A cosa serve il denaro
se vivo come un prigioniero
in questa grande nazione;
quando ci ripenso, piango,
benché la gabbia sia d'oro
non smette di essere una prigione.
(Los Tigres del Norte,
La Jaula de Oro)
Decisi a riscattare le proprie fantasie giovanili e fuggire dallo squallore di un'esistenza senza prospettive, tre adolescenti guatemaltechi - Juan, Samuel e Sara, che sarebbero piaciuti a Truffaut - affrontano un cammino di speranza attraverso il Messico per conquistare il mito del sogno americano (solo due di loro, in realtà; Samuel, scoraggiato dalle retate della polizia e ormai rassegnato all'indigenza, viene presto sostituito dall'indio Chauk, che non conosce una parola di spagnolo e si esprime a gesti). L'esperienza clandestina si rivela, però, irta di insidie fino a costringere i piccoli protagonisti a fare i conti con l'amara realtà di un mondo che cerca solo di respingerli.
Alla sua opera prima Diego Quemada-Dìez costruisce un film che comincia come un'elegia dell'adolescenza
on the road alla "Stand by me" e infine si abbandona, spossato, su un doloroso paesaggio di frontiera che sarebbe piaciuto ad Iñárritu. Non è certo un caso, dato che del regista di "
Babel" Quemada-Dìez è stato operatore alla macchina, per quanto, in realtà, siano molte le collaborazioni illustri che valorizzano il curriculum dell'esordiente spagnolo: accanto al regista messicano che ha indagato la natura molteplice dei confini (territoriali e non) in cui si articola la confusa geografia delle relazioni umane figurano, infatti, i nomi di Spike Lee, Tony Scott, Oliver Stone, Fernando Meirelles e, soprattutto, quel Ken Loach al cui sguardo perennemente in bilico tra finzione scenica e realismo documentario certamente si deve la sincerità di un approccio che mescola riprese in sequenza, scenografie reali e movimenti di macchina essenziali ad inseguire i volti degli attori, ovviamente non professionisti.
"La gabbia dorata" si innesta, così, in un crocevia di influenze diversissime, tra cui riesce ad indovinare un preciso equilibrio nell'affastellarsi di dettagli sparpagliati negli angoli del racconto. In questo senso il film di Quemada-Dìez è ottimo cinema anzitutto per la scioltezza che dimostra nel mescolare i generi, tracciando un percorso che rimbalza senza sosta tra commedia intimista e dramma sociale, per la capacità di inglobare nel tessuto narrativo le tracce di un citazionismo, che non è mai gratuita esibizione di una cinefilia nutrita di se stessa, ma il correlativo oggettivo delle suggestioni depositate sul fondo della nostra memoria di spettatori e pronte a riaccendersi al minimo accenno. Al già indicato modello della fuga
on the road (col suo persistente immaginario di rotaie e ponti ferroviari che dal film di Rob Reiner immancabilmente disegna la topografia del viaggio adolescenziale) si accompagnano le allusioni di un innocente triangolo amoroso che guarda divertito a "Jules e Jim" (con l'intraprendente Juan e il misterioso Chauk pronti a contendersi le simpatie di Sara - costretta a celare le proprie fattezze femminili sotto una garza, come Hilary Swank in "Boys Don't Cry", per motivi che la pellicola non esita a rivelarci in una delle sequenze più disperate), ma anche le vibranti suggestioni di un immaginario western - tra John Ford e "Il cavaliere della valle solitaria" - che costituisce la mitologia dell'
american dream e si indovina nel dettaglio degli stivali indossati dall'aspirante yankee Juan o nella meravigliosa scena della gallina, ispirata da "L'imperatore del nord" di Robert Aldrich.
"La gabbia dorata" rimane, così, sospeso tra il crudo realismo di scene che indagano i metodi repressivi degli agenti di polizia o l'orrore del traffico di vite umane e l'emergere in sordina di una rete di riferimenti che ancora gli sviluppi narrativi alla storia del cinema, facendo del dettaglio cinefilo un grimaldello dell'inconscio collettivo. La "verità" sedimentata dal cinema nell'immaginario collettivo influenza la nostra partecipazione al destino dei protagonisti, al punto da farceli sentire ancor più vicini in questa storia di speranze e sopraffazioni, che aderisce alla vita senza nulla nascondere allo spettatore.
Troppo matura la consapevolezza del regista per sperare in un
deus-ex-machina che sciolga i nodi dell'intreccio e ci risparmi il dolore per un finale già scritto negli occhi malinconici di Juan, nel cui precario portamento da leader si profila l'insorgere di una rassegnazione, sempre tacitata da gesti di forzata spavalderia. Un pragmatismo che si scontra da subito con l'inafferrabile Chauk, fascinoso interprete di un mondo ideale, slegato dalle contingenze terrene. Oltre le barriere sociali e linguistiche, l'indio comunica con la forza primordiale della gestualità, ma non per questo le relazioni che instaura tramite il contatto fisico si rivelano meno solide e durature, come dimostra il faticoso rapporto che lo lega a Juan.
In tutto ciò la cinefilia di Quemada-Dìez, ancora una volta chiamata in causa laddove le parole non possono arrivare, ben sintetizza il microcosmo di speranze che circonda i protagonisti nell'immagine soffusa di una nevicata notturna, sequenza tradotta dall'
Haneke de "Il settimo continente" e ripetuta con l'indolenza di un gesto ipnotico, quasi un miraggio, un'allucinazione o, ancora, un desiderio: quello di riuscire, un giorno, ad afferrare con le proprie mani uno di quei candidi fiocchi.
04/11/2013