Il libro di un romanziere che ha scelto di parlare solamente attraverso i suoi libri e le capacità di un regista che giunto al suo terzo film si lancia nell’impresa di tradurlo in immagini
dopo una carriera spesa nella realizzazione di videoclip per gente come
Nick Cave,
Siouxsie and the Banshees,
Depeche Mode. Questo per dire come a volte gli incontri cinematografici siano il frutto delle esperienze più disparate e di accostamenti non proprio prevedibili.
La storia di un uomo e del proprio figlio costretti a sopravvivere in un mondo retrocesso a uno stato primordiale e la rappresentazione di un umanità costretta a fare i conti con le conseguenze della propria natura sono gli aspetti centrali di un film che, a dispetto del titolo, o forse nonostante questo, azzera ogni discorso a proposito dei poteri taumaturgici e di crescita personale connessi con il mito “on the road”, per rappresentare attraverso il movimento bisogni naturali come la ricerca di cibo, l’esigenza di non dare punti di riferimento ai propri simili, diventati per necessità mangiatori di uomini, ma soprattutto alimentare la speranza di un luogo dove il richiamo della vita sia
più forte di quello della sua antagonista.
Un processo di scarnificazione che interessa gli uomini e le cose e che il regista porta avanti con un rigore pari alla semplicità di una messa in scena che privilegia i fatti alle astrazioni, e dove a far la differenza sono dettagli minimi, quasi sempre affidati alla fisicità di attori che sembrano portare su di sé la fatica fisica e morale dei loro personaggi. In un
plot dove la poetica di Cormac McCarthy travalica la letteratura per diventare pura necessità (le conseguenze del male sono così devastanti e contingenti da non lasciare tempo alle spiegazioni così come agli aneddoti legati alle biografie dei personaggi) emerge la forza di un racconto che condensa all’interno di una struttura lineare e con le forme di un western postmoderno molte delle nostre paure quotidiane: da quella esplicita riconducibile alle allarmanti previsioni sulle conseguenze del riscaldamento globale a quella molto più sottile, ma non per questo meno importante, legata alla cognizione dello spazio concepito come vuoto da riempire,
e che il film rappresenta con una desertificazione che colpisce il paesaggio per esigenze di scrittura ma anche le parole, continuamente soffocate dalle conseguenze di una vita disumana.
Hillcoat, nel tentativo di rispettare lo scrittore e alle prese con un budget risicato, evita qualsiasi spettacolarizzazione, ma rischia di appiattirsi dietro una rappresentazione fin troppo monocorde: a salvarlo la dolente umanità dei suoi protagonisti e la bravura degli attori, ai quali il regista affida la riuscita del film.
22/05/2010