013, l'oggetto/soggetto della loro ricerca estetica è il Duomo di Milano, o meglio della fabbrica nata con l'edificio dal momento della sua ideazione e tutt'ora attiva dopo sette secoli perché il lavoro di costruzione, modifica, manutenzione intorno all'opera del gotico italiano per eccellenza è continuo e infinito. Ma l'aspetto interessante rimane l'assenza dell'edificio: nei settantaquattro minuti di immagini il Duomo per intero non si vede mai, fatta eccezione per una breve inquadratura di alcune cianografie, come a voler mostrare l'impossibilità di messa in quadro, di raccogliere in un unico sguardo il monumento nella sua totalità. E traslando il concetto, l'inefficacia dello strumento visivo rappresenta anche l'incapacità di racchiudere e raccontare il lavoro nel passare del tempo. Leggi la recensione. (AP)
Fuori concorso
Romeo e Giulietta di Massimo Coppola
Deve essere stato per un inconscio senso di colpa, derivato dal successo dei film realizzati per conto di Paolo Sorrentino, o forse, più concretamente, si è trattato della volontà di diversificare una produzione ultimamente dedicata alle sulfuree storie dell'autore Napoletano, fatto sta che la Indigo film di Francesco Cima e Nicola Giuliano si presenta al festival di Locarno con un film "Romeo e Giulietta" di Massimo Coppola, collocato per stile e contenuti agli antipodi di quelli instaurati dall' enciclopedia sorrentiniana. Nel caso specifico si trattava di fare i conti con il capolavoro Shakesperiano, inteso non soltanto nella sua accezione letteraria e immaginifica, ma, alla maniera dei fratelli Taviani de "Cesare non deve morire", scelto sulla base di un'universalità in grado di dialogare con persone di ogni ordine e grado. Nel "Romeo e Giulietta", Coppoliano infatti, la storia d'amore tra gli amanti più celebri della letteratura mondiale è interpretata da un gruppo di giovani Rom, arruolati nel campo nomadi di Tor de Cenci in Roma, chiamato a sostituire in un cortocircuito tra cultura alta e bassa, la Verona del cinquecento. Alla base della nuova rivisitazione, l'idea di un cinema che evita di alzare gli steccati e che invece si apre al mondo circostante, nel tentativo di diventarne parte integrante. In analogia con le caratteristiche della messinscena, realizzata senza distinguere tra campo e fuori campo, e in una commistione tra realtà e finzione, qui assicurata dalla presenza catartica del regista, chiamato, in qualità di mentore dei ragazzi, ad assolvere a quelle funzioni pedagogiche di cui il film, nelle parole dell'autore, diventa promotore. Quello che ne risulta è una sorta di work in progress sull'allestimento della tragedia, in cui scene di vita quotidiana all'interno del campo si alternano al tentativo degli interpreti di entrare nello spirito dei loro personaggi. L'impresa è ardua, sia davanti che dietro la mdp. e le ambizioni di "Romeo e Giulietta" si risolvono in un film che appare più programmatico che sentito. (CC)
Voto: 5
Concorso internazionale
James White di Josh Mond
Nel nostro taccuino figurava tra i film più attesi del concorso. Sulla carta infatti, il percorso al contrario dell'inquieto protagonista, un giovane newyorkese, costretto dalla malattia della madre a prendersi le proprie responsabilità e a interrompere un'esistenza di cupio dissolvi, costituiva di per se motivo di sicuro interesse. D'altronde è dagli anni ottanta, e a partire dai romanzi dei cosiddetti scrittori minimalisti, che la dissoluzione della famiglia americana viene sublimata dalla costante presenza della sofferenza fisica e psicologica. Queste ultime, entrambe presenti in "James White", tanto nel malessere esistenziale del protagonista, derivato dal mancato confronto con il genitore appena defunto, quanto nell'aggiornamento del quadro clinico relativo alla madre del protagonista. Detto che la regia di Josh Mond, con i primi piani al microscopio, gli sfondi fuori fuoco e la fenomenologia del quotidiano, è di quelle che si sposano in pieno con il modello di cinema indipendente promosso dal festival di Robert Redford, dobbiamo dire che la principale debolezza di "James White" è quella di credere che il travaglio emotivo e la disperazione che i protagonisti riversano sullo schermo sia in grado, da sola, di fare la storia del film che, al contrario, privato di un vero e proprio impianto narrativo, rimane a metà strada tra referto medico e romanzo di formazione. In un simile contesto la bontà della performance di Christopher Abbott è in parte sprecata. (CC)
Voto 5,5
Piazza Grande
Perché no
Ricki and The Flash di Jonathan Demme
Il cinema di Jonathan Demme è di quelli che non necessitano di presentazione, per cui, nel raccontare la visione del suo ultimo film e nel cercare di spiegare le ragioni di un giudizio non proprio lusinghiero, utilizzeremo la carriera del regista senza alcuna vena nostalgica e solo in funzione comparativa, nella convinzione che ogni film faccia storia a se. In questo senso il progetto di "Ricki and the Flash" non nasce per caso ma si colloca perfettamente in scia con la filmografia del regista, tanto dal punto di vista della forma, essendo una commedia con venature drammatiche e con personaggi fuori dall'ordinario, che dei contenuti, raccontando di genitori e figli che faticano a stare insieme (Rachel sta per sposarsi) e, nel contempo, attraverso il personaggio della cantante rock, richiamata alle responsabilità di madre dopo anni di assoluta latitanza, agganciando quella passione musicale, a suo tempo celebrata con "Stop Making Sense". La coerenza dell'assunto, non trova però altrettanta rispondenza nei modi della realizzazione, perchè il film, oltre all'incapacità di offrire varianti al tormentone rappresentato dal senso di colpa della protagonista, destinato a oscillare tra voglia di fuga e sentimenti di partecipazione, riesce anche a farsi condizionare dalla personalità della Streep che, dall'alto del suo status, impone alla storia una versione aggiornata della mamma trasgressiva e fuori dalle righe sul tipo da lei offerto in "Mamma mia". Dal canto suo Demme, a differenza del solito, rinuncia a plasmare il personaggio, scegliendo di mettersi al servizio dell'istrionismo della sua star. Quello che ne consegue allora, è il one woman show di un'attrice che, nella volontà di confermarsi, eccede nelle sottolineature fornite al carattere del suo personaggio. Senza considerare che la generosità del minutaggio offerto alle performance musicali dell'attrice - accompagnata per l'occasione dal cantante Rick Springfield - appaiono più un riempitivo che una vera e propria necessità. (CC)
Voto: 5
Perché sì
Ricki and The Flash di Jonathan Demme
In prima mondiale è stato presentato il nuovo film di Jonathan Demme "Ricki and The Flash" che uscirà nei prossimi giorni negli Usa e sarà sugli schermi italiani a partire dal 10 settembre prossimo. Nell'ultimo film di Jonathan Demme ci sono due temi che si intrecciano al centro delle riflessioni del cinema del regista americano: da un parte la musica, dall'altra le dinamiche familiari. In "Dove eravamo rimasti" (titolo italiano del film) abbiamo un ritratto di una donna ribelle (Meryl Streep) che ha rinunciato alla famiglia, all'amore dei figli, pur di rincorrere il sogno di diventare una rockstar. Leggi la recensione. (AP)
Aspettando il Festival
Parlare di un festival prima ancora di averne visto i film è in parte un esercizio di retorica. Chi ne deve scrivere si confronta puntualmente con questo pensiero e ogni volta a prevalere è la voglia di condividere pronostici e considerazioni, nella speranza che ciò che ne viene fuori riesca a farsi strada nella curiosità dei lettori. Tra sensazioni e aspettative la 68esima edizione del festival di Locarno può comunque contare su alcuni punti fermi dei quali non si può non dire. Il primo riguarda gli organizzatori e in particolare Carlo Chatrian, passato in men che non si dica dal lavoro di selezionatore a quello di responsabile dell'intero ambaradan. In questi giorni di vigilia è a lui che tutti guardano, in virtù di una responsabilità che può contare su un'esperienza oramai consolidata dall'apprendistato delle precedenti edizioni e alla quale, di conseguenza, ci si rivolge con occhio esigente e senza più alcuna indulgenza; in bocca al lupo. Il secondo invece, è relativo alle personalità internazionali chiamate a illuminare le giornate del festival con il carisma delle loro rinomate carriere. Considerata l'attesa che si è scatenata attorno alla presenza di figure leggendarie come lo sono quelle di Michael Cimino e Jerry Schatzberg (presente in veste di giurato e omaggiato con la proiezione di "The Scarecrow"), autori di un cinema bello e dimenticato, o di attori bravi e fascinosi come Edward Norton ed Andy Garcia, e senza dimenticarci di Marco Bellocchio, anche lui nella mischia con il premio alla carriera che gli sarà consegnato in occasione della proiezione del suo "I pugni in tasca", non si può fare a meno di considerare come il divismo più o meno conclamato dei personaggi appena citati confermi, se mai ce ne fosse bisogno, come anche un festival rigoroso come quello di Locarno non possa fare a meno del ritorno mediatico assicurato dalla presenza di star di questo calibro.
Venendo al cinema propriamente detto e ai film presenti nel cartellone della sessantotessima edizione, la posizione d'onore spetta al capolavoro di Cimino "Il cacciatore", con una proiezione sullo schermo della Piazza Grande che sa sola vale il viaggio in Svizzera, seguita a breve distanza dal film d'apertura, "Dove eravamo rimasti", che segna il ritorno al cinema di Jonathan Demme, impegnato a dirigere Meryl Streep, qui nella parte di una rockstar decisa a rimettere insieme i fili di un passato famigliare sacrificato alle ragioni del successo. Sempre fuori concorso oltre al nuovo Fuqua che in "Southpaw" sembra fare il verso a Rocky e a Judd Appatow che in "Un disastro di ragazza" si mette a disposizione del talento comico della bionda Amy Schumer, spicca la presenza di Cecile De France, femminista innamorata nella Parigi del 71 in "La bella Saison" di Catherine Corsini. Sul versante dei lungometraggi in gara per il premio finale, il concorso internazionale conferma la filosofia di sempre, mettendo insieme cineasti di fama a registi da scoprire. Tra i primi, la menzione spetta ad Andrzej Zulawski, ex desaparecidos tornato alla regia con una storia d'amore ("Cosmos") ai limiti della follia tratta dallo scrittore polacco Witold Gombrowicz e, subito dopo, al coreano Hong Sang-soo, vecchia conoscenza del festival, che in "Right Now, Wrong Then", continua a raccontare con le forme della commedia gli intrecci tra l'arte e la vita. Dei secondi, in termini d'attesa, si segnala "James White" di Josh Mond, gia passato con successo all'ultimo Sundance con la storia di un ragazzo newyorkese impegnato a riprendere tra le mani la propria vita. Detto che la personale dedicata al grande Sam Peckinpah, oltre a proporre l'intera filmografia del regista americano, permetterà agli appassionati di recuperare i primi lavori, realizzati per la televisione, non ci rimane che parlare della presenza italiana e di Pietro Marcello che con "Bella e perduta", decide di mettersi in gioco lontano dall'Italia con un film che racconta il nostro paese attraverso il viaggio di una strana coppia. Una scelta, quella di sbarcare a Locarno, che la dice lunga sulla personalità del regista casertano e che da sola ci risarcisce almeno in parte dalla latitanza del nostro cinema, rappresentato da una pattuglia di coraggiosi che comprende tra gli altri Massimo Adolfi e Marina Parenti, autori di "L'infinta fabbrica del Duomo", "Pastorale cilentana" di Mario Martone e "I sogni del lago salato" di Andrea Segre a testimonianza dell'attenzione del festival nei confronti di un genere in cui l'Italia riesce ancora a primeggiare.