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recensione di Giuseppe Gangi
7.0/10

Quando si annuncia l'improvviso spostamento della distribuzione di un film molto atteso, diviene inevitabile pensarne male: all'epoca di "Shutter Island" si parlò subito di flop e l'accoglienza tiepida americana appariva preparata a tavolino. L'ultima fatica di Baz Luhrmann, annunciato a Natale e poi fatto uscire a maggio (sfruttato anche come proiezione di apertura del Festival di Cannes), non si discosta poi molto da questa parabola, ma con una più calcata accentuazione negativa. I giornali a stelle e strisce hanno dato dalle preview responsi ultra-negativi, seguiti dalla critica francese che, per smontare le grandi produzioni americane, non si fa di certo pregare.

Le attese accumulatesi negli ultimi tempi su "Il grande Gatsby" erano notevoli, anche considerando che il progetto che si stava profilando all'orizzonte era perfetto per un autore che ha sfruttato al meglio il suo talento immaginifico quando ha rielaborato opere e scenari del passato confondendoli con dettagli, ritmi musicali, atteggiamenti del presente, in un ammodernamento che non tradisce lo spirito, pur fornendo una rilettura originale e personale. Jay Gatsby è poi un personaggio-chiave della letteratura americana del Novecento: la sua è una storia bigger than life, una parabola che si staglia all'apice di un boom economico che sembrava inarrestabile ma la cui caduta di Icaro profetizzava con qualche anno di anticipo il crack del 1929. Conviene quindi mettere le mani avanti, affermando che di film che eguaglino la bellezza dell'amaro capolavoro di Francis Scott Fitzgerald, pubblicato nel 1925 ancora non ne sono arrivati, nonostante le trasposizioni siano quattro. Quella più famosa, firmata da Jack Clayton nel 1974, era un adattamento calligrafico e stantio, sebbene la sceneggiatura fosse stata scritta da Francis Ford Coppola (e iniziata da Truman Capote), ma il regista de "Il Padrino" confesserà anni più tardi che lo script da lui redatto era stato mandato probabilmente al macero.

Il lavoro di adattamento è fedelissimo alla lettera fitzgeraldiana, cosa che può sorprendere solo chi ha dimenticato la rielaborazione shakespeariana di "Romeo + Giulietta". La voce fuori campo di Nick è molto sfruttata e, tramite la sua posizione in avanti nel tempo, si possono idealizzare e mistificare determinati momenti: come il lirico primo sguardo che la macchina da presa posa su Daisy, presentata in un salone dalle tende bianche, in un'atmosfera dal candore accecante, o quando facciamo la conoscenza di Gatsby, sullo sfondo di un profluvio di fuochi d'artificio. Il regista australiano non risparmia nessun movimento di macchina, tra carrellate, dolly, panoramiche e virtuali accelerazioni, trucchi digitali e continue sovrimpressioni: il movimento è il combustibile del suo cinema, insieme a un montaggio che ha le sincopi del videoclip anche grazie alla colonna sonora che, invece di una ricostruzione filologica, mescola charleston e Lana Del Rey, George Gershwin e Bryan Ferry, con il refrain assassino di "A Little Party Never Killed Nobody", dove uno swing di sax si accoppia alla voce di Fergie e a un tripudio di synth da techno-music.

La ricostruzione dell'Età del Jazz passa attraverso bisbocce e feste faraoniche e, oltre alle scenografie maggiorate con la computer graphics, Luhrmann si appoggia molto alle lumeggiature della fotografia di Simon Duggan, che lavora non solo sulla composizione cromatica, ma anche sulla dicotomia espressiva tra profondità di campo e sfocature. La grandeur che vuole esprimere Gatsby attraverso le feste che devono diventare ombelico del mondo per attirarvi tutte le persone che contano, sperando di incontrarne solo una, è il paradosso che schiaccia il meraviglioso personaggio di Fitzgerald. L'appropriazione della fonte - evidentemente amata dal regista - si ferma però su un piano formale e, per di più, la narrazione di Fitzgerald riprende le redini del film giusto dopo la metà, arrestando Luhrmann, la cui orgia visiva si trasforma giustamente in festival del pacchiano e dell'eccesso. Il motivo per cui questo "The Great Gatsby" non è il capolavoro che alcuni di noi attendevano (ma né, tantomeno, il fallimento di cui molti parlano a sproposito), è l'avere di meno e non di più: meno Luhrmann e, quasi di conseguenza, meno delle atmosfere di Fitzgerald. Un eccesso limitato e un languore malinconico che presenta il conto nelle battute finali, senza la tessitura costante in un racconto che è la quintessenza del melodramma, fondato com'è sul tentativo di ritornare a un idillio lontano ed effimero (metaforizzato dalla luce verde dall'altra parte della baia).

L'arrampicata sociale di Gatsby, epitome del self-made man del sogno americano, è la scalata di un visionario che ha una grande considerazione per se stesso, ma che non ha dimenticato il suo primo grande amore, luce di un passato a cui tende per potersi costruire un futuro. In tal senso, la dissoluzione tragica dell'impero di Gatsby è inevitabile, poiché il suo sogno arde grazie al sentimento romantico. Come gli dice Nick nel loro ultimo incontro, lui "vale più di tutti quanti loro messi insieme": pur con una storia personale refrattaria alla verità, si fa portatore di una purezza morale dimenticata da coloro i quali si adagiano solo nei soldi e nel buon nome familiare.

La direzione degli attori è il principale vettore di osservazione emotivo per Luhrmann e non è un caso che ci sia variazione di stile recitativo, tra il compassato e l'isterico, con persino un passaggio da sophisticated comedy (il tè in casa Carraway). Da questo punto di vista, ineccepibile è il casting, in cui, forse, solo il rude Joel Edgerton risulta un po' stereotipato, mentre è azzeccato Tobey Maguire nella sua maschera da uomo comune in mezzo a eventi straordinari, triste la Daisy di Carey Mulligan, donna superficiale e "noncurante" e, infine, Leo DiCaprio che alle prese con Gatsby pone in calce una delle sue caratterizzazioni più profonde. Jay Gatsby sembra infatti scritto appositamente per lui, ma l'attore trentottenne riesce a donargli oltre alla dovuta allure carismatica anche l'irrequietezza psichica tipica degli oscuri eroi di Welles - chiudendo il cerchio di un'influenza evidente ma spesso taciuta.
 
Rispetto al romanzo, il personaggio di Jordan Baker (Elizabeth Debicki) è molto in ombra, così come il suo rapporto con Nick. Per analizzare meglio quest'aspetto, forse secondario, occorre partire dall'operazione luhrmanniana che sfrutta, come già accennato, il cliché del narratore interno: Nick Carraway si trova infatti in una clinica (la cartella dice per intossicazione da alcol e depressione), dove racconta al suo terapeuta di quell'estate del 1922, quando andò a vivere a West Egg, in un cottage che casualmente stava accanto alla magione di sconsiderate dimensioni appartenente a un misterioso milionario. Il fatto che il racconto divenga scrittura può essere un semplice omaggio a Fitzgerald, visto che nel romanzo Carraway diceva di rileggere quanto stesse scrivendo, ma il memoir è una pratica psicoanalitica; inoltre, si possono riscontrare alcuni dettagli stranianti: Nick sembra completamente libero, come se la clinica potesse essere casa sua (e, pertanto, un suo costrutto mentale), lo scenario interiore del "suo" presente è l'inverno (l'ambientazione del prologo), mentre il salto nella memoria ci riporta alla stagione estiva. Il netto taglio del rapporto con Jordan Baker rende quindi Carraway un puro voyeur delle vicende altrui: la battuta di Tom, "A te è sempre piaciuto guardare", non esiste difatti nel romanzo. Infine, è l'unico a capire la grandezza interiore di Gatsby e ad accompagnarlo nell'ultimo viaggio, come il sacerdote di un culto privato. La nostra passione per il personaggio interpretato da DiCaprio è dovuta al filtro di Nick. Allargando ancora di più la nostra prospettiva, diviene evidente che, allo stesso modo, tutta la vicenda è osservata silenziosamente dagli occhiali del Dr. T.J. Eckleburg, il vecchio cartellone pubblicitario di un oculista assurto a simbolo di un Dio assente nella valle dei reietti (il Queens, all'epoca).
Questa stratificazione percettiva, presente, ma forse un po' sfocata nel disegno generale, apre altre strade ermeneutiche per un'opera imperfetta, certo, ma tutt'altro che banale o povera di idee.


17/05/2013

Cast e credits

cast:
Leonardo DiCaprio, Tobey Maguire, Carey Mulligan, Joel Edgerton, Isla Fisher, Jason Clarke, Elizabeth Debicki


regia:
Baz Luhrmann


titolo originale:
The Great Gatsby


distribuzione:
Warner Bros. Pictures Italia


durata:
142'


produzione:
Village Roadshow Pictures; Warner Bros. Pictures; A&E Television Networks; Bazmark Films; Red Wagon


sceneggiatura:
Baz Luhrmann, Craig Pearce


fotografia:
Simon Duggan


scenografie:
Damien Drew; Ian Gracie


montaggio:
Jason Ballantine; Jonathan Redmond; Matt Villa


costumi:
Catherine Martin


musiche:
Craig Armstrong


Trama
Nick Carraway, un giovane del Midwest trasferitosi a Long Island, è affascinato dal misterioso passato e dallo stile di vita eccessivo del suo padrone di casa, il ricco Jay Gatsby. Entrerà a far parte del suo circolo e diverrà testimone di ossessioni e tragedie.
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