Risulta sempre più difficile orientarsi all'interno delle piattaforme di streaming online. Non tanto per quanto riguarda le serie-tv, che costituiscono la maggiore attrazione di tali piattaforme e che hanno un pubblico affezionato che le segue con costanza: la scelta su cosa guardare si fa piuttosto difficile per i film originali, che rischiano di perdersi all'interno di un calderone dove tutto è mescolato (e dove spesso la qualità è bassa). E tuttavia la loro centralità nel dibattito cinematografico contemporaneo - si pensi ad alcuni festival importanti, come quello di Venezia, che si sono finalmente aperti a queste realtà, fino al punto di assegnare il premio più ambito a
film distribuiti in Italia proprio da Netflix - fa sì che la critica non possa più permettersi di ignorarne i contenuti. D'altra parte, se è vero che, in media, la qualità di questi prodotti non è altissima e che in genere sembrano realizzati seguendo canoni narrativi e stilemi sempre uguali, non sono pochi i casi di film notevoli che (anche se talvolta non direttamente prodotti dal colosso dello streaming americano) abbiamo potuto vedere nello Stivale proprio grazie a Netflix (per citarne alcuni: "
Nocturama", "
Annientamento", "
Into the Inferno" o più recentemente "
Sulla mia pelle", "
Rimetti a noi i nostri debiti").
Ed è il genere horror che, tra tutti, sembra andare per la maggiore a livello di quantità di film prodotti e, tra questi, uno degli ultimi lavori è proprio "Apostolo" di Gareth Evans, che dopo i due capitoli di "
The Raid", dirige una sorta di folk-horror a metà tra il thriller e il soprannaturale.
Il film - che racconta la vicenda di Thomas: inglese benestante avventuratosi all'interno di una setta religiosa pagana con il fine di liberare la sorella rapita e ritrovatosi ad affrontare eventi ed entità più grandi e potenti di lui - si rifà direttamente ad alcuni classici del genere: "The Wicker Man" di Hardy è il richiamo più evidente, ma non mancano echi al "
The Village" di
Shyamalan e a tutta quella tradizione narrativa che assume come proprio soggetto il bigottismo, l'utilizzo della superstizione come strumento del potere, la forza e il pericolo dell'ideologia che si ritrovano in ogni comunità chiusa (e, di rimando, nella stessa America, nata in seno al puritanesimo). La ferrea disciplina e l'obbedienza assoluta ai tre "padri pellegrini" fondatori della comunità (esuli inglesi allontanati dalla madrepatria per eresia e insubordinazione alla Corona) sono qui scandite dal culto e dai sacrifici alla Divinità e la capacità di dialogare con essa costituisce il fondamento per un esercizio del potere incondizionato.
Ma a rendere originale e interessante la costruzione narrativa di "Apostolo" è l'inversione di rotta che Evans mette in gioco rispetto alla tradizione che lo precede. Se in "The Village" ad esempio, lo spettatore era condotto verso una sempre maggiore razionalizzazione della paura, con tanto di colpo di scena finale, qui il cammino è inverso: da un'iniziale spiegazione razionale dei fatti, che inserisce la comunità dell'apostolo Malcolm nell'alveo di un fondamentalismo religioso finalizzato al controllo politico, si vira a un certo punto verso l'elemento sovrannaturale, che prende sempre più piede nella seconda parte del film (così era stato anche ne "Il rituale": altro horror dal sapore lovecraftiano, prodotto e distribuito da Netflix). Al venir meno dell'elemento razionale corrisponde un crescendo del
gore e del sangue, che sancisce il passaggio dell'opera dal thriller ad alta tensione all'horror vero e proprio. In questa cornice generale, che costituisce la prima linea narrativa del film, Evans inserisce anche un siparietto amoroso, che non sarà altro che il pretesto per arrivare al
plot-twist politico, con lo scontro tra il profeta Malcolm e il suo braccio destro Quinn, che corrisponde al conflitto tra due diverse visioni del potere e che si accavalla con la svolta soprannaturale, in uno spannung narrativo che però finisce per mettere troppa carne al fuoco, creando una certa confusione nello spettatore.
Oltre alla malcurata evoluzione dei personaggi, che rimangono piuttosto appiattiti in sé stessi (fatta eccezione per il profeta interpretato da Michael Sheen), il problema principale del film sta nel senso di smarrimento generale e nella vaghezza delle conclusioni, che non forniscono una spiegazione di alcuni fatti centrali della vicenda narrata e che causano una certa perplessità nel pubblico, chiamato a colmare da sé, con ipotesi più o meno plausibili, i buchi lasciati dalla sceneggiatura. È questo un problema non facile da ignorare e che finisce per inficiare un soggetto che pur aveva una certa originalità e che poteva rappresentare un apporto più che positivo nell'orizzonte dello streaming digitale, nel quale è sempre più difficile (anche per la mancanza di una critica adeguata) opzionare il film giusto.