Un potente e scaltro uomo d'affari d'improvviso deve fare i conti con i suoi scheletri nell'armadio che escono allo scoperto, tutti insieme, col rischio di mandarlo in rovina. Così, a un veloce colpo d'occhio, "La frode" potrebbe facilmente apparire come il semplice restyling visivo, peraltro molto riuscito, della canonica miscela di dramma familiare e thriller "politico" (e qui per "politico" s'intende un capitalismo duro e puro). I personaggi, i colpi di scena, le star non mancano e gli ingredienti ci sono tutti: "sesso, denaro, potere" come recita la tagline italiana del film. Eppure, dietro una lettura puramente denotativa che circoscrive la pellicola in un genere "istituzionalizzato" soprattutto nel panorama cinematografico americano, si cela una riflessione "interna" complessa e nient'affatto banale.
Quello incarnato da Richard Gere è un personaggio-tipo che ostenta volontariamente i suoi standard drammaturgici. Fin dalla breve intervista televisiva che apre il film (con quel "m-o-n-e-y" scandito con cinismo e sfacciataggine), lo spettatore è in grado di anticipare gran parte delle prerogative caratteriali del protagonista, tanto da intenderlo come un nuovo Gordon Gekko. Eppure, col passare dei minuti, ci si accorge della notevole distanza che separa le due figure. Mentre l'insolente capitalista interpretato da Michael Douglas incarna con chiarezza tutto il marcio che Stone ravvisava profeticamente nel mondo dell'alta finanza, Robert Miller, pur rappresentando quella stessa sfera sociale, nasconde un dramma più intimo e sottile, slegato dal consequenziale evolversi della storia e connesso piuttosto al ruolo che lui stesso è destinato, se non proprio condannato, a ricoprire.
Oscar Wilde direbbe che "c'è una fatalità in ogni distinzione fisica e intellettuale, quella sorta di fatalità che nella storia sembra seguire come un cane i passi incerti dei re".
È singolare che l'insolito accostamento di regalità e incertezza ritorni anche nelle parole della moglie di Miller che, mentre gli annoda la cravatta, lo descrive scherzosamente come "regale, saggio e un po' preoccupato". Il turbamento del maturo magnate sembra derivare non solo dai segreti che nasconde, ma anche dall'impossibilità di scegliere e di redimersi. Perciò, la capacità di identificarsi con un personaggio per molti versi spregevole non deriverebbe tanto dall'ambiguità della sua indole, ma dalla partecipazione empatica a una profonda tensione interiore, legata all'assenza di alternative. È un tragico determinismo quello che Miller tenta di comunicare alla figlia, dopo che questa ha scoperto i suoi disonesti sotterfugi; infatti non tenta di giustificarsi, ma si limita ad affermare che quello è il ruolo che è destinato a svolgere. In quest'ottica, seppur con necessaria cautela, è possibile affiancargli un altro personaggio "in crisi": l'Eric Packer di "Cosmopolis". Non soltanto perché condivide con Miller l'abitacolo di lussuose automobili, ma soprattutto perché anch'egli è imprigionato in una "parte" che lo condurrà a esiti inesorabilmente autodistruttivi.
Sorprendentemente affine a "La frode" è anche il turbolento "Flight" di Zemeckis. Robert Miller e Whip Whitaker sono due figure icastiche che rappresentano realtà e contesti analoghi. Nei percorsi impervi di queste personalità complesse e antieroiche sono tematizzate pressoché tutte le possibili, drammatiche congiunture tra crisi collettive (sociali, politiche, economiche) e crisi individuali (morali, affettive, familiari e identitarie). Per quanto frutto di concezioni simili, i due personaggi si risolvono in modo opposto. Laddove Zemeckis inserisce, in forma di monologo, una lunga confessione che redime il suo personaggio, riconsegnando al pubblico la certezza di un autentico, seppur umanissimo, "eroe", insieme a un sincero messaggio di speranza, Jarecki chiude con un silenzio spietato, senza aprire orizzonti ottimistici. Il capitano Whitaker riesce, grazie a un audace atterraggio di fortuna, a evitare uno schianto fragoroso e letale. Al contrario Robert Miller, seppur più scaltro, lucido, controllato del pilota, non ha scampo: può anche preservare la propria "immagine pubblica", ma conduce inevitabilmente alla deriva la propria vita affettiva che crolla, silenziosamente, nella solitudine.
L'esordiente Nicholas Jarecki, anche autore dell'ottima sceneggiatura (nonché fratello dell'Andrew di "Love & Secrets"), ha le idee ben chiare e imposta una regia personale, accurata, agile. I frequenti cambi d'inquadratura che dissezionano le diverse sequenze creano un affascinante gioco di angolazioni e punti di vista, motivo di ulteriore tensione e disorientamento per lo spettatore. Grazie a un ritmo serrato, "Arbitrage" seduce e avvince, eppure, nonostante i colpi di scena siano condensati a breve distanza l'uno dall'altro, si tiene lontano da un approccio frettoloso o superficiale e riesce a crescere notevolmente a fine visione. Oltre a questo, si registrano i preziosissimi contributi di un cast esemplare (non solo Gere, qui davvero al suo meglio, ma anche Susan Sarandon, Brit Marling, Tim Roth) e dell'infallibile, gelido commento elettronico di Cliff Martinez.
cast:
Richard Gere, Susan Sarandon, Brit Marling, Laetitia Casta, Nate Parker
regia:
Nicholas Jarecki
titolo originale:
Arbitrage
distribuzione:
M2 Pictures
durata:
107'
produzione:
Robert Salerno, Kevin Turen
sceneggiatura:
Nicholas Jarecki
fotografia:
Yorick Le Saux
scenografie:
Beth Mickle
montaggio:
Douglas Crise
costumi:
Joseph G. Aulisi
musiche:
Cliff Martinez