Il futuro signori. Questo (apocalittico) sconosciuto.
C'è una vasta letteratura e pure una numerosissima schiera di pellicole appartenenti alla sci-fi apocalittica. Genere questo nel quale si può trovare un futuro, prossimo e grigio, dove l'uomo fa del suo meglio per sopravvivere al degrado, alla distruzione e nel quale, solitamente, c'è qualcuno un po' più furbo e "forte" degli altri e instaura una dittatura.
Ecco, né più né meno è questo lo scenario di "Children of Men". Scenario che non aggiunge grandi novità al plot basilare e che anzi pesca molto - a volte mascherando, giustamente, con l'omaggio - dal passato glorioso di Dick o dalla genialità fotografica di chi ha già messo in immagini questo genere. Infine, immancabile, c'è pure il richiamo a quel signore che prima di chiunque altro ha saputo vedere "oltre" e ha influenzato tutta la letteratura successiva. Stiamo parlando di Orwell, certo. E quel maiale gigante, rosa, a mezz'aria sul cielo di una Londra infernale non è solo un omaggio ai maestri indiscussi della psichedelia britannica (i Pink Floyd) ma è anche, attraverso di essi, il richiamo obbligato a una delle principali fonti di ispirazione del genere cinematografico al quale appartiene questo film.
Detto ciò, affermare che "Children of Men" è un film banale e già visto sarebbe relativamente scorretto e ingiusto. Potendo contare su un notevole comparto d'attori, sul quale si eleva comunque un disilluso Clive Owen, il film di Cuarón racconta di un uomo "solo", in un mondo devastato dagli attentati, dalle lotte razziali (e qui non stiamo parlando di un futuro lontano) e nel quale l'umanità non riesce più a procreare (ma attenzione che quando il film è stato distribuito il problema nel mondo era esattamente opposto), un uomo qualsiasi, certamente non un eroe bensì un "mezzo", attraverso il quale l'umanità possa trovare un domani. Un massiccio uso della telecamera a spalla e la desaturazione della luce, riflessa su sghembe vetrate e dispersa sui calcinacci di un mondo (architettonico) alla deriva, spinge la visione in una tachicardica immedesimazione con il personaggio di Theo (Owen). In un mondo dove ciò che conta è solo un motivo per andare avanti e dove l'unica speranza risiede in un neonato - peraltro sbatacchiato a destra e a manca per trarlo in salvo dagli attacchi dei predoni - Cuarón "insegue" i gesti dell'uomo e li spinge in un degradato e ostile ambiente industriale - che ricorda molto la distruzione dei palazzoni di "Full Metal Jacket" nei quali si nascondevano i cecchini vietnamiti - scarnificato e non più sede di produzione o profitto, ma semplice ossatura ormai decrepita di un mondo vicino al suo crepuscolo.
Film non nuovo, come si diceva prima, ma messo in immagini con mestiere e fotografato in maniera decisamente notevole. Basato su un romanzo del 1993 della scrittrice P.D. James, pecca forse un po' in sceneggiatura (elimina tutta una serie di sviluppi di natura politica e sociale presenti nel romanzo e inevitabilmente semplifica parecchio il plot) e nell'ostinata mancanza di una luminosità visiva (come a "spiegare" un'assenza di speranza) appare un po' "piatto". Piattezza che, tuttavia, proprio nella sua inconsistente "profondità" alimenta nello spettatore un senso di claustrofobico disagio.
cast:
Clive Owen, Julianne Moore, Michael Caine, Claire-Hope Ashitey, Chiwetel Ejiofor
regia:
Alfonso Cuarón
titolo originale:
Children of Men
durata:
109'
produzione:
Marc Abraham, Eric Newman, Hilary Shor, Iain Smith, Tony Smith
sceneggiatura:
David Arata, Alfonso Cuarón, Timothy J. Sexton
fotografia:
Emmanuel Lubezki
scenografie:
Jennifer Williams, Ray Chan, Paul Inglis, Stuart Rose, Mike Stallion
montaggio:
Alfonso Cuarón, Alex Rodriguez
costumi:
Jany Temime
musiche:
John Tavener