Il trentasettenne Jia Zhang-Ke è una delle realtà più preziose del nuovo cinema asiatico: attivo dal 1997, anno dell'interessante debutto bressoniano "Xiao Wu", con "Still Life" arriva per la prima volta nelle nostre sale grazie al Leone d'Oro vinto all'ultima Mostra del Cinema di Venezia (il pubblico italiano ha potuto vedere altri suoi film solo grazie al Fuori Orario di Rai Tre).
Giunge dunque con il suo quinto lungometraggio in fiction, probabilmente il suo lavoro più complesso. E il migliore.
La prima, "involontaria", domanda che la pellicola pone allo spettatore occidentale è la seguente: fino a che punto un pubblico tanto distante da una cultura come quella cinese può immergersi in un universo tanto estraneo al proprio?
Domanda tanto arrischiata, con la quale non può che interagire una barriera di materia soggettiva.
L'autore ha da sempre compresso nelle sue pellicole un argomento spinoso e non facile: le conseguenze e i cambiamenti della Repubblica Popolare Cinese durante la trasformazione industriale, ancora in corso.
E "Still Life" fa tutto ciò adoperando armi ancora più esplicite che nei lavori precedente dell'autore, che parte dal suo recente documentario "Dong", sul pittore Liu Xiaodong e la realizzazione di un suo dipinto avente come soggetto la diga delle Tre Gole, sul fiume Yangtze.
Ed è proprio in questo spazio che si colloca il film: il vecchio villaggio di Fengje sta gradualmente venendo sommerso dalle acque, a causa della costruzione della diga stessa. Un luogo che ci appare come sospeso, in una visione subacquea da accostare all'"Arca Russa" di Sokurov: in questo caso la vecchia Cina è in fase di smantellamento, ma lo sguardo di Jia Zhang-Ke non è mai quello di critico combattente, di colui che si mette al servizio di una denuncia di determinati misfatti. Piuttosto il suo spirito viaggia in cadenze malinconiche, con il giusto distacco che permette a chi guarda di ragionare su dati di fatto, ma allo stesso tempo di commuoversi per la demolizione di un mondo che ancora conserva(va) valori primari e calorose tradizioni.
Sullo sfondo due storie, che interagiscono di pari passo con il paesaggio: quella di un minatore alla ricerca della ex moglie che non vede da sedici anni, e quella dell'infermiera Shen Hong, che torna a Fengje per incontrare il marito non più amato. Due ceti sociali differenti, due destini diversi, abbozzati con rimandi a un ideale incrocio tra l'incomunicabilità alla Antonioni e il neorealismo rosselliniano (gli attori si muovono tra autentiche macerie, come accadeva nel '46 in "Paisà").
Jia Zhang-Ke si serve prevalentemente di gentili e pregevoli piani sequenza, componendo fotogrammi accurati ma mai stilizzati, in inquadrature che nella prima parte hanno un impianto spoglio che con lenta progressione finisce con il riempirsi, e nella seconda parte assumono una secchezza ostacolata da lampi surreali e ironici, che si prestano a loro volta a svariate interpretazioni: oltre a un indiscutibile fascino figurativo, il disco volante e l'edificio che si stacca dalla terra per inoltrarsi nel cielo rappresentano una utopica fuga dal mondo disintegrato o segnali di speranza per un nuovo domani?
Il mondo di "Still Life", che espone i disordini contemporanei con echi della Tativille di "Play Time", fa riflettere e mette in guardia, ma con grazia e affetto.
Un piccolo grande gioiello.
cast:
Han San-Ming, Wang Hong-Wei, Zhao Tao
regia:
Jia Zhang-ke
titolo originale:
Sanxia haoren
distribuzione:
Lucky Red
durata:
105'
produzione:
Shanghai Film Studios / Xstream Pictures
sceneggiatura:
Jia Zhang-Ke
fotografia:
Nelson Yu Lik-Wai