L’arte è un processo di improvvisazione e ispirazione, non la si può circoscrivere all’interno di un universo raziocinante. "La Cinquième Saison" è una forma di cinema che pur non abusando dell’avanguardia più sfrontata, comunica mediante emozioni primordiali, a livello epidermico. Sul fronte di un estetismo delle immagini vicino alla forma pittorica, di un dialogo quasi impercettibile e di una costruzione narrativa che sfida la forma canonica perdendo progressivamente aderenza dalla realtà.
Alice e Thomas sono due ragazzini che vivono in un villaggio delle Ardenne, insieme a loro ci sono Pol, coltivatore d’api errante accompagnato da suo figlio in sedia a rotelle e tanti altri contadini dediti al lavoro e alla famiglia. Questo piccolo quadro bucolico viene messo a dura prova da misteriosi e improvvisi fenomeni (sovra)naturali: il legno non brucia più, le mucche non producono più latte e la neve cade d’estate, in una sorta di sviluppo delle tesi empiriste avanzate da David Hume. È l’inizio di un caos silenzioso e cinico che la natura trama ai danni dell’uomo. Diviso in quattro sezioni (una per ogni stagione), "La quinta stagione" è un ritratto grottesco e singolare sulla contraddizione del nostro tempo (la salvaguardia dell’ambiente in antitesi al consumismo), sull’arroganza e la violenza della natura umana (la setta alla ricerca del capro espiatorio - le particolari maschere sono figlie di un dipinto di Goran Djurovic). Lo sguardo minaccioso della natura, avvalorato dai primissimi piani di gufi e struzzi, è dunque solo il pretesto per una disamina antropologica che nel finale, volutamente interpretativo e misterioso, assume i connotati di un bizzarro disaster movie (il sacrificio di Alice, prima fisico e poi metaforico) aperto a flebili segnali di speranza (il finale con Thomas e il bimbo disabile).
Pur realizzando un cinema altamente derivativo (tornano alla mente "
I figli degli uomini" di Cuaròn e "
The Road" di Hillcoat, tratti dai romanzi di James e McCarthy ma anche l’avanguardia intimista de "Lo specchio" tarkovskijano e le incantevoli immagini documentaristiche di Angelopoulos e Herzog), Peter Brosens e Jessica Woodworth riescono con successo a rapire lo spettatore e a trasportarlo nella dissoluzione dell’atmosfera fiamminga, suscitando le più svariate sensazioni e conservando un inspiegabile fascino. Difficile dire che un’idea sia sfuggita di mano ai registi quando stiamo parlando di un cinema artistico e d’improvvisazione (addirittura sul fronte attoriale) ma sicuramente la prima parte è quella che offre un climax emotivo e uno
charme, diciamo, piuttosto inatteso. In ex-aequo con "
Spring Breakers" di Korine si potrebbe proclamare il miglior film della
69a Mostra nella prima mezz’ora.
"La Cinquième Saison" va inoltre premiato per aver portato a termine una trilogia coerente e scrupolosa sul rapporto uomo/natura dopo gli invisibili "Khadam" e "Altiplano", esperienze che dalla Mongolia passano per il Perù per poi approdare all’Occidente del nord Europa. Ancora una volta, la potenza dell’astrazione artistica assume il fulcro di un cinema capace di persuadere e affascinare le proprie emozioni/coscienze, in un disegno che annichilisce la prospettiva cerebrale. Operazione che inevitabilmente è destinata a staccare la critica in due tronconi.
05/09/2012