Denis Villeneuve è regista di sguardi e di spazi e tali peculiarità hanno accompagnato con coerenza e costanza il suo percorso artistico. Chi lo segue da molti anni non avrà dimenticato le geometrie del politecnico di Montreal, tra le cui mura si svolse la strage raccontata da "Polytechnique" (2009), né gli occhi carichi di paura dei suoi giovani protagonisti; e l'approdo a Hollywood, nonostante la convenzionalità di plot e tempistiche, non ha scalfito la passione per uno sguardo che mappa lo spazio al fine di sagomare l'interiorità dei personaggi, qualità della sua scrittura filmica che si evince anche in "Prisoners" (2013), con le sue cantine, le sue stanze segrete pregne di presagi di orrore e di morte. "Arrival" è il terzo lavoro hollywoodiano, il primo ascrivibile al genere della fantascienza della sua carriera e, uscendo prima del sequel di "Blade Runner", è stato facilmente descritto come una prova generale nella categoria prima di un progetto parimenti ambito e rischioso. "Arrival" è, però, una pellicola di fantascienza dall'impianto minimalista e dai costi produttivi contenuti (50 milioni di dollari), pertanto, appare quasi come un oggetto filmico maggiormente personale, vicino alle ossessioni di Villeneuve, così come lo era stato "Enemy", arthouse movie invisibile in Italia, girato poco prima di "Prisoners", sempre con Jack Gyllenhall protagonista.
Nel prologo, la voce fuori campo di Louise Banks (una Amy Adams al massimo della forma) sembra voler raccontare a sua figlia come tutto ebbe inizio: con un montaggio e una regia che rimandano a moduli estetici di chiara marca malickiana, Villeneuve realizza un micro-film che ci apre il cuore di questa donna, straziato dall'amore per una figlia che ha partorito, che ha cresciuto e che ha visto morire a causa di una letale malattia.
Dopodiché, arrivano "loro". L'atterraggio non è per una volta unico e su suolo americano, bensì multiplo: dodici Ufo dislocati tra i cinque continenti senza apparente razionalità giungono quasi in contemporanea a scombussolare la tranquillità terrestre.
Le navicelle sono di forma ovulare (ben presto soprannominati "gusci") e la loro posizione sospesa tra cielo e terra, in un paesaggio bucolico (almeno nella collocazione americana), non può che ricordare uno dei quadri della serie "La voce dei venti" di René Magritte, che dipingeva tre enormi sonagli come fossero navicelle venute da un altro mondo. È la sospensione metafisica a essere l'elemento più perturbante perché si presuppone che dai gusci, così come le sfere magrittiane, dovrebbe scaturire qualcosa, fossero anche i soliti, pacchiani raggi laser. E invece nulla accade, mentre l'isteria collettiva incalza.
La donna è una docente universitaria e la vediamo tenere un corso sul portoghese e sulle lingue romanze davanti a un parco e distratto uditorio; il giorno dopo l'atterraggio, in un'università deserta, viene assoldata dal colonnello Weber per farsi interprete del linguaggio alieno, perché nel recente passato aveva collaborato col governo traducendo un dialogo audio in lingua farsi. Dopo pochi minuti, gli ingranaggi di una sceneggiatura non perfettamente oliata iniziano a stridere: se la cinematografia statunitense nella sua declinazione più smaccatamente hollywoodiana ci ha abituati a spiegazioni frettolose, dialoghi esplicativi e didascalici per non far perdere lo spettatore in possibili tecnicismi o passaggi elevati, in "Arrival" si segnalano sequenze che rasentano l'auto-parodia. Perché non può non far sorridere lo sguardo fisso e serissimo con cui il colonnello di Forest Whitaker attende una risposta dalla professoressa, dopo averle chiesto a bruciapelo cosa venisse detto in quella serie di versi e suoni che, da "Alien" al serial "Stranger Things", si susseguono indistinguibili per rappresentare l'espressione vocale extraterrestre. Ci rendiamo conto, altresì, che la semplificazione fa parte del cinema e, in particolare, di quello fabbricato a Hollywood, ma da un'opera con una simile impostazione e nemmeno troppo velate ambizioni, è lecito attendersi un trattamento che lavori più di cesello, visto che non tutto può coprire la perizia visiva del regista.
Non possono essere solo casualità e bisogna mettere in conto che la sceneggiatura di Eric Heisserer, tratta da un racconto pluripremiato di Ted Chiang, "The Story of Your Life", scricchioli e ceda laddove una più forte tenuta avrebbe consentito al film un impatto più potente e una riuscita totale. Si possono rubricare allo stesso macro-problema anche i botta-e-risposta for dummies su linguistica vs. fisica (cioè l'eterna lotta tra umanisti e scienziati, come se la cultura ragionasse per blocchi contrapposti) della Banks e del fisico Ian Donnelly (Jeremy Renner); le pressanti richieste di Weber e di un agente della Cia che devono sapere "perché loro sono qui"; le soluzioni drammaturgiche da blockbuster (con la concitata telefonata che salva il mondo da una guerra inter-galattica); i personaggi che per un frangente appaiono come villain (prima di redimersi) che, ancor più delle ottuse forze governative che sembrano non comprendere gli sforzi e i traguardi raggiunti dagli studiosi, rappresentano gli avversari in campo internazionale dell'America, con la Cina in prima fila.
"Arrival" si sostiene grazie all'intelligenza e all'originalità dell'assunto di fondo, che vorrebbe ripensare quelli che sono i pilastri della civiltà e dell'evoluzione umana insieme al filo conduttore che ci rende appartenenti alla stessa specie; sul piano del genere sembra ingaggiare un dialogo a distanza col colossale "Interstellar" di Christopher Nolan, il titolo che gli si avvicina più di ogni altro nel cinema recente, almeno nell'uso profondo e umanista dei codici della fantascienza. L'arrivo degli alieni e il motivo del loro arrivo rappresentano il mistero che informa lo sviluppo narrativo e il cui lento dipanarsi chiarirà alcuni dettagli, come i flashback che, inizialmente, potevano risultare ridondanti e sfruttati per aumentare la temperatura emotiva del film, anche grazie ai violini di uno Jóhann Jóhannsson in odore di "Schindler's list". Come "Interstellar", anche "Arrival" porta alle estreme conseguenze una teoria scientifica, trattando l'ipotesi Sapir-Whorf che riguarda il rapporto relativo la lingua parlata e la percezione della realtà di chi la parla. L'idea alla base di "Arrival" si connette all'interesse di Villeneuve nell'effettuare uno scandaglio dell'anima della sua eroina, il cui sguardo è smarrito tra il presente che sta vivendo e i frammenti di passato che le affollano la testa, forse sensi di colpa, forse geniali intuizioni o forse qualcos'altro che il racconto svelerà più tardi.
Dicevamo come l'autore canadese sia un regista di spazi e qui il fascino risiede nel filmare, nell'immaginare il luogo del primo contatto, l'esterno/interno del guscio alieno e questa stanza separata da una barriera dai cui fumi lattiginosi si mostrano gli eptapodi, la razza aliena che è venuta a visitarci e la cui lingua scritta è costituita da simboli circolari semasiografici schizzati come inchiostro nell'aria e che la Banks sarà costretta a decodificare (con singolare rapidità, non avendo alcuno strumento di confronto). Un linguaggio da decriptare per scoprire qualcosa di nuovo in noi stessi, simboli il cui significato, consistendo in un significante circolare, non finisce ma continua in una visione della realtà ubiqua, in cui vita e morte sono caratteri inscindibili.
La maggiore suggestione cinefila è data da quello schermo abbagliante assimilabile a uno schermo cinematografico, così come la mano che appoggia la Banks, in attesa della reazione dell'extraterrestre, rima con una delle immagini-simbolo del bergmaniano "Persona". Il regista riesce a corporeizzare lo spaesamento che si prova di fronte a un qualcosa che fino a un momento prima sembrava inimmaginabile e che, invece, si staglia maestoso davanti a noi, ed è da questo versante, quella del genuino sense of wonder spielberghiano (e che almeno nella prima parte innervava anche la super-produzione di Nolan), che il lavoro di Villeneuve trae il suo punto di forza. E questo squilibrato, imperfetto esperimento di fantascienza è probabilmente l'opera americana più sentita del suo autore, soprattutto se confrontata ai ben più quadrati ma forse inerti thriller che l'hanno preceduto.
L'ottavo lungometraggio del regista canadese, combinando riflessione umanista e filosofica, si focalizza su due punti solo apparentemente lontani: la comunicazione tra specie diverse e l'amore nella sua declinazione filiale. Se le suddette e fin troppo sbrigative definizioni vi fanno venire in mente il melodramma esploso di "Incendies" (2010), non state errando perché, per certi versi, è il film di Villeneuve che più si avvicina al cuore pulsante di "Arrival". E perché anch'esso ha come twist un'agnizione profonda che ricalibra la percezione della realtà, degli affetti e dell'esistenza, che forse vale più la pena vivere che tentare di cambiare.
cast:
Jeremy Renner, Forest Whitaker, Michael Stuhlbarg, Amy Adams
regia:
Denis Villeneuve
distribuzione:
Paramount Pictures
durata:
116'
produzione:
FilmNation Entertainment, 21 Laps Entertainment, Lava Bear Films
sceneggiatura:
Eric Heisserer
fotografia:
Bradford Young
montaggio:
Joe Walker
musiche:
Jóhann Jóhannsson