Un film da vedere e un peccato poterlo vedere soltanto un anno dopo la sua uscita e con tutte le difficoltà di una distribuzione a dir poco scarsa. Ispirato a un fatto di cronaca risalente al 2001, anno in cui si registrarono molti episodi simili. In una località turistica sull'isola di Palawan, nelle Filippine, un gruppo di venti persone, tra cui filippini e alcuni americani, viene sequestrato da Abu Sayyaf, un gruppo separatista islamico imparentato alla lontana con Al Quaeda.
Via le bibbie e dentro il corano. Se è vero che c'è un solo dio, le interpretazioni che se ne danno in terra sono a dir poco variopinte. Mitra puntati contro le vittime sono condotte nella giungla.
Ed è qui che anche Mendoza ci vuol condurre.
In un luogo non luogo in cui le condizioni di vita precedenti sono annullate. Un inferno che però ha i tratti del paradiso, di una bellezza abbagliante e insondabile. La selva non è oscura, ma invasa dalla luce. In contrapposizione e soprattutto indifferente alla tragicità degli eventi, la luce filtra e riprende gli uomini alle prese coi loro giochi mortali.
La giungla è protagonista. E' la "grande madre", sinonimo di vita e simbolo ancestrale che precede l'umanità e l'accoglie nel suo ventre. E al tempo stesso è un universo autosufficiente, composto da microcosmi altrettanto autosufficienti, in cui piccole creature svolgono i loro riti quotidiani.
Per i rapitori la giungla è un rifugio in cui far perdere le tracce. Per le vittime l'esacerbata cornice della loro nuova condizione: la lotta per la sopravvivenza. Per la giungla è solo un passaggio, uomini in marcia che combattono confusi tra fede e denaro, uomini che uccideranno e moriranno per niente.
Ma più che le sorti dei personaggi, a Mendoza interessa la complessità del rapporto che s'instaura fra le due parti, ognuna vittima del proprio inganno: credere che una "guerra" abbia le sue ragioni o far finta che la guerra non esista.
E adesso sono di fronte gli uni agli altri, oppressi e oppressori, queste vittime che siamo anche noi, al sicuro nei nostri giardinetti.
E il giovane Ahmed (Timothy Mabalot) cede all'umanità - intesa come anima o meraviglia chimica che ci distingue per esempio dai serpenti, dai ragni, ma anche dai cerbiatti - incontrandosi per un attimo profondamente con Therese (Isabelle Huppert), ma poi di nuovo i due si separano e tornano nei loro ruoli.
Alcuni si salvano, altri soccombono agli stenti, alla violenza, o alle incursioni affrettate del governo filippino. E' l'odio a uscire vincitore, tutto sommato. La scena del matrimonio ha un impatto feroce sulla libertà che siamo abituati a immaginare. Ma l'odio fa parte di noi, ed è negandolo che si comincia a ingannarsi.
26/02/2013