Rudolf Abel, pittore, è anche un agente segreto sovietico che, nel 1957, in piena guerra fredda, viene catturato a New York. L'avvocato James B. Donovan (Tom Hanks) accetta a malincuore l'incarico che gli viene imposto di difendere Abel nel processo che segue l'arresto. E' un incarico scomodo: Donovan si tirerà addosso l'antipatia di tutto il paese; la moglie ne è quasi scandalizzata. Ma Donovan non tarda a prenderlo sul serio, e a viverlo con un senso del dovere che va ben oltre il ruolo formale (e ipocrita) che gli è stato chiesto di interpretare: quello di fornire all'opinione pubblica mondiale l'immagine di facciata di una democrazia che sa riconoscere, anche al peggior nemico, il diritto alla difesa (un diritto che nella tradizione giuridica anglosassone si lega a un principio fondamentale, il due process of law, che è costantemente sotto minaccia: e lo si è visto, specie dopo l'11 settembre, anche in tempi recenti).
La forza motrice di Donovan non sta tanto in un'innata attitudine caratteriale, o in una questione di valori: a spingerlo a difendere seriamente Abel - al quale finirà per affezionarsi - è l'aver riconosciuto in lui un'integrità morale che, forse, gli era sconosciuta. Ed è questo il colpo di genio su cui si regge tutto il film, servito dall'ottima sceneggiatura di Matt Charman cui hanno contribuito i fratelli Coen (la cui mano è evidente soprattutto in leggeri tocchi d'ironia). Abel non nega mai di essere una spia, non si lascia plagiare dalle offerte di collaborazione con il governo Usa. Appare agli occhi di Donovan "un uomo tutto d'un pezzo". Agli altri, in famiglia, nel corso del processo, Donovan andrà ripetendo che Abel ha dimostrato fedeltà al proprio paese e al proprio lavoro. Ma quel che Donovan ha scorto, che Spielberg ci fa scorgere (anche grazie alla notevole interpretazione di Mark Rylance), non è semplicemente la banale dedizione al proprio lavoro (che potrebbe, per ipotesi, esser stata anche quella di un criminale come Adolf Eichmann, responsabile delle deportazioni nei campi di concentramento nazisti - si veda "La banalità del male" di Hannah Arendt). Rudolf Abel è uomo mite, irreprensibilmente integro nella sua semplicità, e possiede un inusuale senso del fato (ogni qualvolta Donovan gli chiede, stupito dalla sua flemma: "Ma lei non si preoccupa mai?", Abel dà una risposta memorabile: "...Servirebbe?"). Doti perfette per un agente segreto, certo: ma quello che vediamo sullo schermo non ci appare mai come una spia, ma come un uomo che non ha paura di affrontare la sorte (lo attende, forse, la pena capitale), che non si piega di fronte a nulla. Intimamente convinto, non di essere nel giusto, ma di non essere in errore. Una forza che può smuovere montagne.
E' l'incontro con questa forza a generarne in Donovan una altrettanto potente, contraddistinta nel suo caso da un alto tasso di idealismo. Le circostanze di lì a breve cambieranno: un aereo spia U2 verrà abbattuto in Urss; il pilota, Gary Powers, fatto prigioniero. Abel, già condannato, diventerà allora una preziosa merce di scambio per avere indietro il pilota, che non deve rivelare preziosi segreti militari. E' Donovan a essere incaricato di un negoziato, che stavolta deve restare segreto, per lo scambio dei due prigionieri. Il film cambia pelle: da "La parola ai giurati" si passa a "Salvate il soldato Ryan". A Donovan sta a cuore anzitutto l'Uomo, prima della ragion di Stato. E siccome caso vuole che a Berlino, dove si sta costruendo il muro, sia stato nel frattempo arrestato un giovane studente americano, Donovan si ostinerà nel tentativo di portare avanti il negoziato per liberare entrambi i prigionieri, non soltanto il pilota, ben più caro alle autorità americane di quanto non lo sia lo studente.
L'Uomo innanzitutto. Nell'umanesimo di Spielberg, la Storia è una finta protagonista: a interessare davvero il regista sono gli uomini comuni: a partire da Donovan stesso, che è il tipico individuo ordinario in circostanze straordinarie. Come in Hitchcock, ma come già in tanto cinema dello stesso Spielberg - che si tratti di soldati, ragazzini o addirittura di un cavallo - in quello che è il più sottovalutato degli ultimi suoi film.
Il cinema di Spielberg è intimamente classico, e "Il ponte delle spie" è destinato a essere ricordato come uno dei più riusciti esempi di classicismo spielberghiano. Non intendiamo il classicismo di opere che entrano a far parte di un canone destinato a memoria imperitura: parliamo del classicismo cinematografico statunitense, quel cinema che veniva prima della New Hollywood di cui Spielberg è uno dei massimi esponenti. New Hollywood che ha contribuito a rinnovare, piuttosto che sovvertire, quel classicismo; e più recentemente a custodirlo, a dispetto di ogni nuova onda post-moderna nel frattempo intervenuta. Cinema che risplende della luce riflessa di grandi maestri, primo fra tutti John Ford.
Come Ford, anche Spielberg, come già in tanti altri film (a partire almeno da "Il colore viola") aspira a esser fondativo. E a estrarre dalla storia di piccoli grandi uomini il succo di quegli ideali che costituiscono la spina dorsale della Nazione. Una nazione, gli Stati Uniti, che sembra portare nel Dna l'aspirazione a essere baluardo della libertà: non solo per sé ma per tutto il mondo. E a essere seguita come un faro nella notte, nella Storia come nel cinema.
Non scorgiamo nell'umanesimo di Spielberg alcuna sfumatura di troppo: non c'è malafede, non ci sono secondi fini: ci sono, solamente, nobili fini, destinati a veicolare valori quali la rettitudine e l'integrità morale. Capaci di far emergere potenzialmente in ciascuno di noi l'eroe che custodiamo senza saperlo. Intento nobile, che si avvale di un apparato tecnico e artigianale di alto livello, e che sa come evitare di ostentare troppo, o con cattivo gusto, la retorica - perché di retorica ce n'è eccome.
Si esce dalla sala forse commossi, magari anche - e ben venga - rigenerati. Basta e avanza per meritare lodi a questo cinema; altro è però - anche se conta meno - lo sporco lavoro (il nostro) di domandarsi come ponderare l'importanza di questo film, nella prospettiva della storia del cinema. In questo senso dobbiamo considerarne anche i limiti. Che camminano a braccetto con i suoi pregi: in un film come "Il ponte delle spie", nonostante tutti i conflitti messi in scena, esterni e interni al protagonista, ogni passaggio si risolve per il verso giusto. Si percepisce la debolezza di quello che dovrebbe essere un ingrediente fondamentale di ogni narrativa: il conflitto. James B. Donovan è capace di capire subito o quasi subito, e come per istinto, il verso giusto secondo il quale agire. Nella capacità di affrontare - e superare - ogni ostacolo, un po' per fortuna, un po' per saggezza, e molto per la capacità di rimanere un uomo prima che un professionista, sta il suo eroismo. Accanto a questa figura centrale, tutto ciò che è negativo, nel film, diventa evanescente. Il mero tornaconto, le sirene del prestigio, la spietatezza del potere, il cinismo e l'ipocrisia delle istituzioni e dei loro rappresentanti, la pura malvagità: come nelle fiabe - e a differenza di molti miti - tutto ciò che rema contro appare duttile e cedevole, in confronto alla luminosità incarnata dal protagonista.
Ecco: Spielberg, pur volendo forse contribuire all'edificazione progressiva di una mitologia americana, si è limitato a raccontare una fiaba. Assai bella.
cast:
Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan, Austin Stowell, Will Rogers, Dakin Matthews
regia:
Steven Spielberg
titolo originale:
Bridge of Spies
distribuzione:
20th Century Fox
durata:
141'
produzione:
DreamWorks, Fox 2000 Pictures, Touchstone Pictures, Amblin Entertainment
sceneggiatura:
Matt Charman, Joel ed Ethan Coen
fotografia:
Janusz Kaminski
scenografie:
Adam Stockhausen
montaggio:
Michael Kahn
costumi:
Kasia Walicka-Maimone
musiche:
Thomas Newman