Atto I: Over the Top
"I call him ‘the necromancer'. But I don't know if he could bring back the dead."
Dal film, il Barone
Recentemente il collega Radin ha biasimato Netflix per non riuscire a valorizzare la presenza di film, in special modo delle sue "produzioni", all'interno del proprio catalogo, laddove prodotti dalla natura frammentaria e diffusa come le serie si giovano del content overload della piattaforma over-the-top e della sua interfaccia letteralmente strabordante di immagini, un flusso continuo di possibilità di fruizione. Sebbene il livello delle produzioni filmiche si possa considerare aumentato dacché la grande N è giunta in Italia, la qualità media (mediocre) dei prodotti marchiati potrebbe forse essere una delle motivazioni per questi apparenti mal posizionamenti, insieme alla scarsa personalità che ne contraddistingue la maggior parte (si veda infatti il discorso che riescono a generare attorno a sé opere carismatiche come "Sulla mia pelle" e "Roma"). Queste riflessioni sono più attuali, dal momento che dal 2 novembre ha fatto la sua comparsa uno dei migliori film nel repertorio Netflix, il revenant "The Other Side of the Wind", per chi scrive forse la più importante pellicola che si sia mai fregiata del logo "Netflix" sulla miniatura (che, come probabilmente già si sa, non indica necessariamente la produzione da parte dell'operatore OTT quanto piuttosto l'acquisizione di tutti i diritti distributivi).
L'idea di una grande azienda informatica e quella di un grande autore cinematografico possono apparire in netta contrapposizione ma considerando la personalità di Welles l'accostamento fra lui e Netflix non appare improbabile, tanto da aver spinto vari critici a certificare la possibilità di una collaborazione fra i due, qualora il cineasta fosse ancora vivo. Ucronie a parte, questo forse un giorno sembrerà meno improbabile di quanto fino a una manciata di anni fa pareva il completamento dell'ultimo film di fiction ("Filming Othello" fu difatti girato in buona parte dopo) di uno dei più importanti registi di sempre. Difatti l'intervento della grande N nell'aprile 2016 con ben 5 milioni di dollari (adibiti anche al documentario "They'll Love Me When I'm Dead") ha sbloccato una impasse decennale e permesso la concretizzazione del progetto perseguito da una vita da Peter Bogdanovich, Joseph McBride e molti altri amici e collaboratori di Orson Welles.
Prima del contributo della over-the-top, e anche di numerosi membri della crew di allora, si era tentata ogni via per assicurare al film un completamento, e uno che non fosse fin troppo parziale e arbitrario come quello del "Don Chisciotte" montato da Jess Franco. Dal crowdfunding su Indiegogo a tentativi di collaborazioni internazionali fra Europa e Usa, il montaggio di quanto lasciato da Welles (40-50 minuti pre-montati e circa il doppio da riorganizzare) è stato complesso e sofferto, così come la disputa legale che ne ha preceduto i lavori. Dopo la morte del regista, il quale aveva abbandonato il lavoro sulla pellicola nel 1979 a causa del venire meno dei fondi iraniani del cognato dello Scià Reza Pahlavi, per almeno un paio di decenni difatti si scontrarono per i diritti sugli incompleti di Welles la figlia Beatrice e la compagna Oja Kodar. La fine della disputa non fu la fine delle polemiche, come si può evincere dalle accuse di presunti plagi che quest'ultima rivolse a Oliver Stone e Clint Eastwood, i quali fra anni 80 e 90 avrebbero visionato, insieme ad altri, i frammenti del film e ve ne sarebbero stati pesantemente influenzati nella realizzazione dei loro più importanti film del periodo (rispettivamente "JFK" e "The Unforgiven").
Tutto ciò riporta "The Other Side of the Wind" all'interno delle tipiche dinamiche produttive del cinema wellesiano, avventuroso e sfortunato dal monumentale esordio fino a oltre la morte. Ritornando all'iniziale questione si può dire che non solo Jake Hannaford, il vulcanico regista al centro della pellicola, è un "negromante", sottraente la vita dei trapassati e in-formantela in nuove apparenze, così come non il solo Welles, sul quale il protagonista impersonato da John Huston è nonostante tutti gli scongiuri basato, ma lo è pure Netflix, il cui catalogo è d'altronde una decontestualizzazione ed eternazione di oggetti audiovisivi di molteplice natura. Come d'altronde è anche l'ultimo film, finalmente resuscitato, di Orson Welles.
Atto II: Verità e menzogne
"Faccio una foto di gruppo coi fantasmi/
Tutti miei amici, svaniti come ectoplasmi/
In un miraggio"
Salmo, "L. Fast & D. Young"
Ricostruzioni filologiche a parte il "The Other Side" della OTT è un film talmente wellesiano da risultare straniante (anzi, perturbante), ponendosi non solo come riverbero di tutte le opere precedentemente girate ma anche come doppio inverso dell'eterna "penultima pellicola" di Welles, "F come falso", con cui condivide la ben poco celata volontà testamentaria. Sebbene il cineasta avesse altri progetti in mente e fosse febbrilmente alla ricerca di fondi per concretizzarli, i suoi ultimi film (comprendendo quindi anche "Filming Othello" e l'incompleto "Filming The Trial", ma in fin dei conti anche "Falstaff") sono tutti accomunati dall'esposizione, mai così franca, del pensiero wellesiano sul cinema, sull'arte e sul mondo e dal medesimo tono malinconico e al contempo profetico. Questo si esprime in una forma ibrida e nervosa, simulante i topoi del cinema d'autore del periodo e del documentario e decostruenteli, esasperando le tendenze che saranno del mockumentary imperversante a partire dalla fine degli anni 90 in quanto araldo di quello che si cominciava a chiamare post-cinema, come a ribadire la perpetua atemporalità del cinema di Welles che lo rende costantemente inattuale e attuale.
"The Other Side of the Wind" si rivela quindi una sorta di doppio oppositivo del più teorico e "documentaristico" "F for Fake", in cui la molteplicità di formati e fonti per la pellicola viene non giustapposta in una continua mise en abyme come avveniva nel film del 1973 ma si compenetra con lo sviluppo (più o meno) lineare del crollo dell'auteur Hannaford, ottenendo così una completa giustificazione narrativa. Come nel predecessore ciò questiona la natura stessa di meta-film dell'opera, in quanto non è ben chiaro cosa sia contenuto in cosa e quale sia il referente principale di ciò che viene mostrato, spunto da cui parte anche la decostruzione del documentario di cui si parlava sopra (divertente a questo proposito il fatto che Netflix abbia prodotto proprio un film del genere per accompagnare il rilascio della pellicola). Ma d'altronde qualcosa di non molto distante accadeva già con l'incipit di "Quarto Potere" (citato anche a livello di costruzione narrativa), a riprova del rifiuto del regista, nonostante la propensione per l'aforisma, per le "soluzioni semplici".
Ultimo tentativo di realizzare qualcosa sull'in fondo amato suolo hollywoodiano, "The Other Side" assume in più di un momento l'aspetto di una visionaria rimpatriata tra amici, appena prima dell'addio, non solo per la presenza di molti conoscenti di Orson Welles e di altrettanti attori che interpretano persone a lui collegate (dalla "Pauline Kael" di Susan Strasberg alla "Marlene Dietrich" di Lilli Palmer), ma anche per il reinnestarsi in una forma nuova di suggestioni che accompagnano il suo cinema fin dagli esordi. Si diceva della malinconia del tono e della rassomiglianza con "F come Falso", conducenti difatti a una sorta di meditazione sulla morte e sullo scorrere del tempo, cosa che pur erano "Citizen Kane" e "The Hearts of Age", accompagnata dalle ingannevoli composizioni jazz di Michel Legrand che già avevano impreziosito il film del '73, sottolineanti l'innegabile modernità stilistica del film di Welles e facendo così intuire la natura solo fantasmatica degli scampoli di cinema classico presenti nella pellicola e rappresentati da John Huston. Il tempo per la classicità è finito e già allora Welles lo sapeva ben come pochi.
Atto III: Cinema's but a walking shadow
"Tuttavia nulla si perde, dacché ciascuna serie non esiste se non nel ritorno delle altre.
Tutto è divenuto simulacro."
Gilles Deleuze, "Differenza e ripetizione"
Risulta sempre peculiare l'utilizzo che Welles fa, nell'ultimissima fase della sua carriera, di numi tutelari dell'arte e della letteratura modern(ist)e come Pablo Picasso o Ernest Hemingway, quest'ultimo uno dei modelli di Jack Hannaford, con cui condivide sia la fama di donnaiolo, che l'attitudine iconoclasta, per non parlare del suicidio conclusivo. Se il grande pittore spagnolo era stato adoperato in "F for Fake" per introdurre la più visionaria e "cubista" delle sequenze del film e il discorso conclusivo sull'impossibilità di scindere tra copia e originale (e la conseguente critica al concetto di arte), lo scrittore statunitense diviene il tramite per negare la narrativizzazione del proprio vissuto e creare quindi un altro doppio di sé, dopo Kane, dopo Arkadin, dopo Quinlan, che si ponga come ulteriore mediazione di sé stesso. Questo è il senso (o meglio, uno dei sensi) della tendenza wellesiana a sdoppiare e poi moltiplicare i soggetti delle sue opere, così come spesso le forme che queste assumono, cui "The Other Side of the Wind" non fa eccezione.
La leggendaria sequenza della casa degli specchi di "The Lady from Shanghai" si riflette infatti nella sequenza della fuga attraverso una città fantasma (un set?) contenuta in "The Other Side of the Wind", la pellicola di Hannaford, girata con uno stile molto affine alla Nouvelle Vague e ancora più ad Antonioni, che fa da doppio, interno, all'omonimo film di Welles. Oltre a questo, vi sarebbero numerosi altri esempi, come la presenza del protagonista della suddetta opera John Dale, oggetto del desiderio del protagonista e difatti fisicamente assente per tutto, seppur "compensato" dalle sue immagini nella pellicola e dalla grottesca massa di manichini raffigurantilo, posta nel giardino della villa del regista. Non è pertanto inopportuno considerare "The Other Side" come il culmine della concezione simulacrale del medium di Orson Welles, reputante il cinema come il mezzo definitivo per l'inganno e il suo disvelamento, per la ripetizione e la differenza, le cui dialettiche sono l'unico mezzo per giungere alla significazione e l'assenza delle quali, quando "niente dev'essere nascosto", per citare Huston nel film, produce forse la morte del cinema.
D'altronde nel medesimo periodo Welles, presentando negli Stati Uniti "F come falso", parlava della percepita senilità del "lento e costoso" cinema, forse il motivo per cui le sue ultime pellicole tentano di opporvisi con un turbine cinetico di formati e immagini di diversa matrice, così come di storie e citazioni, veri e proprio buchi neri supermassivi al termine del cinema. Il tono nonostante tutto funereo di "The Other Side of the Wind" è la concretizzazione di questo pensiero e quindi la malinconia di cui si era accennato in esergo è motivata dalla stessa profeticità del film. Ecco perché questa eccezionale opera postuma risplende così tanto nel catalogo Netflix e rinvigorisce i timori sul futuro del cinema, pur nella glorificazione della sua peculiarità espressiva, mostrato in tutta la sua singolarità e fragilità (i numerosi formati della pellicola, dal Super8 al panoramico, tutti così facili all'ardere). Se "ogni uomo contiene in sé l'intero corso della vicenda umana", "The Other Side" contiene perfettamente la parabola secolare del cinema e Jake Hannaford contiene il triste fato di ogni eroe wellesiano (ma anche del film di cui è protagonista): mostrato circondato da umanità varia fin dall'inizio, come il buco nero di cui sopra si scriveva, quando si trova isolato, come avviene solamente nel finale, è lì che la sua strada giunge alla fine.
Ma l'opera (e il medium) sopravvive alla morte dell'autore e dopo che si son viste le (incredibili) immagini finali del film-nel-film, accompagnate dalla più netta e radicale riflessione sul cinema di Hannaford/Welles, il "Cut" che viene urlato da questi alla fine non è solo un prosaico "stop" ma l'immagine che apre uno squarcio non sigillabile nella percezione dello spettatore e nella storia del medium, una ferita che non può smettere di sanguinare e che ricorda ciò che il cinema sa meglio fare dal 1895.
Ma se d'altronde "la vita di un uomo non si può spiegare con una parola", cosa potrà dire una recensione di un film come questo?
Cut!
cast:
John Huston, Peter Bogdanovich, Susan Strasberg, Oja Kodar, Paul Stewart, Joseph McBride, Dennis Hopper, Lilli Palmer, Robert Random, Cameron Mitchell, Tonio Selwart
regia:
Orson Welles
distribuzione:
Netflix
durata:
122'
produzione:
Americas Film, Conservancy, Les Films de L'Astrophore, Royal Road Entertainment, SACI
sceneggiatura:
Orson Welles, Oja Kodar
fotografia:
Gary Graver
scenografie:
Polly Platt
montaggio:
Bob Murawski, Orson Welles
costumi:
Vincent Marich
musiche:
Michel Legrand