Dopo un episodio freschissimo, e anomalo, come "
Le avventure di Tintin - Il segreto dell'unicorno", che pareva aprire a Steven Spielberg le porte per una nuova fase della sua carriera, il re Mida di Hollywood torna in carreggiata con "War Horse", una pellicola maggiormente nelle sue corde. Ma è con rammarico che constatiamo come la genuinità, l'entusiasmo e le superbe doti di narratore del grande regista americano, siano ormai appannate e lontane nel tempo.
Tratto da un romanzo per ragazzi firmato Michael Morpurgo, adattato poi con successo per il teatro inglese da Nick Stafford, "War Horse" avrebbe tutte le carte in regola per emozionare e coinvolgere lo spettatore, e la vicenda, per quanto semplicistica possiede le giuste qualità didascaliche e pedagogiche. Forse, per la prima volta nella sua carriera, Spielberg (che in pellicole come "Salvate il soldato Ryan" o "Munich" teorizzava, non senza ambiguità, la necessità di una guerra "giusta") non si schiera, e vorrebbe mettere in scena un conflitto bellico, in questo caso la prima guerra mondiale, in cui non ci sono né buoni né cattivi, ma in cui tutti sono vittime dell'insensatezza della violenza umana. Joey, maestoso e intelligentissimo purosangue, si erge a simbolo della natura violata e devastata dall'agire sconsiderato del genere umano. Joey si rialza, combatte, galoppa, non si può abbattere: il cavallo spezza la roccia, "sfida" un carro armato, fugge dalle trincee, lontano dall'orrore. Ma Joey è anche la metafora, rassicurante e ottimistica, di un'umanità che, nonostante tutto, non ha ancora ceduto alle sue pulsioni oscure, che riesce a trovare dentro di sé ancora qualche traccia di solidarismo e bontà. Joey, nel corso del suo lungo "pellegrinaggio" riesce a tirar fuori il meglio di tutte le persone che "incontra", senza distinzione di bandiere o età.
Spielberg racconta questa favola edificante e potenzialmente interessante, ripensando al cinema Classico dei tempi che furono, John Ford in testa, ma è quasi sempre enfatico e superficiale. Come è accaduto spesso nello Spielberg dell'ultima decade la perfezione tecnica non sempre si accompagna a sincerità degli intenti o lucidità morale, e "War Horse", con tutti i suoi pregi e difetti, ne è l'esempio più lampante. Perché un conto è ripensare al cinema del passato alla luce del contemporaneo (e ci fermiamo a due esempi "ippici" relativamente recenti come i sottovalutati "L'uomo che sussurrava ai cavalli" o "Seabiscuit - Un mito senza tempo"), un altro riproporre quello stile con meccanicità e cinismo. Una confezione lussuosa e plastificata (basterebbe pensare al finale con il tramonto digitale da cartolina) che sembra sbandierare ad ogni sequenza l'enormità dei mezzi utilizzati e il professionismo dei suoi realizzatori, un tono enfatico (John Williams decisamente scatenato in colonna sonora) che spesso sfocia nella retorica più scontata, e in particolar modo una sceneggiatura che arranca, in mezzo a troppi personaggi "emblematici" (i giovani disertori tedeschi, il nonno "filosofo") e bozzettistici, che ne evidenziano sin troppo l'origine teatrale, non aiutano di certo.
Non manca qualche sequenza che emoziona con sincerità, come Albert e il cavallo Joey che riescono nell'ardua impresa di arare un intero campo nel corso di una giornata, la toccante sequenza in cui il commilitone tedesco e quello inglese uniscono le forze per liberare il cavallo intrappolato nella "
no man's land", e a tratti Spielberg dimostra tutto il suo pudore (e classe) nel risolvere (senza edulcorare) i momenti più violenti e scioccanti del campo di battaglia (la ripresa dell'esecuzione dei disertori è "offuscata" dalle pale del mulino in movimento). Ma la sostanza non cambia: "War Horse" non è un Classico, ma solo la sua pallida imitazione.