From forth the fatal loins of these two foes
A pair of star-crossed lovers take their life(William Shakespeare,
Romeo and Juliet)
Capita, a chi segua i festival e ami scartabellare tra i titoli meno in vista, di imbattersi in lavori misconosciuti, in cui riconosca il baluginare improvviso di una scintilla di grande cinema. E, quando capita, il cinefilo di turno non manca di annotare mentalmente, nel suo ideale
carnet de voyage, il nome del responsabile di quell'agnizione inattesa, per poterne seguire con fiducia e passione il futuro percorso artistico. Una simile avventura mi ha avvicinato all'opera del regista di "Upside Down", con l'unica differenza che, quando il cognome è Solanas, non è certo necessario un taccuino per serbarne memoria. Figlio d'arte del celebre autore argentino che seppe esorcizzare il dramma dei
desparecidos nella messinscena carnevalesca di "Tangos - L'esilio di Gardel", Juan Diego Solanas si cimenta col suo secondo lungometraggio, otto anni dopo la bella prova di "Nordeste" e dieci anni dopo aver apposto la firma in calce a "
L'homme Sans Tête", lirico esordio nel cinema capace di condensare in quindici, intimi minuti la visionarietà delicata e surreale del suo autore, improntata ad una ricchezza espressiva di matrice dichiaratamente pittorica.
Aspetti, dunque, chi, spinto dal trailer, era già pronto a liquidare la pellicola come l'ennesimo, dolciastro residuo di quel sentimentalismo di marca disneyana, che tanti produttori ha esaltato nella Hollywood degli ultimi anni. Per quanto il contesto produttivo possa indurre in tentazione, è bene non comportarsi come chi, per vedere la foresta, perde di vista l'albero o, in questo caso, il film. Che si rivela tutt'altro che scontato, nella sua capacità di tradurre l'annoso tema della separazione degli amanti entro i margini di un'originale invenzione visiva, già pronta a farsi segno cinematografico e incessante stimolo alle vicende narrative.
Immaginando un incerto sistema solare a doppia gravità, in cui due mondi capovolti si affacciano l'uno sull'altro, Solanas orchestra il suo paradigma visuale sulle note di un crescendo, in cui convivono le tonitruanti (quanto prevedibili) risorse dell'establishment dello spettacolo e trucchi artigianali, genuini sino alla banalità (campi-controcampi dei due protagonisti realizzati ribaltando la macchina da presa), in cui, però, si ravvisa la gentilezza
à la Méliès di un tocco ironico e trasognato, l'ardore visionario dell'esordiente squattrinato che, inseguendo il sogno di realizzare un film, lo imposta su un'unica idea, ma primaria, perché cinematografica.
E poco importa che per giustificare la bizzarria del suo universo Solanas riscriva le leggi della fisica nel logorroico "monologo sopra i massimi sistemi", che apre il film, perché anch'esso, con la voce fuori campo ad incalzare le immagini astratte di un soffuso big-bang, diviene consapevole approccio ad un mondo che si dichiara da subito fiabesco e allegorico. Fin troppo, in realtà, visto che, in un impeto di furore nominalista, Solanas ha raccolto a sé il coraggio necessario per chiamare i protagonisti Eden e Adam, metamorfizzando nel richiamo al castigo biblico la radice di una lontananza che, archiviate le diatribe tra Montecchi e Capuleti, si fa ancestrale, fissata negli asserti della nuova fisica, che impedisce il contatto prolungato tra due corpi appartenenti a diverse gravità, pena: la combustione.
Coadiuvato dalla sontuosa fotografia di Pierre Gill, Solanas restituisce l'immagine multiforme di un mondo pronto a mutare di continuo sotto gli occhi incantati dello spettatore, pescando a piene mani da una vasta tradizione pittorica, che mescola il tratto limpido dell'onirismo surrealista ai fremiti di sublime del romanticismo di Friedrich. Un mondo in cui potete immaginare di avanzare sul fianco di un pendio irto e scosceso, ispessito da strati di neve e ghiaccio, magari condividendo l'odissea degli alpinisti di Herzog in "Gasherbrum - La montagna di luce", di sfidare la roccia sino a conquistarne la cima per poi, al momento di alzare gli occhi, scoprire che nessun raro orizzonte vi accoglie, alcun panorama si apre allo sguardo, anzi una nuova cima vi spia ironica dall'altra parte del mondo, come in un riflesso.
Ed è proprio in quei disperati orizzonti senza cielo, schiacciati tra l'indolenza di asettici grattacieli e l'umidità di una pioggia fangosa che sa di castigo dantesco, nella claustrofobia perseverante di uno spazio richiuso su se stesso, che si palesa la messa al bando di un intero sistema economico, quello Occidentale, che ha fatto dello sfruttamento indiscriminato delle risorse energetiche la sua ragion d'essere. Non è certo un caso che il mondo di sopra estragga il petrolio da quello di sotto per poi raffinarlo e rivenderne i prodotti al secondo in quantità irrisorie, contribuendo, così, al mantenimento di un perenne degrado sociale, che si traduce nei profili di un panorama grigio e decadente, su cui grava la memoria di tanti desolati scorci post-bellici del nostro secolo; ma non è tutto. Agli spettri terzomondisti, infatti, si sommano gli indizi di un totalitarismo economico improntato sul capitale, che schiaccia la dignità dei singoli in nome di idoli utilitaristici e si traduce visivamente nella rigorosa geometria che organizza i bianchi spazi del Transworld, asettico limbo e materiale
trait d'union tra i due mondi.
Molta la carne al fuoco, dunque, e non è escluso che qualche spettatore possa patire un'indigestione, aiutato, peraltro, da una sceneggiatura piuttosto confusa, le cui evidenti lacune non possono esser sanate col semplice richiamo alla dimensione favolistica. Possibile che in un ufficio strutturato su fantasie di controllo orwelliane nessuno si accorga delle continue sparizioni di un nuovo impiegato? Possibile che il rendez-vous al ristorante duri quanto il primo, fugace appuntamento nel Transworld? Possibile che a questo romantico Prometeo che cammina sottosopra non vada mai il sangue alla testa? Possibile che Kristen Dunst non si sia ancora stancata di elargire baci a testa in giù? Questioni apparentemente oziose, ma, per quanto l'espressività dell'impianto scenografico sbalordisca di continuo per invenzioni e complessità, è bene ricordare che quando è la storia, ancor più la fabula a dominare sul tutto, l'universo in cui è iscritta non può fare a meno di una interna coerenza per funzionare davvero.
In tutto ciò la regia Solanas si inserisce con la consueta personalità, mettendo a frutto la sua conoscenza del mezzo cinematografico e il delicato surrealismo di eredità paterna e seminando, nei risvolti narrativi, le tracce di un talento che lascia ben sperare per il futuro e ci impone di continuare a seguire con interesse l'evoluzione di questo eclettico percorso artistico.
E se a qualcuno venisse voglia di lamentare, con un filo di cinismo, la deriva stucchevole dell'epilogo frettoloso, val la pena ricordare che, in un'epoca di disordine sentimentale come la nostra, talvolta persino una morale risaputa e grossolana quale
amor vincit omnia può condurre a momenti di inattesa poesia.
04/03/2013