Anche la saga dei "leoni" giunge a conclusione. Ma più che un ruggito è un miagolio. Abbandonata definitivamente ogni velleità sociologica che possa aiutare ad inquadrare il Paese di oggi (la fuga verso la trasgressione -Las Vegas o Bangkok cambia poco- come valvola di sfogo da un'esistenza conformata e borghese) la serie diretta da Todd Phillips evita saggiamente (o no?) di replicare la struttura catastrofica-mistery "a ritroso" dei primi due capitoli, e, soprattutto, cala vistosamente il livello di volgarità (visiva più che verbale), che nella "
Parte II" aveva alzato in maniera preoccupante l'asticella di "quello che è consentito mostrare" nell'ambito del cinema demenziale, puntando verso un meccanismo da noir "on the road" che rischia di scontentare i fan dei film precedenti (e, difatti in patria, gli incassi si sono dimezzati).
La buona notizia è che, per fortuna, "Una notte da leoni 3" non è l'ennesimo pallido remake fotocopia del capostipite. Quella cattiva è che si ride, e si graffia, molto meno. Quando il boss malavitoso Marshall (un John Goodman in modalità Coen) prende in ostaggio il "solito" Doug, il branco composto dallo sprezzante Phil), il timoroso dentista Stu, e lo svitato bipolare Alan (ormai promosso al rango di protagonista assoluto) è costretto a mettersi alla ricerca del criminale -loro vecchia conoscenza- Mr. Chow, che ha sottratto a Marshall un bottino di ben ventun milioni di dollari. Tra Tijuana e
Las Vegas (di nuovo!) l'impresa non sarà facile. Toni, apparentemente, incupiti, più azione e sequenze rocambolesche, e il tentativo di conferire spessore psicologico ai protagonisti, a partire dall'Alan di Zach Galifianakis, che per la prima volta è "obbligato" ad una sorta di cammino di crescita e maturazione, non sono sufficienti a garantire il finale "epico" promesso dal regista, limitando i momenti davvero divertenti ad un pugno di occasioni (l'iniziale incidente causato dalla giraffa, tra effettacci splatter e catastrofismo alla John Landis, l'incursione notturna al Caesar Palace) e offrendo al pubblico un contentino post titoli di coda, in cui i protagonisti sono alle prese con i postumi di un'altra disastrosa festa.
Se la sceneggiatura dello stesso regista e Craig Mazin zoppica tra provocazioni innocue e prevedibilità, a salvare il film dal disastro è la simpatia, innegabile, dei tre interpreti, coadiuvati da una nutrita schiera di bravi caratteristi (il già citato Goodman, la ritrovata ex-escort Heather Graham, Melissa McCharthy, Jeffrey Tambor) purtroppo troppo poco sfruttati, a favore dell'insopportabile Ken Jeong-Chow, che sta in scena più di tutti gli altri, e di cui la produzione minaccia già un temibile
spin off.
E così una saga inaugurata all'insegna dell'originalità e della provocazione, si chiude in maniera stanca e docile, come consuetudine nel cinema
mainstream americano dell'ultima decade.