"L'universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone di un numero indefinito,
e forse infinito, di gallerie esagonali. Da qualsiasi esagono
si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente.
Come tutti gli uomini della Biblioteca, in gioventù io ho viaggiato;
ho peregrinato in cerca di un libro, forse del catalogo dei cataloghi;
ora che i miei occhi quasi non possono decifrare ciò che scrivo,
mi preparo a morire a poche leghe dall'esagono in cui nacqui."
(J.L. Borges, La biblioteca di Babele)
(M.C. Escher,
Incontro)
"Ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato del film. Io ho tentato di rappresentare un'esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell'inconscio" (S. Kubrick).
Sottraendo il film a interpretazioni immediate - aprendolo quindi a infinite interpretazioni - Kubrick ci lascia soli di fronte al monolito, un significante privo di significato (1). Ci fa sperimentare la sete della comprensione, assieme all'impossibilità di oltrepassare i limiti della comprensione. Durante la visione siamo in assenza di gravità, presi dalla vertigine, rapiti dal fascino di immagini, suoni e musiche di un film quasi privo di dialoghi. "Le scene più forti, quelle di cui ci si ricorda, non sono mai scene in cui delle persone si parlano, ma quasi sempre scene di musica e immagini": in nessun altro film Kubrick è stato tanto fedele a questo suo assunto quanto in "2001: Odissea nello spazio".
Odissea
"ma misi me per l'alto mare aperto"
(Dante, Inferno, XXVI Canto)
Il titolo del film di Kubrick assume l'archetipo primo della narrativa occidentale. Il viaggio per eccellenza, alla scoperta dell'universo; la tentazione dell'immortalità (Calipso); infine il ritorno, la scelta dell'umano. Così è in Omero; per Dante, invece, Ulisse varca le colonne d'Ercole, diretto oltre l'infinito; pecca di superbia sfidando i limiti posti all'uomo da Dio. E' la colpa di Adamo, il peccato originale, connaturato all'uomo dacché l'uomo è autocosciente.
Il destino di Ulisse, dell'uomo, è intravedere l'infinito, proiettarsi in esso, per riconoscere poi che l'infinito appartiene a una dimensione altra, divina. "Direi che il concetto di Dio è l'essenza di 2001", si spinse a dire Kubrick, alludendo non a un dio tradizionale, antropomorfo, ma alla possibilità che, tra miliardi di pianeti in miliardi di galassie, una civiltà aliena potesse aver raggiunto un grado di evoluzione tale da apparire, ai nostri occhi, prossima alla divinità. "Non si può desiderare l'eternità perché essa non fa parte del nostro destino. Un destino imperfetto, effimero e deludente, ma l'unico che dobbiamo amare, a cui dobbiamo sempre tornare, e la storia di Ulisse è la storia di questo ritorno" (E. Carrère) (2).
Come nelle opere di M.C. Escher o di J.L. Borges, Kubrick cerca l'infinito nel finito. Più si indaga, più il senso ultimo, quello fondante, definitivo, sfugge. Il senso è dato dal segno, dal linguaggio: e il linguaggio, il
logos, è opera dell'uomo, non di un dio. Al contrario di quanto postula il Vangelo di Giovanni ("In principio era il
logos, e il
logos era presso Dio, e il
logos era Dio"), nessun senso può essere formulato che non provenga da chi lo formula: che non sia, perciò, soggettivo. "Esaltati all'idea di potere ‘comprendere' il mondo attraverso la scienza e di spiegarne le leggi, non ci rassegniamo all'idea che il linguaggio e il significato non esistano al di fuori di noi stessi e non siano altro che una pittura con cui coloriamo il mondo"
(3).
L'Odissea di Kubrick dialoga con Borges e con Escher in allegorie che hanno assimilato da tempo il tramonto delle illusioni razionaliste e la crisi del positivismo ottocentesco; non ne sono più annichilite. In "2001: Odissea nello spazio" si respira piuttosto una positività figlia degli anni '60, anni di conquiste tecnologiche quanto di fermenti sociali. La consapevolezza che l'uomo può decretare la propria distruzione (l'olocausto nucleare, oggetto del precedente film di Kubrick, "
Dottor Stranamore") convive con l'entusiasmo che accompagna la vigilia dello sbarco sulla luna.
Kubrick mette in scena il fascino esaltante della ricerca, la suggestione della meraviglia e del meraviglioso, che la creazione artistica è in grado di restituire, diversamente dalla speculazione filosofica. Non ci rassegniamo all'intangibilità del senso: e pur destinati a breve vicenda, aspiriamo all'infinito. (Una delle possibili chiavi di lettura del finale di "2001" è questa: al di là dell'esistenza individuale, nella ripetitività delle generazioni l'uomo si approssima all'infinito, trascendendo la propria finitezza).
Nel suo essere congiuntamente, inestricabilmente "pessimista" e "ottimista", "2001" denuncia i limiti di una dicotomia che è estranea alle civiltà orientali, alle quali appartiene una concezione ciclica del tempo (e il cerchio è figura chiave del film di Kubrick). Viceversa in occidente abbiamo sempre avuto una concezione lineare del tempo, tendente a un fine, che dev'essere perciò necessariamente positivo o negativo. Kubrick, al contrario, detestava nel racconto cinematografico classico l'"illusorio e 'disonesto' orientarsi verso una fine da compiersi" (4).
Stacchi di montaggio
L'Odissea novecentesca di Kubrick è, come quella di Joyce, un'Odissea modernista, destrutturata. Nel montaggio le dissolvenze sono rare, prevalgono i raccordi scoperti, spesso cut-cut (stacchi secchi visivi e sonori insieme) con accentuazione dei contrasti (silenzio/rumore; buio/luce). Nel procedere per epifanie e scarti improvvisi sta l'anti-classicità di Kubrick, la sua avversione per il romance, il romanzo ottocentesco che nasce con il romanticismo.
A partire dal celeberrimo stacco sull'osso che "diventa" astronave con un'ellissi di milioni di anni, sino al finale in cui a David moribondo si sostituisce un feto, "2001" è film che osa attraverso il montaggio. Come il montaggio, anche la struttura di "2001" è s-composta da scarti improvvisi. Di questi scarti è figura principe il monolito: qualcosa che un istante prima non c'era, che all'improvviso c'è. Proprio come in uno stacco di montaggio. E la comparsa del monolito prelude a una sorta di evoluzione jump-cut, un passaggio improvviso al di là di ciò che era ordinato. Scompagina ogni programma.
Attorno al monolito, i simboli si addensano come attorno a un archetipo junghiano (quale il monolito appare, per ammissione dello stesso Kubrick). Con la sua forma fallica indica forza, si pone come oggetto di adorazione. E' totem, menhir. Ma anche stele funeraria.
La morte è commutazione immediata. La coscienza c'era, improvvisamente non c'è più. Senza un lamento muoiono i membri ibernati dell'equipaggio, uccisi da Hal. Ad avvertirci dell'evento solo i monitor su cui leggiamo "life functions terminated", mentre loro rimangono impassibili, nella "divina indifferenza" dell'universo. Nient'altro che uno stacco di montaggio. Si va avanti.
Come la morte, anche l'intuizione è commutazione immediata. Così si accende la scintilla nel cervello dell'ominide che studia le ossa del tapiro per farne strumento di guerra. L'enfasi trionfante dell'intuizione, sottolineata dalle note ascendenti di "Così parlò Zarathustra", è esaltata da Kubrick sempre attraverso il montaggio: l'ominide apprende l'uso dell'osso come arma, e in montaggio alternato vediamo quello che intende farne. Qui il montaggio serve a entrare nella mente dell'ominide: a restituire la capacità - letterale - di "immaginare". Dalla capacità di immaginare alla nascita della scienza (e alle astronavi), il passaggio è chiaro e immediato. Sì, per Kubrick la civiltà umana si accompagna alla violenza: ma qui Kubrick non ci sta dicendo che il progresso umano si fonda sulla violenza. Ci sta dicendo piuttosto che il progresso è fondato sulla capacità di immaginare. La prevaricazione - la violenza - c'è già in natura, ed è collaterale. Con quell'osso non nasce la violenza: nasce l'immaginazione.
L'osso lanciato al cielo inizia a ricadere per gravità, ma Kubrick stacca sull'astronave che fluttua senza peso, ci priva della visione dell'osso che ricade a terra. La sensazione è che l'osso non sia mai caduto, sia rimasto a librarsi nell'aria. L'improvvisa assenza di peso è il vero segno dell'evoluzione: si prova davvero una sensazione esaltante di trionfo. D'altra parte, al raggiungimento di un'armonia senza peso si è accompagnato un rammollimento (vedremo di lì a poco il braccio fluttuante di Floyd addormentato). Come tutto, in "2001", la lettura è doppia e ambivalente. E come tutto, in Kubrick, nulla si sottrae alla circolarità: alla fine, infatti, la gravità tornerà brutalmente, con quel bicchiere di cristallo che va in pezzi cadendo.
Nell'immediato, tuttavia, quell'osso che non cadrà mai è come un bambino che si regge in piedi per la prima volta. L'uomo ha imparato a volare. Vola nello spazio cosmico. E' il trionfo di Icaro. Viene in mente un famoso aforisma di Kubrick: "non sono sicuro che il significato del mito di Icaro sia ‘non tentare di volare troppo in alto' come inteso in genere, e mi chiedo se non si possa interpretarlo invece in modo diverso: ‘dimentica la cera e le piume, costruisci ali più solide'".
Come la campata di un arco, o la parabola di una freccia scagliata in cielo, all'ascesa corrisponde fatalmente la caduta. Il cognome di David, protagonista dell'ultima parte del film, è Bowman: significa sia arciere (come archer), sia uomo-arco. Decidendo di disattivare Hal, David (il cui nome rimanda anche al Davide biblico che sconfisse Golia) scaglia una freccia oltre l'infinito, scommette sull'ignoto totale. Rompe la gabbia in cui Hal l'ha costretto. Alla fine della parabola si ritroverà in un ambiente familiare, la stanza rococò, una specie di Itaca (una gabbia da dove, stavolta, non può più uscire), ma intanto spezza il cerchio per la linea, si lancia oltre le colonne d'Ercole.
Eterni ritorni e ascensioni musicali
Pur costruito da improvvisi balzi in avanti, il film riporta continuamente alla figura del cerchio. Come nel nastro di Moebius, come nelle incisioni di Escher, si torna sempre al punto di partenza. Come negli esercizi di jogging di Frank Poole sul Discovery: procede in linea retta, ma torna sempre su se stesso. Consideriamo però le differenze fra Frank e David. Frank occupa il tempo in attività ripetitive (appunto la corsa) oppure gioca a scacchi (e perde) con Hal. David ha un temperamento più creativo: si diletta a disegnare e, a parere di Hal, opera dei miglioramenti. Il cerchio di Frank potrebbe per David essere una spirale, che nella sua evoluzione torna su di sé, ma progredendo
(5).
Possono far pensare a una spirale anche le scelte musicali più ardite. Tre brani, tra loro diversissimi, condividono un movimento ascendente: il valzer "Sul bel Danubio blu" di Johann Strauss (nella versione morbida e sontuosa di Herbert von Karajan), l'introduzione del "Così parlò Zarathustra" di Richard Strauss, e il "Requiem per soprano, mezzosoprano, cori misti e orchestra" di György Ligeti. Il valzer che si ascolta sulle prime sequenze spaziali accompagna la "danza" dei satelliti e della navicella PanAm (suggerendo un'apparente condizione di perfetta armonia raggiunta dall'uomo), e scandisce la sincronizzazione fra la navicella appuntita e la stazione orbitante, che culmina nella penetrazione "sessuale" della prima nell'altra. Nella successiva ripresa del valzer (sul volo di Floyd verso la luna), il tema musicale si conclude in un tripudio orgasmico, con l'ingresso della navicella, come spermatozoo in un ovulo, nelle viscere della stazione lunare che si apre ad accoglierla.
Il brano di Richard Strauss ispirato a Nietzsche, così come il requiem di Ligeti, sono i
leitmotiv del film, legati il primo alle congiunzioni astrali e ai balzi in avanti dell'evoluzione, il secondo alle apparizioni del monolito.
Questi tre brani hanno in comune una "costruzione in innalzamento, sviluppo e crescendo"
(6) verso note e accordi acuti, che procede attraverso ripetizioni delle stesse frasi su ottave via via più alte, dando precisamente la sensazione di una spirale che s'innalza su se stessa.
A parte questa analogia, i brani - osserva M. Chion - si "ignorano" tra loro, come tutta la
colonna sonora, il che contribuisce alla discontinuità del film. La partitura commissionata e poi rifiutata ad Alex North avrebbe, al contrario, collegato le parti in un ordito omogeneo. Tutto nel film fu lasciato aperto sino alla fine: anzi, proprio le caratteristiche principi di "2001" (non offrire chiavi di lettura, non verbalità e scelte musicali) sono frutto di decisioni prese in fase avanzata di realizzazione (il film avrebbe dovuto essere preceduto da un prologo documentario sulle possibilità di vita extraterrestre - effettivamente realizzato - composto da interviste scientifiche, e avrebbe dovuto possedere un commento extradiegetico, oltre alla colonna sonora di Alex North)
(7).
Sin dalla musica, la "missione Giove" si apre all'insegna della discontinuità. Prima di lasciare spazio solo a rumori, parole e silenzio, la sequenza in cui Frank fa jogging è accompagnata dall'Adagio del "Gayaneh" di Aram Khačaturjan: un brano in minore, la cui struggente malinconia infonde il senso di nostalgia che si proverebbe dopo l'addio definitivo alla propria terra. Non potrebbe essere introdotta meglio la claustrofobica solitudine del Discovery, che si è lasciato alle spalle la Terra e si allontana perdutamente nel vuoto siderale. Non c'è qui più alcuna ascensione. L'Adagio impone subito lo scarto con i voli precedenti: quello diretto verso l'ignoto è un viaggio di solitudine e abbandono. Le comunicazioni con la Terra sono affidate a monologhi video (gli auguri di compleanno a Frank dei genitori): non sono più dialoghi com'era la videotelefonata di Floyd alla figlia. Persino gli scambi fra David e Frank sono ridotti al minimo. L'atmosfera è funebre: e il Discovery, con quelle specie di sepolcri, somiglia da subito alla necropoli che diventerà.
Controcampi
"2001" non fa ricorso praticamente mai al campo/controcampo classico. Sul Discovery, alcuni controcampi molto particolari avvengono con Hal. Non possedendo corporeità, quello di Hal è un perturbante controcampo/soggettiva in fish-eye. Hal, col suo occhio solo, è il Polifemo dell'Odissea di Kubrick, ma in effetti gli occhi di Hal sono molteplici, sparsi ovunque. Hal è un panopticon: vede tutto, nulla può sfuggirgli. Il tema della macchina che si ribella al creatore (l'archetipo di Frankenstein) si presta bene alla poetica di Kubrick, dove è messa sotto scacco l'illusione dell'ingegno di controllare tutto (quindi anche il prodotto della propria creazione). Ma anche Hal (cui agli scacchi è facile muovere scacco matto a Frank) è messo sotto scacco dalla propria emotività ed ambizione, causa prima della sua sconfitta. Gli uomini del 2001 - freddi, cortesi e diplomatici (la recitazione è piatta e impalpabile) - sembrano aver appreso a tenere a freno la propria emotività, ma non hanno rinunciato alla doppiezza, e l'orgoglio di Hal discende dal ritenersi superiore alle menzogne, alla segretezza, alle contraddizioni umane. Pensa di poter agire meglio: forse, di essere uno stadio superiore dell'evoluzione. Ma a ripetersi è solamente la superbia di Ulisse/Adamo. Hal è sconfitto da David con una mossa d'azzardo, in cui rischia la vita (l'uscita dalla capsula senza casco protettivo): un'ipotesi non contemplata probabilmente da un computer.
La sequenza finale, ambientata nella stanza settecentesca "rococò" (o "régence"), è caratterizzata dall'uso più innovativo del controcampo mai concepito. Assistiamo allo svolgersi della vita di David sino alla sua estrema vecchiezza attraverso gli sguardi di un David più giovane che scopre un sé più anziano, e, nei controcampi successivi, scompare. Attraverso il semplice raccordo di campi e controcampi, il montaggio effettua salti temporali abissali pur nell'apparente unità di tempo e luogo. David è accompagnato dalla sensazione che vi sia qualcun altro oltre a lui (si alza da tavola per andare a scrutare nel bagno; gli pare di aver sentito qualcosa, ma si trattava del sé passato, che si è volatilizzato), una sensazione accentuata dai rumori riverberati che accompagnano la sequenza (l'informale "Adventures" di Ligeti opportunamente alterata). Non vi sono presenze invisibili che osservano David: in effetti, la presenza invisibile non è che lo stesso David. Questa sequenza traduce in termini cronologici la paradossale continuità di mondi dentro altri mondi tipica delle incisioni di Escher
(8).
La stanza "rococò" è per David una gabbia, non solo perché spazio chiuso senza uscite, ma anche in senso temporale. E siccome David sembra vivere in quella stanza tutta la sua restante esistenza, la gabbia è l'esistenza. Un'esistenza ripetitiva, dominata dalla circolarità, che allude all'ottundente ripetitività del quotidiano. La ricomparsa del monolito spezza, finalmente, la ciclicità: e una volta commutato David morente in feto, il ritorno della linearità è prepotentemente imposto dall'austero movimento di macchina in avanti verso il monolito, una semi-soggettiva di quel feto. Un movimento di macchina che sembra indicare una via d'uscita. In effetti, si torna nello spazio siderale, dove il film si chiude sull'immagine enigmatica del feto astrale. C'è stata una rinascita in forma superiore? E' ancora David o un suo "figlio"? Sicuramente è un uomo. Quel feto siamo noi.
"Alla nostra perpetua tentazione di proiettare, il film porge uno specchio. In questo specchio vediamo noi stessi fabbricare perdutamente un'intenzione e un senso, incapaci di sopportare che le cose siano solo ciò che esse sono" (9).
"
La cosa più spaventosa riguardo l'universo non è che esso sia ostile, ma che sia indifferente. Se riusciamo a venire a patti con questa indifferenza
e ad accettare le difficoltà della vita entro i limiti della morte,
allora la nostra esistenza come specie può avere un senso e un compimento.
Per quanto vaste siano le tenebre,
dobbiamo riempirle con la nostra luce."
"In un universo infinito ed eterno tutto è possibile, ed è improbabile che riusciamo anche solo a scalfire la superficie della gamma completa delle possibilità".
(S. Kubrick)
(1) La definizione è di E. Ghezzi (dal "Castoro" su Stanley Kubrick).
(2) E. Carrère, Il Regno, Adelphi, p. 202.
(3) M. Chion, Un'Odissea del cinema. Il '2001' di Kubrick, Lindau, 2000, p. 204 (anche in: M. Chion, Stanley Kubrick. L'uomano, né più né meno, Lindau).
(4) E. Ghezzi, Stanley Kubrick, Castoro (edizione 1995), p. 91.
(5) L'idea di evoluzione, in "2001" somiglia a una spirale: lo suggeriscono anche dettagli secondari come la figlia di Floyd che desidera per compleanno una scimmietta: è palese l'allusione all'evoluzione intercorsa da quando gli uomini erano ominidi. Nel 2001 l'istinto di dominio risulta del tutto assimilato nell'innocenza di una bambina.
(6) M. Chion (compositore e teorico dell'audiovisione), cit., p. 137.
(7) Nella stesura originaria, le musiche avrebbero dovuto sostenere anche le sequenze drammatiche della parte del film dedicata alla "missione Giove". Lasciandole invece prive di musica, Kubrick ha anche disatteso la "regola" secondo la quale, al cinema, la musica dovrebbe accompagnare le scene più ricche di pathos: al contrario, nella "missione Giove" (come ne "l'alba dell'uomo"), le scene più drammatiche del film sono accompagnate solo da un'ampia gamma di rumori, versi e respiri, o dal silenzio assoluto. L'ossessione di Kubrick per il controllo totale della sua opera non contemplava la rispondenza a idee chiare e precostituite: il processo creativo rimaneva aperto sino all'ultimo ad ogni nuova intuizione.
(8) Escher tornerà a ispirare Kubrick nelle geometrie impossibili - spaziali e temporali - di "Shining".
(9) M. Chion, cit., p. 183.
06/05/2015