In questo caso a farla da padrone, almeno se vogliamo dare retta all'eco che ha preceduto l'uscita del film, è la scelta di girare utilizzando per quasi tutte le riprese uno smartphone, di cui Delbono si serve per raccontare di sé e degli amici intercettati nel corso del viaggio esistenziale e geografico lungo le strade d'Italia e d'Europa. In realtà, se inquadriamo l'eccezionalità del mezzo filmico come una necessità innanzitutto linguistica, necessaria al regista per esprimere al massimo grado un'adesione alla vita che solo la presenza "invisibile" del cellulare poteva moltiplicare, ad interessare è la densità magmatica dell'esistenza che Delbono riesce a trovare attraverso la duttilità di uno strumento che riesce a condensare frammenti di vita dei più disparati: dalla messinscena della sieropositività, rubata all'ambulatorio d'ospedale dove Delbono di fronte all'ignara dottoressa si sottopone al prelievo del sangue facendo finta di non conoscerne gli esiti, all'anziana madre a cui il regista toglie l'audio per impedirsi di riascoltarne le litanie e i rimbrotti, ad amici e artisti (Irene Jacob, Tilda Swinton, Bobo, Marisa Berenson) chiamati a fissare con un'espressione del volto o con un frammento del proprio vissuto i particolari di un'esistenza che Delbono scompone in una serie di isole visive ed emozionali, supportate dai versi di poeti come Rimbaud, T.S. Eliot e Pasolini, e tenute insieme da un crogiolo di pulsioni che oscillano tra voglia di fuga e immersione totale nelle vite degli altri.
Il risultato è un flusso di coscienza attraversato da sentimenti ambivalenti e da domande destinate a rimanere insolute tanto nella visione di una vecchiaia interrogata nei suoi aspetti meno retorici - illuminante è il vaticinio dell'ottuagenario solitario e spaventato da una realtà che finge di capire e di anticipare - che nei ricordi devastanti ed irredimibili dell'olocausto, scolpito nella visione muta e solitaria del campo di concentramento ripreso rigorosamente dall'esterno, a testimoniare, nella volontà di non oltrepassarne il cancello, un pudore per un dramma che non ha bisogno di ulteriori aggettivazioni. In questo modo "Amore carne" diventa l'attestato di un'arte irriducibile alle leggi del mercato ed allo stesso tempo espressione di una libertà che Delbono traduce senza fare sconti alla comprensibilità dei contenuti. Da "sentire" e da ascoltare l'opera ha forse il limite di essere troppo legato all'esperienze extra cinema del suo autore, di cui il lungometraggio sembra quasi filmarne un primo consuntivo. Delbono s'intravede a stento: un occhio, un pezzo di viso, a testimoniare forse il bisogno di dimenticarsi dentro l'occhio della videocamera, come se sparire dallo schermo servisse ad immaginarsi al di fuori della vita che gli appartiene, riversato all'interno per il tempo della proiezione che gli/ci scorre davanti. Presentato a Venezia nell'ultimo anno della gestione di Marco Muller, "Amore carne" arriva nelle sale dopo quasi due anni dalla prima apparizione. Come un alieno giunto sulla terra appare fuori posto, disturbante nella sua diversità.
cast:
Marisa Berenson, Bobò , Irene Jacob
regia:
Pippo Delbono
titolo originale:
Amore carne
distribuzione:
Tucker Film
durata:
75'
produzione:
William Medici
sceneggiatura:
Pippo Delbono
fotografia:
Pippo Delbono
montaggio:
Fabrice Aragno
musiche:
Alexander Balanescu, Mike Galasso, Les Anarchistes, Laurie Anderson