"La verità era uno specchio che cadendo dal cielo si ruppe. Ciascuno ne prese un pezzo e vedendo riflessa in esso la propria immagine, credette di possedere l'intera verità." Questi versi, ad opera del poeta e mistico Rumi, citati spesso da Mohsen Makhmalbaf, sono stati un punto di riferimento e ispirazione per gran parte dei registi iraniani acclamanti a livello internazionale, soprattutto negli anni Novanta. Se per loro, tuttavia, relatività significava soprattutto cinema nel cinema, per il quarantunenne Asghar Farhadi, unico nome di spicco dell'ultima ondata di cineasti persiani, è questione di punti di vista alternativi sulla realtà, presente e passata. Se se ne ha un'opinione prevenuta, non suffragata dall'esperienza, questa è dovuta in particolare a una costruzione mentale, che andrà gradualmente smascherata e rovesciata attraverso la conoscenza, il confronto, il dibattito, il moltiplicarsi degli angoli di osservazione. In termini cinematografici, attraverso i dialoghi di una sceneggiatura cesellata con la precisione maniacale del miniaturista.
Palesata definitivamente quest'abilità con il capolavoro "Una separazione", giunto ora al sesto film, il Nostro si configura definitivamente come il regista iraniano più marcatamente borghese (lo è almeno dalla sua terza opera, "Fireworks Wendsday", inedita in Italia), per la centralità del tema della famiglia, che gli è dichiaratamente caro, e per l'estrazione sociale dei personaggi. La grossa novità è la trasferta. Abbandonata la terra natia, Farhadi approda in Francia, come il protagonista Ahmad (Ali Mossaffa), che vi fa ritorno dopo quattro anni, per formalizzare il divorzio con Marie (Bérénice Bejo), che nel frattempo vive con un nuovo compagno, Samir (Tahar Rahim, il "Profeta" di Audiard) e il suo bambino, insieme a due figli nati da un matrimonio di Marie precedente a quello con Ahmad. Samir a sua volta è sposato, ma la moglie vegeta in stato comatoso dopo aver tentato il suicidio. La trama, come si può vedere, è intricatissima, fitta di drammi sentimentali e malintesi multipli, sempre disvelati con una precisione di scrittura davvero rara.
Fuori dai patrii confini, il cinema farhadiano perde i rimandi alla morale religiosa e ai vincoli politici che arricchivano di contenuti "About Elly" e "Una separazione", ma trova un'ottima compensazione con la scelta di avere tre protagonisti, sempre meravigliosamente caratterizzati (così come i personaggi di contorno, compresi i bambini, gli unici limpidi, trasparenti, incapaci di costruirsi sovrastrutture mentali in quanto scevri delle ombre e del passato e ben radicati nel presente), rispetto alla coralità e alla situazione di coppia dei due precedenti.
Le complicazioni del narrato sono la naturale conseguenza per chi ambisce, riuscendoci, a tirar fuori dal cilindro un grande film partendo da assunti da dramma teatrale ottocentesco. Sono infatti il palcoscenico e la figura di Henrik Ibsen rispettivamente la palestra di formazione e il principale riferimento artistico di Farhadi.
Sul piano prettamente registico curiosamente l'autore, proprio come in "Una separazione", riserva le sequenze di maggiore impatto all'incipit e all'epilogo: da un lato l'arrivo in aeroporto di Ahmad e il non dialogo con Marie attraverso un vetro, emblema dell'incomunicabilità tra i due ex-coniugi, dall'altra un piano-sequenza finale dal sapore dreyeriano (meglio non rivelare di più). In mezzo, Farhadi si affida al découpage classico, ma evita il rischio soap opera grazie all'eccellente direzione degli attori - magistrale quella dei bambini - e a un impiego delle musiche sottilissimo, quasi impercettibile.
Per la fortissima tensione creata nella messa in scena di drammi familiari, da più parti si è parlato di thriller psicologico, di dramma filmato come un poliziesco, di "film alla Bergman girato da Hitchcock". Più propriamente, meglio definirlo come un grande, densissimo melò contemporaneo, alla stregua dei più alti esempi del genere. Un nuovo "Segreti e bugie", insomma, firmato dal più grande sceneggiatore nonché uno dei maggiori cineasti sulla piazza.
Una menzione speciale, da parte nostra e della giuria di Cannes 2013, che le ha assegnato il Prix d'interprétation, va infine all'attrice protagonista, Bérénice Bejo. Lanciata definitivamente nel firmamento da "The Artist" del marito Michel Hazanavicius, ci spiazza intepretando un personaggio diametralmente opposto, persino caratterizzato con una punta di misoginia. Bérénice riesce a restituire, in maniera impeccabile, l'"energica debolezza" e l'antipatia che lo contraddistinguono. E pensare che il regista le avrebbe preferito Marion Cotillard...
cast:
Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa, Babak Karimi
regia:
Asghar Farhadi
titolo originale:
Le passé
durata:
130'
produzione:
Memento Films Production, France 3 Cinéma, Bim Distribuzione
sceneggiatura:
Asghar Farhadi, Massoumeh Lahidji
fotografia:
Mahmoud Kalari
montaggio:
Juliette Welfling
costumi:
Jean-Daniel Vuillermoz
musiche:
Evgueni Galperine, Youli Galperine