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Tutto il 2013, ecco il mega-riepilogo

Fine anno, tempo di bilanci. E tempo di classifiche. A pochi giorni dall'apertura dei "giochi" per i nostri lettori, ecco un viaggio nel meglio di un anno pieno di grandi film. Mese per mese ripercorriamo 365 di cinema prima di decidere chi è stato il migliore

Ci siamo. Ancora una volta, a fine anno, è l'ora dei bilanci, è tempo di chiederci che anno cinematografico è stato. La risposta potrebbe essere questa: il 2013 è stata una via di mezzo tra il 2011 e il 2012. È stato un anno, infatti, caratterizzato da poche "mezze misure": molti film bellissimi, molti capolavori o aspiranti tali, ma anche molte delusioni, una gran quantità di pellicole distribuite di cui non si sentiva alcuna necessità. Ecco perché, ci pare, ci troviamo di fronte a un consuntivo finale dove varrà la pena di spendere aggettivi impegnativi per molti film anche se, al contrario, il numero di opere meritevoli di segnalazione è complessivamente inferiore rispetto a qualche anno precedente.


Gennaio

Forse il primo mese è stato il migliore in assoluto. Dominato da Hollywood, ha però riservato alcune sorprese piacevoli in territorio europeo. E cominciamo la nostra carrellata proprio con La migliore offerta di Giuseppe Tornatore, il "thriller universale" del regista siciliano, capace di fagocitare cinema in gran quantità per poi, come sempre, cercare di mettere in scena un compendio di tutte le sue ossessioni/passioni. Stavolta, con un cast di livello internazionale e bandendo gli eccessi della sua calligrafia fin troppo leziosa, il risultato merita la visione.
Poi, direttamente da Venezia, è arrivato The Master, il monumentale racconto di Paul Thomas Anderson, l'ambizioso racconto sul potere della suggestione e sulla necessità di ogni essere umano di avere uno "scopo". Il film è anche l'occasione per ammirare uno dei migliori duetti recitativi dell'anno, tra Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman.
Torna alle origini Tim Burton che, con il suo Frankenweenie, riadatta a mo' di lungometraggio uno dei suoi corti iniziali che lo proiettarono nell'Olimpo dei più grandi. Forse il tocco magico dei bei tempi andati è perso irrimediabilmente, ma quando il padre del piccolo protagonista pronuncia la frase "A volte gli adulti non sanno quel che dicono", e lo fa sommerso dalle note di Danny Elfman, un sobbalzo emotivo ci è concesso e ci strappa un piccolo applauso.
Ben diverso il ritorno di Quentin Tarantino con Django Unchained, ennesimo capitolo di una carriera che ormai non ha eguali a Hollywood. Lasciata da parte, forse per sempre, la vena citazionista e la smania per omaggiare il cinema più amato, Tarantino prosegue invece il cammino iniziato con "Bastardi senza gloria", continuando a rileggere la Storia, piegandola senza soggezione alle proprie regole artistiche. Il percorso, che prevede altri titoli in arrivo, non può che meritare ammirazione sconfinata per il coraggio dell'operazione.
Una parentesi europea, fra tutta questa Hollywood, ce la permette il cinema arioso e pulsante di Olivier Assayas che, con Qualcosa nell'aria, torna al post-1968 francese immedesimandosi nel protagonista Gilles, diviso tra i movimenti duri e puri della Sinistra e le sue aspirazioni artistiche molto meno impegnate politicamente. Il cineasta francese è il perfetto realizzatore di un ritratto di gruppo senza vanità o ambizioni universali: è un ricordo nostalgico, un ironico flashback su ciò che pensavamo di poter cambiare, un toccante affresco di un'età passata ma mai dimenticata.
Da Oltreoceano arrivano tutti gli altri film che segnano il mese. Innanzi tutto c'è il Lincoln di Steven Spielberg, in cui il regista torna ai livelli di "Munich", bandendo retorica e facili considerazioni storiche e lasciando invece a una messa in scena placida ed elegante il compito di mettere in quadro una serie di dubbi, problematiche, questioni irrisolte e aperte: sta allo spettatore formarsi una coscienza, un'opinione. È lo Spielberg migliore, quello eminentemente direttore di interpreti e curioso esploratore degli angoli bui dell'impegno civile. Piccola curiosità: è la prima volta che un interprete (Daniel Day Lewis) conquista un Oscar per l'interpretazione in un suo film.
Contemporaneamente uno dei migliori amici di set di Spielberg, Robert Zemeckis, esce anch'egli con un nuovo lavoro. Flight, partendo da un catastrofico incidente aereo ripreso con tutta la maestria e la perizia tecnica di cui il regista di "Ritorno al futuro" dispone, narra ancora una volta di un dramma paradossale, tanto quanto quello del Tom Hanks di "Cast Away". Qui c'è l'eroe che, dopo aver salvato i passeggeri del volo, finisce sotto inchiesta con una vita capovolta. Anche stavolta il cinema di Zemeckis è dissimulazione, è finzione esplicitata fino alle estreme conseguenze.
Non molto diverso, su un piano teorico, è il cinema del giovane e promettente Rian Johnson che con Looper mette in scena l'ennesima, ma molto originale, declinazione del tema dei viaggi nel tempo, da sempre caro alla Settima arte e più in particolare all'industria hollywoodiana. Johnson, però, sta alla larga dalla spettacolarizzazione del cortocircuito temporale e imbastisce un racconto solido e che trae spunti estetici dai B-movies, oltre che dal filone più melodrammatico del genere. Sicuramente una delle perle nascoste e più sottovalutate della stagione.
Il primo film americano del sudcoreano Kim Ji-woon, The Last Stand, è invece un mero divertissement, un chiassoso western moderno ibridato con il genere poliziesco. Ma merita comunque uno sguardo perché riesce a coniugare con successo il raffinato virtuosismo registico di Kim all'interpretazione di grana grossa di Arnold Schwarzenegger, qui al suo primo ruolo da protagonista dopo il rientro a pieno regime nel mondo del cinema.


Febbraio

Affascinata da quello strano connubio fra mondo militare e destino umano, Kathryn Bigelow passa dall'Iraq degli artificieri americani, fotografato in "The Hurt Locker", alla caccia all'uomo più ossessionante della storia recente, quella a Osama Bin Laden. Lo fa con Zero Dark Thirty, racconto di proporzioni fluviali sull'odissea di un'agente speciale che passa dieci anni sulle tracce del ricercato numero uno. La regista premio Oscar si divide tra un focus sul dramma individuale di chi sacrifica tutto sull'altare di uno scopo totale e la messa in scena delle operazioni sul territorio, che culminano con la magnifica mezzora finale in cui si ricostruisce l'agguato notturno di Abbottabad con cura certosina.
Re della terra selvaggia, dell'esordiente Benh Zeitlin, è invece il classico esempio di opera che riscuote ben più dei suoi reali meriti: offuscato da un battage pubblicitario importante, dal primato della più giovane ragazzina nominata per un Oscar e dal fascino indiscusso di una fiaba avventurosa messa in scena con personalità, il film rischia però di non ottenere abbastanza giustizia. Infatti, al netto di qualche eccesso nella narrazione, il film di Zeitlin è un romanzo di formazione dal forte impatto visivo, meritevole di una certa attenzione.
Esce con tre anni di ritardo, poi, il magnifico melodramma moderno di Derek Cianfrance, Blue Valentine. La commedia che si fa dramma narra di un amore che prima fa faville e poi va in frantumi e il registro narrativo scelto è sconnesso proprio come le vite dei due personaggi. Imperdibile e da recuperare prima di stilare qualsiasi classifica, la pellicola si regge tutta sui volti mostruosamente emozionanti di Ryan Gosling e Michelle Williams.
Noi siamo infinito di Stephen Chbosky è un altro film da amare e custodire. Credevamo infatti che il teen movie nel senso più tradizionale del termine fosse sul punto di tramontare. E invece, questa storia di un "ragazzo da parete", un giovane che impara ad essere protagonista di un destino che pareva averlo confinato nell'angolo, è un aggiornamento per nulla scontato di decenni di gloriosa storia delle opere cinematografiche sul mondo magico dell'adolescenza. Delicato come i volti dei giovani protagonisti, coinvolgente come la musica che gira nei mangianastri e crudele come il passato che accomuna i personaggi, la pellicola travolge per il ritmo incessante e strazia per il suo epilogo commovente.
Upside Down di Juan Diego Solanas è invece un film pieno di difetti, a tratti sconclusionato nella sua incapacità di veicolare in una direzione plausibile i mille spunti narrativi lanciati. Però la storia dei due mondi opposti, separati e inconciliabili, la cui impossibile distanza viene messa in discussione solo da due amanti spericolati è inscenata con un gusto per la spettacolarità encomiabile. Aiutato da un 3D efficace, l'opera diverte se presa per quello che è, un romantico e colorato kolossal.
Sorprendente esordio dietro la macchina da presa, per tornare in Italia, è invece quello di Rolando Ravello, apprezzato interprete teatrale e televisivo. Il suo Tutti contro tutti, passato sotto silenzio nelle nostre sale, è il vero e unico titolo dell'anno a potersi fregiare del merito di rinverdire l'antico fasto della commedia all'italiana. Andando a puntare l'occhio della cinepresa sulla questione della casa, uno dei principali problemi dell'Italia odierna in recessione, Ravello schiera un cast in grande forma per dar vita, come nella migliore tradizione, a una sequenza di scene brillanti dove il tema amaro, che resta sempre e comunque sullo sfondo, risulta invece il protagonista assoluto, grazie alle battute, alle azioni e all'alchimia coinvolgente dei protagonisti.


Marzo

Torna anche Sam Raimi e lo fa con Il grande e potente Oz, ideale prequel del magnifico film di Victor Fleming del 1939. Il regista de "La casa" ha fatto di molto meglio in passato, ma resta nella memoria la sua voglia di giocare e riplasmare una materia ampiamente già sviscerata dall'universo-cinema. Sorprende il suo doppio tocco, da una parte capace di ironizzare anche dei miti consacrati, dall'altro rispettoso di leggende e ambientazioni con una tradizione e una storia alle spalle.
Il lato positivo, invece, è la commedia che ha regalato un inatteso Oscar a Jennifer Lawrence e che ufficializza la presenza di David O. Russell tra i più in forma cineasti americani. Senza fronzoli, senza molte sorprese, il film è un solido prodotto medio, perfettamente in equilibrio fra le istanze del cinema indipendente e le necessità consuete dell'industria hollywoodiana.
Ben lontano da tutto ciò, nonostante la finta patina di coolness che ammanta il suo grandissimo film, resta Harmony Korine con Spring Breakers, teen movie all'acido presentato a Venezia in concorso come una sorta di "distrazione" rispetto al cartellone ufficiale e invece rivelatosi una delle sorprese dell'edizione 2012. Dietro l'immagine stilizzata della Mtv Generation, dietro quell'alone di sessualità diffuso e di ricerca della trasgressione, il film è una ruvida indagine satirica sul vuoto di un'intera generazione, messo in scena con una classe registica e un gusto per il virtuosismo mai banale o fine a se stesso.
Tornando invece a ben meno ambiziosi prodotti di intrattenimento, ci piace però segnalare il thriller di Nicolas Jarecki La frode, classica opera dove tutto è già visto, ogni dialogo sa di già sentito. Eppure dietro il gioco a incastri verso l'inevitabile finale a sorpresa si nasconde il meglio di quel cinema americano mainstream, fatto di star che si divertono sul set nel far divertire quello che poi sarà il pubblico pagante.
E infine, per un marzo invero non eccezionale, val la pena citare anche il secondo film d'animazione dell'anno meritevole di una visione: parliamo de I Croods di Kirk De Micco e Chris Sanders, nuovo prodotto di casa Dreamworks, felice fiaba avventurosa ambientata nella preistoria con ritmo forsennato e una dolce ironia. Forse non saremo di fronte al cartone animato rivoluzionario, ma in un periodo in cui, ad esempio, la Pixar segna il passo e non sempre dal Sol Levante arrivano perle memorabili, anche la casa di Spielberg comincia a offrire prove convincenti.


Aprile

Mese inaspettatamente fitto di lieti eventi, quello simbolo della stagione primaverile. Si parte con Come un tuono, il dramma noir di Derek Cianfrance, venuto alla ribalta con l'altro suo titolo colpevolmente distribuito con anni di ritardo. Il suo nuovo lavoro è un mirabile melodramma a tinte fosche, a metà fra l'esistenzialismo disperato del "Mystic River" di Clint Eastwood e l'umanesimo sfrenato del suo precedente "Blue Valentine". Cianfrance è davvero un raffinato costruttore di personaggi, meriterebbe ben maggiore attenzione anche in Italia.
Conosciamo tutti da decenni, invece, il cinema di Walter Hill, uno dei più rappresentativi pionieri del cinema action anni 80, tornato alla ribalta con Jimmy Bobo, ruvido poliziesco senza fronzoli o pretese, giocato tutto sull'eterno stereotipo dei due caratteri opposti che deflagrano nell'incontro. A parte un'inusitata violenza esibita, accompagnata da un'interpretazione di Sylvester Stallone decisamente sopra le righe, il film si distingue soprattutto per il virtuosismo delle scene d'azione, per la sapienza con cui Hill miscela abilmente l'alto e il basso senza timore di sporcarsi le mani.
Dall'Italia, invece, giunge un esordio dietro la macchina da presa davvero sorprendente: è quello di Luigi Lo Cascio, uno dei nostri volti più noti e validi. Il suo La città ideale, sorta di parabola dell'uomo iper-ecologico che insegue il luogo perfetto dove vivere, è un film che ridà lustro al concetto di grottesco. Lo Cascio estremizza il suo ragionamento e lo mette in scena con spregiudicatezza e al tempo stesso con l'intelligenza di chi conosce i luoghi che va a immortalare.
Oliver Stone, dal canto suo, è sempre lo stesso: didascalico, moralista e pedante. Però la passione che mette nei suoi documentari, a tratti così elementari nella messa in scena del reale, non può lasciare totalmente indifferenti. Ecco perché consigliamo anche il recupero del suo Chavez, trascinante ritratto dell'uomo che ha sfidato gli americani rivendicando l'autonomia del continente sudamericano.
Proseguendo la meritoria opera di recupero delle sue pellicole rimaste inedite sul grande schermo, la Lucky Red ha puntato nel 2013 su uno dei titoli meno osannati di Hayao Miyazaki, Kiki consegne a domicilio. Meno sottile nel suo gioco di metafore e più immediato sul piano narrativo, il piccolo e delicato romanzo di formazione della giovane strega è pur sempre un esempio mirabile di raffinatezza nel disegno, tratto inconfondibile dello Studio Ghibli, oltre che una divertente storia avventurosa che unisce la consueta fascinazione del Maestro per il fantastico con una bellissima ambientazione "metropolitana". Aprile, insomma, è un mese di conferme: sono tutti cineasti che ci mostrano nuovamente ciò per cui sono maggiormente apprezzati.
È così anche per l'atteso ritorno di Rob Zombie con Le streghe di Salem, ambizioso e oscuro film in bilico fra demoniaco e stregonesco, solito tour de force orrorifico del regista de "La casa dei 1000 corpi", ancora una volta capace di sfoderare un ammirevole talento per la messa in scena sporca e grezza che fa il verso agli horror di serie B, senza rinunciare a trovate di regia davvero sensazionali. E poi fa davvero paura.
Non è stato invece trattato molto bene dalla critica Qualcuno da amare, trasferta giapponese del maestro iraniano Abbas Kiarostami che, per una volta, decide di non riflettere sulle contraddizioni del proprio Paese e della propria cultura d'origine e sceglie di imbastire un delicato melodramma sulle infinite sorprese che l'amore riserva a ogni età. Se si accetta il film per quello che è, senza volerlo caricare di aspettative eccessive, la storia risulterà gradevole e toccante come, anzi, raramente è riuscito a fare il cineasta in passato.


Maggio

Fra le opere prime che più ci hanno convinto, segnaliamo quella di Valeria Golino con Miele, alle prese con un dramma originale che affronta il tema dell'eutanasia da un'angolatura insolita: quella del rapporto che può crearsi tra il dottor Morte e il "paziente". L'alchimia fra Jasmine Trinca e Carlo Cecchi è efficace e trascina tutta la pellicola.
Siamo invece abituati ai cambi improvvisi di direzione di Steven Soderbergh, passato addirittura in concorso alla Berlinale con Effetti collaterali, singolare gioco di scatole cinesi che nascondono, ognuna al suo interno, un altro tipo di film. È sempre lui, il regista di "Ocean's Eleven": prende una materia cinematografica e decide di sviscerarla sperimentandone le infinite possibilità. Stavolta si diverte un po' con il medical thriller  e un po' con le atmosfere hitcockiane.
Tetsuya Nakashima è il regista giapponese più vicino all'estetica indie del giovane cinema indipendente americano. Ha un gusto per la visione pop del cinema, attento al dettaglio, al colore, all'accompagnamento musicale. Ma è anche un cinema autentico, veramente emotivo nel suo stile narrativo: ecco perché difendiamo Confessions  e non ci pare affatto scelta di comodo optare per un registro così "ad effetto" per affrontare una trama così densa di dolore e di rancore.
Il mese di maggio segna anche il ritorno del grande Pablo Larrain, uno dei più importanti cineasti sudamericani della storia, un giovane regista che ha già scritto capitoli fondamentali nella Settima arte. No è un'altra prova di straordinaria bravura, la chiusura del cerchio del focus sulla dittatura del suo Paese: partendo da materiali d'archivio, tutti televisivi, Larrain gioca con l'immagine cinematografica fino alle estreme conseguenze, facendo sì che la Storia sia materia viva davanti allo spettatore. Appassionante e indimenticabile.
E c'era grande attesa per il ritorno di Paolo Sorrentino dopo che lo avevamo lasciato con l'amaro in bocca al termine della visione di "This Must Be the Place". Il suo La grande bellezza segna sicuramente un ritorno a standard decisamente buoni, con questo suo decadente e al tempo stesso onirico omaggio a Roma e a tutte le sue molteplici facce. Ma dietro il tanto discusso e pubblicizzato ritratto della Città eterna, il regista napoletano prosegue con il suo scandagliamento dell'animo umano e dei suoi rimpianti. Raffreddando il suo stile (pur senza rinunciare all'immancabile eccesso di virtuosismo tecnico), Sorrentino ancora una volta si affida all'istrionico Toni Servillo per portare a termine la sua missione.
E infine merita un accenno il fischiatissimo ultimo lavoro di Nicolas Winding Refn, tornato a Cannes dopo il successo di "Drive" e accolto da bordate di ululati pazzeschi. Eppure il suo Solo Dio perdona è un'opera spiazzante e avvolgente, quasi una traumatica inversione a U nella carriera del regista danese. Dopo la messa in scena ipercinetica e pop del suo più grande successo, stavolta Refn lavora soprattutto di testa, di simbologie, di inquadrature ferme e profonde. Il suo nuovo noir in terra thailandese è una ambiziosissima parabola sul riscatto, su quello familiare e su quello sociale. Forse l'autore lavora troppo per accumulo, esagera con la messa in scena fin troppo estrema nei suoi silenzi e nei suoi primi piani, ma continuiamo a credere che valga la pena consigliare la visione anche solo per apprezzare le doti camaleontiche di questo talentuoso artista del Nord Europa.


Giugno

The Bay potrebbe sembrare l'ennesimo esempio di found footage per un pubblico adolescente affamato di brividi a buon mercato. In realtà, dietro la regia divertita e mai scontata di una vecchia volpe come Barry Levinson, c'è la volontà di riflettere sul senso stesso del rivelamento cinematografico. Non molto lontano negli intenti dal cult "The Blair Witch Project", il film è un avvincente thriller senza troppe pretese.
Ma il primo mese estivo ha regalato anche dei titoli pesantissimi. Holy Motors di Leos Carax, tanto per cominciare, giunto nelle nostre sale a un anno di distanza dalla sua presentazione a Cannes nel 2012. Il cinema dell'artista francese è sempre stato nostalgico e, al tempo stesso, parodistico nel suo amore per il grottesco come chiave per leggere la realtà. Ma nel suo ultimo capolavoro, al che la sua riflessione si concentra esclusivamente sul proprio mestiere, sulla Settima arte, Carax estrae dal cilindro un maestoso inno alla macchina da presa, alla tradizione cinematografica analogica e mette in scena un vero e proprio monumento all'arte della recitazione, con un incredibile Denis Lavant che si mostra davanti alla cinepresa proprio nell'arte dell'immedesimazione nei personaggi. Una pietra miliare del cinema moderno.
Da Hollywood, quando arriva il caldo, siamo abituati ad accogliere i classici blockbuster estivi che attirano, nel fresco delle sale cinematografiche, frotte di spettatori. Non è certo il caso di Into Darkness, il secondo capitolo della nuova saga di "Star Trek" affidata all'estro senza confini di J.J. Abrams. In attesa di vederlo all'opera con il nuovo "Guerre stellari", il creatore di "Lost" ormai è irrefrenabile: abbonda con i giochi di luce, esagera con gli effetti sonori, ammanta di epica le sue sceneggiature. I suoi non sono semplici kolossal spettacolari, sono vere metafore del potere emozionale del cinema. È per questo che il regista americano si sta, lentamente, ritagliando un posto nella storia dei più grandi.
Tornando in Italia, invece, dobbiamo assolutamente sottolineare il genio di Davide Manuli, distribuito nelle sale con il suo nuovo, straordinario lavoro. La leggenda di Kaspar Hauser, attraverso una parabola sull'arroganza del potere e sulla volontà di schiacciare il prossimo, è un allucinato viaggio-sfida che indaga sulle possibilità della finzione cinematografica: tra assurdo e grottesco, fra demenzialità e libertà letteraria, Manuli si conferma coraggioso pioniere di un cinema che non ha paura di risultare ostico, incomprensibile, oltraggiosamente libero.
Siamo poi sempre stati molto severi con il brasiliano Fernando Meirelles, salito agli onori delle cronache nel mondo dello spettacolo con il celebre, ormai, "City of God". Affidandosi a un soggetto tratto da Schnitzler, invece, il regista sudamericano mette in scena con Passioni e desideri un interessante racconto corale sulle conseguenze concatenate degli errori, delle colpe e dei tradimenti. Aiutato da un cast internazionale pienamente in parte, il film è stata una piacevole sorpresa nell'asfittica offerta di fine stagione.
E contemporaneamente merita una segnalazione anche Doppio gioco di James Marsh, un thriller solido e di impianto classico ambientato nell'Irlanda degli anni 90 alle prese, ancora, con il bivio fra la pista del terrorismo dell'Ira o una battaglia civile di stampo repubblicano. In mezzo a queste incertezze, il documentarista premio Oscar per lo stupendo "Man on Wire" dirige con mano ferma e sicura una sequenza di eventi, pur prevedibili, ma che culminano in un crescendo di tensione e di partecipazione emotiva. Insomma, se sul piano della profondità di analisi sociale non si registra alcuna novità significativa, resta pur sempre la piacevole visione di un onesto e teso giallo a sfondo spionistico.


Luglio

Sono lontani i tempi in cui Terrence Malick veniva considerato come una sorta di oggetto misterioso nel panorama filmico mondiale. Al ritmo invece di un film ogni tre anni, l'autore americano si ripresenta nelle sale con To the Wonder, nuova declinazione della sua "filosofia per immagini". Dopo aver passato in rassegna guerra, Storia ed evoluzione, ora tocca alla parola Amore essere setacciata nei suoi più angusti anfratti dal regista de "La rabbia giovane". Pur cedendo in diversi momenti all'imbarazzo di un connubio che non esplode totalmente come in passato, il cinema di Malick e il concetto di melodramma trovano, a ogni modo, dei momenti di lirismo eccezionale e incontenibile.
Dopo aver parlato di Malick può sembrare una bestemmia e anche la recensione che anche questa webzine ha pubblicato su Questi sono i 40 conferma che l'universo della critica non ama Judd Apatow, ma l'autore di questo breve consuntivo di fine anno ha i suoi gusti personali e quindi lo sottolinea con decisione: siamo di fronte a uno dei rari veri talenti che Hollywood abbia cullato negli ultimi anni. Apatow non è solo un regista, è il responsabile di una factory che gli ruota attorno responsabile di un nuovo stile brillante nello scrivere, mettere in scena e interpretare la nuova commedia americana. Il suo quarto lungometraggio, il suo lavoro migliore, gioca continuamente con la demenzialità e la trivialità senza mai scadere nel volgare più becero.
Molto meno straordinario è Now You See Me, il film di Louis Laterrier sull'ennesima variazione del tema "caccia al ladro". Stavolta è una banda di rapinatori abili prestigiatori a dare del filo da torcere alle forze dell'ordine sventurate. Capitanati da Jesse Eisenberg, il gruppo che fa dello stile alla Robin Hood il proprio marchio di fabbrica, diverte il pubblico nella messa in scena di trucchi su trucchi. Non sarà un'opera sulla magia densa e profonda come "The Prestige" di Nolan, ma ci si può divertire.
Molto più ambizioso e spericolato il tipo di divertimento visivo che offre l'ultima fatica di quel pazzo visionario di Guillermo Del Toro. Pacific Rim è il film che tutti i ragazzi degli anni 80 avrebbero voluto vedere. Un'operazione "mostruosa" di omaggio-imitazione alla creatività degli autori giapponesi di trent'anni fa.
A conferma dell'arguzia della "compagnia di giro" che ruota attorno ad Apatow, arriva anche Facciamola finita, il kolossal demenziale firmato in cabina di regia da Evan Goldberg e Seth Rogen. È un gigantesco ritratto autoreferenziale, una sfacciata operazione di egocentrismo che spinge un manipolo di attori-amici a interpretare se stessi nei panni delle vittime-ostaggio di eventi spaventosi al di fuori della lussuosa villa di James Franco. I detrattori parlano di "sterile snobismo". Preferiamo invece soffermarci sull'intelligenza dell'operazione, tutta volta a ostentare in faccia allo spettatore la vacuità della finzione dietro lo schermo.
Pain & Gain segna invece l'abbandono (momentaneo) delle atmosfere da film catastrofico o ultrafantascientifico da parte di Michael Bay. Costato solo "pochi" milioni di dollari, è un film che va preso per quello che è: non certo una satira sul mondo delle palestre o del culturismo, è solo una commedia nera dai toni inevitabilmente parossistici. Ma ci si diverte e il ritmo che il regista sa imprimere è quello dei suoi giorni migliori.


Settembre

Tornati dalle vacanze ci accoglie Che strano chiamarsi Federico!, il ritorno al cinema, in grande stile, del maestro Ettore Scola, uno dei padri nobili della commedia all'italiana. Il regista di "C'eravamo tanto amati" sorprende per la sua incredibile freschezza, per la sua voglia di mettersi in gioco. Torna dietro la macchina da presa con un ambiziosissimo docu-fiction che rievoca la sua lunga amicizia con Fellini. Pezzi di repertorio documentaristico, scene di finzione reinterpretate e fotografate con un brillante bianco e nero, momenti di commozione e nostalgia purissime. Un imperdibile resoconto di anni splendidi fatto da chi, a renderli così splendidi, contribuì in prima persona.
Lo aspettavamo tanto e alla fine anche lui è tornato: parliamo del nostro amato Wong Kar-wai, ricomparso sulla scena con The Grandmaster, l'opera che a detta dello stesso autore cinese, voleva essere la summa di ciò che la Settima arte rappresenta per lui. Ed ecco allora lo sguardo nostalgico e denso di melanconia per un ritratto del Paese in tumulto degli anni 30, contrapposto alla nobiltà e alla calma interiore dei cultori delle arti marziali, vera testimonianza palpabile di una storia millenaria. Fra virtuosismi di macchina sfrenati e momenti melodrammatici quasi caricaturali, il cinema di Wong regala nuovi momenti indimenticabili.
Diciamolo, Rush è forse il miglior film mai diretto da Ron Howard e, probabilmente, resterà anche uno dei meno premiati in patria. Non è solo un film sportivo o, banalmente, la ricostruzione di un duello umano e agonistico tra due piloti. È anche, e soprattutto, un inaspettato saggio di bravura tecnica, di inventiva nella regia di momenti action in pista mozzafiato. Aiutato da un cast tecnico straordinario, capace di una riproposizione dell'epoca che più che fedele definiremmo ossessiva, Howard lascia rapito lo spettatore tanto quanto potrebbe riuscirci un avvincente gran premio di Formula 1.
La Mostra di Venezia è stata giudicata, quest'anno, senza particolari complimenti. È stata frettolosamente bollata come un'edizione minore e ne è stato sottolineato maliziosamente il crescente divario rispetto a quanto visto a Cannes. Bene, se la giuria presieduta da Bernardo Bertolucci ha un merito, è quello di aver incoronato il film più meritevole, il fenomenale documentario di Gianfranco Rosi. Sacro Gra è una carrellata di "possibilità umane", un emozionante giro attorno a Roma affidato a volti e vite scelti con cura e ripresi da una macchina da presa mai invadente. Senza praticamente intervenire mai nel suo film, Rosi sceglie uno stile coraggioso: piazza la cinepresa davanti alle persone e lascia che siano loro a creare il documentario. Assolutamente imperdibile.
Arriva dalla Francia, poi, il film più erotico dell'anno. È Lo sconosciuto del lago di Alain Guiraudie, scandaloso thriller sulle rive di un bacino d'acqua dove passioni represse o disinibite esplodono in un sensazionale mix di noir e commedia nera. Il tutto messo in scena con un gusto per una provocazione mai gratuita, ma quasi di sfida nei confronti dello spettatore, forse ancora impreparato di fronte a scene di sesso omosessuale così travolgenti.


Ottobre

Due attori, uno spazio infinito e una regia che si prende il tempo giusto per preparare la detonazione emotiva finale. Sono gli ingredienti di Gravity, il kolossal fantascientifico "minimal" che Alfonso Cuaron realizza con l'aiuto di Sandra Bullock e George Clooney. Seguendo gli insegnamenti dei maestri del passato, da Kubrick e Carpenter, il regista messicano usa il cinema di genere per riflettere sulla realtà contemporanea, per narrare di un uomo moderno spezzato e per rileggere, cosa non meno importante, le regole di messa in scena non rinunciando ad effetti speciali mai così "umani".
Andrea Segre continua invece ad alternare documentari e fiction. Si ripresenta nelle sale con La prima neve, ideale continuazione del suo ragionamento sulla mancata integrazione di etnie diverse dalla nostra nel Nord produttivo. Fra le cime alpine ambienta una nuova storia di amicizia e comprensione con il "diverso", lo "straniero". E ancora una volta, pur con i difetti di uno stile fin troppo ecumenico, fa trasparire le grandi risorse di una terra apparentemente insensibile o molto lontana da una realtà più complessa.
Impossibile poi non soffermarsi sul capolavoro di Abdellatif Kechiche, La vita di Adele, distribuito in autunno in Italia dopo il successo di Cannes. In un riepilogo necessariamente sintetico risulta anche fuori luogo soffermarsi sulle immense qualità di un lungometraggio così maestoso. Certo vale la pena sottolineare che, a distanza di qualche mese dalla prima visione, il film resta nella mente forte e prepotente come allora, i volti e le emozioni delle due protagoniste (eroine) di questo gigantesco romanzo per immagini continuano a rimanere fuoco vivo nel cuore di chi si è lasciato trasportare durante la visione.
Ma ci siamo fatti trasportare dalle emozioni anche durante la visione di Before Midnight, il terzo capitolo della vita "filmica" di Celine e Jesse creata dal genio di Richard Linklater. Il suo cinema "in divenire", che fotografa il "momento comune" innalzandolo a "istante sacro", risulta ancora originale e stimolante dopo tanti anni dalla sua comparsa. Certo, lo stupore non può essere il medesimo che abbiamo provato di fronte ai suoi primi, prodigiosi esperimenti, ma rimane il piacere di rincontrare dei volti noti, già apprezzati e rigodere della loro crescita-maturazione immortalata con delicatezza e romanticismo vero.


Novembre

Torna Roman Polanski che estremizza l'esperimento di "Carnage". In Venere in pelliccia i personaggi sono solo due, chiusi e costretti dentro un teatro mentre provano il testo che dà il titolo al film. Divertente e scanzonata, la pellicola è un saggio di bravura del regista polacco, concentrato sia su un piano teorico ad analizzare la stretta connessione fra testo letterario e cinema, fra realtà e finzione scenica, sia su un piano più concreto nel muovere la macchina da presa su e giù da un palcoscenico proprio come se si trattasse di un terzo interprete in scena. Gara di talento tra i due attori, ma vince la travolgente Emmanuelle Seigner.
Jonathan Demme, che preso vedremo nuovamente al lavoro con un film di pura "tradizionale", continua a regalarci dei documentari straordinari. Il motivo del suo essere davanti a tutti, in questo momento, sta, probabilmente, nell'approccio da curioso, da profano, con cui si avvicina a un soggetto inedito: è così anche per Enzo Avitabile Music Life, trasferta partenopea del cineasta statunitense. Stavolta segue il musicista napoletano passo dopo passo, fra casa e lavoro, affetti privati e responsabilità pubbliche. E la sua cinepresa, come al solito, sprigiona lo stupore del turista affamato di novità e di scoperta.
A Cannes aveva vinto il premio per la sceneggiatura, ma il poderoso nuovo film di Jia Zhang-ke è notevole per molti altri motivi. Il tocco del peccato è infatti un affascinante dramma corale caratterizzato da una struttura circolare permeata di rabbia e di atmosfere pronte ad esplodere. È una Cina molto diversa da quella di "Still Life": laddove nel film Leone d'oro a Venezia il grande Paese era immerso in una sorta di contemplazione mistica, qui siamo di fronte a una scelta di stile molto più "occidentale", con ambientazioni riprese nella loro durezza e una società descritta in tutte le sue contraddizioni. E la violenza di Jia non è affatto stilizzata, pare quasi l'unico sfogo per veicolare le frustrazioni dell'essere umano.
Joseph Gordon-Levitt, apprezzato attore emergente a Hollywood, debutta con Don Jon alla regia: il film, in realtà, non è stato accolto benissimo dalla critica, ma ha comunque del buono. Certo, la seconda parte ispirata a uno stile di commedia mainstream molto conciliatorio stride un po' con le ambizioni di partenza e con le ambizioni dell'autore, ma è apprezzabile il ritmo impresso alla storia, così come è originale la scelta di raccontare le "nuove dipendenze", come la pornografia virtuale, con una leggerezza e una spensieratezza da prodotto "per famiglie". Aspettiamo Gordon alla prossima prova.


E arriviamo fino alle settimane di questo dicembre, un alcuni film che sono nelle sale proprio in questi giorni e le cui recensioni potete trovare sul nostro sito se volete farvi un'idea. E se volete avere un quadro di che cosa la nostra redazione, la più variegata del panorama critico italiano, pensa dei singoli film, potete comunque andare alla pagina del nostro tabellone annuale.
Una precisazione è d'obbligo: l'itinerario che precede è solo uno dei tanti possibili, perché di pellicole meritevoli ne avremmo potuto citare molte altre. E per chiudere, prima di invitarvi a recuperare quante più opere possibili prima di giocare alla classifica finale del 2013, vi regaliamo un elenco ulteriore:

Amore carne
Arrugas - Rughe
Blood
Blue Jasmine
Cani sciolti
Captive
Cirque du Soleil
Cloud Atlas 
Drift - Cavalca l'onda
Educazione siberiana
Foxfire - Ragazze cattive
Gli amanti passeggeri
Il grande Gatsby
Il passato
In Another Country
Indebito
Iron Man 3
L'arte della felicità
L'evocazione - The Conjuring
La fine del mondo
La gabbia dorata
La mafia uccide solo d'estate
La moglie del poliziotto
La quinta stagione
La scelta di Barbara
Las acacias
Le avventure di Zarafa
Lunchbox
Machete Kills
Mea Maxima Culpa - Silenzio nella casa di Dio
Metallica 3D - Through the Never
Moebius
Monsters University
Noi non siamo come James Bond
Oh boy, un caffè a Berlino
Prisoners
Promised Land
Quartet
Royal Affair
Salvo
Sinister
Still Life
Stoker
S
top the Pounding Heart
Sugar Man
The Act of Killing
The Canyons
The East
The Spirit of '45
The Summit
Tutto parla di te
Una notte da leoni 3
Violeta Parra Went to Heaven
Viva la libertà





Tutto il 2013, ecco il mega-riepilogo