"Se voi foste il giudice" è una rubrica de "La settimana enigmistica" dove viene chiesto di decidere chi avrebbe ragione tra due punti di vista ugualmente giustificabili. Asghar Farhadi fa lo stesso: fin dall'incipit ci mette di fronte a Naader e Simin con una soggettiva del giudice che sta vagliando la loro istanza di divorzio. Lei che vuole espatriare con la figlia undicenne per garantirle un futuro migliore, lui che vuole rimanere e prendersi cura del padre malato di Alzheimer. Quando lei se ne va di casa, la loro vita si intreccia a quella di un'altra coppia: Razieh, assunta come badante, e suo marito Hodjat, in una questione dove ognuno ha le proprie ragioni e nessuno ha davvero torto.
La messa in scena mescola la verosimiglianza della storia, dei dialoghi, dei volti (quello commovente del padre di Naader) e delle persone a un'impostazione teatrale -
ibseniana per il ruolo della donna,
pinteriana per tensione, e pirandelliana per la verità impossibile da stabilire - che è
background di Farhadi. Come in "
About Elly" veniva introdotto il mistero di una scomparsa, qui ce n'è un altro da districare: un incidente che si rivela enorme per i protagonisti. Qualunque punto di vista diventa credibile, ogni ragione inappellabile, ogni torto marcio. Il potere di giustizia della legge sterile e impotente.
Ritroviamo il muro di convenzioni della società iraniana, la religione, le tradizioni, i pregiudizi, le contraddizioni, il ruolo della donna, il senso della verità, ma soprattutto sono l'omissione e i segreti a dar seguito a strascichi imprevedibili.
Per quanto gli uomini si dimostrino ostinati, arroccati nelle loro posizioni e a loro modo fragili, sono le donne ad avere il coraggio di agire, anche se di nascosto. Le due protagoniste rappresentano quello che, secondo lo stesso regista, è il confronto tra due visioni del bene in conflitto: non ci sono buoni o cattivi tra cui scegliere. Farhadi però cerca di concentrarsi anche sulle donne che verranno: la piccola figlia di Razieh da una parte, e Termeh, la figlia adolescente di Naader e Simin, dall'altra, costretta a subire lo strazio della separazione, che viene formata dal padre anche con piccoli gesti, come chiedere il resto al benzinaio. È lo sguardo di solidarietà che le due si scambiano verso il finale a racchiudere un sentimento di reciproca incomprensione per quel mondo di adulti fatto di ostinazione, acredine, regole e leggi non scritte, di cui sono testimoni.
Dialoghi concitati, parole che si sovrappongono (ulteriore rammarico di vedere questi film doppiati), camera a mano, personaggi spesso di quinta, la pluralità di punti di vista come nella scena in cui Naader si trova con Razieh e Hodjat davanti al giudice con quella danza di concitati campi/controcampi a quattro, rendono la regia di Farhadi puntuale ed essenziale. L'impostazione teatrale viene rimarcata anche dai fatti riportati, o da quelli che si svolgono fuori campo, spesso dietro porte, pareti o vetrate: un corto-circuito di testimoni-giudici all'interno del film e al di fuori. L'occhio del cinema non arriva a mostrarci "la verità", ma si limita a testimoniare a sua volta.
Di nuovo un grande lavoro di attori, come ad esempio Sareh Bayat, costretta da Farhadi, per il suo ruolo di donna tradizionalista e religiosa, a recitare cinque preghiere al giorno, frequentare le letture del Corano per le donne e a non parlare agli uomini della troupe.
Il mistero, più che tendere semplicemente alla risoluzione, continua ad accumulare domande, per lo più di tipo etico. Dice sempre Farhadi di non essere interessato tanto all'azione, quanto all'intenzione che porta ad agire, e, quando questa diventa impalpabile e difficile da capire, allora anche quello che chiamiamo morale diventa fragile. La forza del film, il merito della sceneggiatura, sta in una costruzione di equilibri tra i personaggi di fronte a cui è difficile prendere posizione.
Meno toccante di "About Elly" per impostazione, ma capace comunque di emozionare e far respirare i personaggi, "Una separazione" ci consegna un regista che, all'interno delle soffocanti maglie della dittatura e pur avendo subito limitazioni, ci fa tastare il polso del suo paese. Ci introduce in una vicenda di personaggi vivi con cura e sensibilità letterarie. Come spettatori occidentali viene da chiedersi quante sfumature non cogliamo, quanto influisca quel fascino da turisti un po' sprovveduti, un po' benpensanti, che proviamo per quell'Iran che ogni volta ci meraviglia con le sue contraddizioni, la sua forza e il suo cinema.