"The Assassin" è un'opera di singolare bellezza che si staglia fin da subito come un possibile "unicum", sia per la carriera di un regista abituato ad attingere alla storia di un paese della cui famiglia, società e tempo è stato cantore, sia per il genere, il mitico wuxiapian, che dalle gesta degli eroi di King Hu e Chang Cheh fino alle rivisitazioni contemporanee è uno dei più rappresentativi delle cinematografie di Taiwan e Hong Kong. Infatti, l'intento esibito da Hou Hsiao-hsien è quello di rivoluzionare il genere di appartenenza in un'estrema operazione di astrazione del materiale narrativo, fino a raggiungere una purezza lucente, la diamantina ed enigmatica forza di un cinema che da fisico diviene metafisico.
L'afflato mistico del wuxiapian non è però un'invenzione di Hou, essendo già presente nei grandi film del passato e varrà per tutti l'esempio del capolavoro "A Touch of Zen" che, nella sua progressione fantastica, e attraverso il personaggio del monaco Hui Yuan, culminava in un flusso aureo di oro e di luce che ne faceva l'illuminata reincarnazione del Buddha.
Il regista di "
A Time To Live, A Time To Die" preferisce però una strada indiretta, non focalizzandosi su una particolare religione, ma piuttosto su una sensibilità dello sguardo che va a raccogliere squarci naturalisti che accolgono i personaggi. Più precisamente, lo sguardo registico sceglie scientemente di distrarsi da possibili scene-clou per contemplare il pacifico scorrere di un fiume o il vento che muove le foglie di un albero, il respiro cadenzato ed eterno della natura. "The Assassin" diviene, sin dalle sue prime battute, dopo un bianco e nero che fa da prologo alla pellicola, un virtuoso esperimento formalista teso ad asciugare le piroette acrobatiche e a raggelare le traiettorie della macchina da presa in un lavorio incessante in cui ogni scena, ricamata su una ricerca dialettica tra scenografie, costumi e cromatismi fotografici, costruisca un
tableau da animare, un fotogramma che si estenda a quadro, la cui successione va costituendo la catena di immagini che sostanzia il film. Eppure, il primo impatto con "The Assassin" è ostico, quasi spiazzante, come se Hou, che è stato narratore attento e assai fino, celasse il filo del racconto ai margini dei suoi quadri. Come lo sguardo del regista, rapito dalla bellezza della natura, predilige quest'ultima ai personaggi, lasciati talvolta fuori campo, così l'occhio spettatoriale, sedotto da cotanta opulenza visiva, si lascia sfuggire i connotati tramici, che Hou non fa niente per evidenziare.
In breve: nel prologo, Nie Yinniang, concluso il suo addestramento marziale, fa parte di un segreto ordine di assassini. Viene inviata dalla monaca sua maestra a uccidere un governatore-tiranno, ma la presenza del figlio di questi le impedisce di portare a termine il lavoro. Come punizione, a Nie viene commissionato l'omicidio di suo cugino Tian Ji'an, governatore della provincia indipendente di Weibo. Ovviamente, non sarà così facile: infatti, la giovane donna era stata allontanata dalla sua casa natale tredici anni prima, proprio perché promessa sposa di Tian, la cui famiglia, per raggiungere un compromesso politico, aveva ceduto a un matrimonio combinato.
Queste sintetiche e brutali righe di trama non bastano per definire le suggestioni rese dalle immagini del regista taiwanese, né tantomeno per far comprendere come la forbice tra detto e mostrato sia in "The Assassin" assai ambigua e le due lame raramente si sovrappongano.
Hou Hsiao-hsien squaderna uno stile sontuosamente altero che in un'opera popolare si permette il lusso di ridurre al minimo qualsiasi enfasi, a partire dalla colonna sonora, perché a fare da tappeto sarà l'intreccio sonoro dei rumori della natura che sovrastano persino il clangore delle spade. La palette cromatica passa dal bianco e nero dell'incipit alle gradazioni di verde, giallo e blu per le scene in esterno e ai rossi e agli ori per gli interni. Il long take prevale sul montaggio frenetico dell'azione guerriera, risolta con poche inquadrature fino a mandare i protagonisti fuori campo o concludere il combattimento in campo lunghissimo, facendo sì che la violenza non sfiguri mai la compostezza sublime dell'immagine. Attenzione a non sottostimare la cura formale, derubricandola alla mera superficie al fine di realizzare di una pellicola edonisticamente concentrata sul piacere visivo: occorre, invece, considerare tale arma dirompente la lente privilegiata da Hou per ricostruire una realtà non immediatamente decifrabile, comprensibile solo a tratti, a causa del continuo intrecciarsi di intrighi politici e di palazzo, di amore, guerra e magia.
C'è una scena che potrebbe rappresentare il cuore sanguinante di quest'opera poderosa. Nie giunge nell'ala del palazzo dove il cugino dimora con la concubina: penetra silenziosa e invisibile per sfidarlo a duello ma, dopo poco, rinuncia all'obiettivo omicida ritirandosi. Tian, tornato dall'amante, le racconta la sfortunata storia dell'amore tra lui e Yinniang: la scena, osservata a debita distanza e in alcuni momenti filtrata dal velo di un tendaggio, cela lo sguardo della stessa Yinniang, ritornata per ritrovare il volto del cugino. Se il rapporto tra soggettiva e falsa soggettiva è a tratti ininfluente (si segue comunque la medesima scena), ci si può domandare se la donna stia ascoltando il dialogo o semplicemente osservando ciò che ha davanti, come un fantasma di un lontano passato o una donna innamorata che ha di fronte a sé il miraggio di una vita che non ha mai avuto. Nie spia forse quel dialogo per scoprire qualcosa di nuovo su di sé e capire meglio la sua storia e la sua posizione nel mondo.
Hou Hsiao-hsien è un grande cineasta, che non ha smesso di sperimentare, mantenendo inalterata la vitalità artistica di quel giovane filmmaker che, insieme ad altri della sua generazione, come il compianto Edward Yang, avviò a Taiwan una importante "nuova onda". Tornato dopo un silenzio di otto anni, firma una geniale rielaborazione estetica che crea nuove forme da un contenitore oltremodo tipizzato come può essere il wuxia. Esso si configura quale un genere fondativo, mitologico, che qui ha una nuova aspirazione realista, sia nelle coreografie che in una trama la cui metafora politica diviene sempre più esplicita col passare delle visioni. Facile vedere nella provincia di Weibo, indipendente dallo scacco dell'impero, un'antica Taiwan che prova a resistere all'avanzata della Cina. E, allora, la parabola della malinconica Nie Yinniang è quella di un personaggio umano e tragico che deve decidere se seguire le ragioni del suo cuore, che la ragione non conosce, oppure tenere fede alle gerarchie dell'ordine al quale appartiene. Se fare parte degli ingranaggi della storia oppure estraniarsene potendo finalmente liberare il proprio spirito, fondendosi col paesaggio.
30/09/2016