L'assassino torna sempre sulla scena del delitto. La carriera di Tim Burton, sotto contratto con la Disney da "
Alice in Wonderland", ha assunto una traiettoria circolare: divenendo un filmmaker al servizio di uno Studio, Burton è tornato al punto di partenza, alla sua casa-base. Ha fatto mettere una toppa a quando i successori di Zio Walt licenziarono quel ventiseienne, disegnatore dal talento esplosivo ma eccentrico, perché spendeva fior di quattrini per film dai tratti troppo cupi e orrorifici per poter piacere a un pubblico di bambini. Il prodotto che offrì il pretesto per il licenziamento fu a quanto pare il cortometraggio di poco meno di mezz'ora intitolato "Frankenweenie" e narrante la storia di un bambino che riporta in vita il proprio cane, morto prematuramente a causa di un incidente. Il bambino, per la cronaca, si chiamava Victor Frankenstein e il corto scorreva in un profluvio di citazioni, tra il bianco e nero dell'espressionismo e gli horror della Hammer, tanto da poter essere considerato un sunto tematico-stilistico delle inclinazioni burtoniane. Nel 2012 il regista di Burbank ha resuscitato quel soggetto, traendone un lungometraggio. Che Burton sia cambiato e abbia tradito lo spirito del cinema che l'ha fatto amare a una generazione di cinefili è ormai indubbio: se si esclude quello che è a tutti gli effetti il suo canto del cigno, cioè "
Big Fish", a Burton è andata bene quando si è rifugiato nella maniera (vedi le i contrasti de "
La sposa cadavere" che richiamano "The Nightmare Before Christmas") e così "Frankenweenie" si presenta come una corsa ai ripari di un regista che ha finito la benzina e vive quasi di rendita, dovendo persino riciclare un'idea avuta ventotto anni fa.
Ogni sua nuova opera denota l'irreversibile presa di distanza del nuovo-Burton con l'alter-ego giovanile e in "Frankenweenie" si può registrare quasi un campionario che include un interessante confronto tra vecchi cliché e idee del nuovo corso, tra manierismo e normalizzazione. Se la cittadina di New Holland è ricalcata su quella canonizzata in "Edward mani di forbice", lo sguardo sui "freaks" che la popolano si è ormai modificato: non più personaggi mostruosi da comprendere compatire e, in certi casi, da amare ma mostriciattoli che sono in fin dei conti i veri
villain del racconto, che chiedono aiuto al nostro eroe quando la situazione diventa fuori controllo. Entrando nel dettaglio, il gobbo Edgar, un compagno di classe di Victor che dovrebbe essere la rilettura dell'Igor di Mary Shelley, non solo non è il suo braccio destro ma è anche il personaggio più viscido e negativo, seguendo una caratterizzazione lombrosiana spesso tipica di produzioni hollywoodiane ingenue, che proprio Burton si era divertito a ribaltare causticamente per tutti gli anni 90. In tal modo entra anche in contraddizione coi moduli del suo vecchio cinema che naturalmente sono stati ereditati dalla fonte originaria.
"Frankenweenie" rimane infatti fedele al bellissimo cortometraggio, soprattutto nella parte iniziale e finale: la sezione originale è un'estensione che approfondisce la cittadinanza di New Holland, che non si riduce ai due arcigni vicini di casa del lavoro del 1984, poiché il giovane Victor si confronta col nuovo professore di scienze, un personaggio che omaggia Vincent Price con la voce profonda del grande Martin Landau, e con il manipolo di freaks dei compagni di classe, dalla ragazzina con il gatto chiaroveggente (
la bambina che fissava di "Morte malinconica del bambino ostrica") alla vicina di casa di nome Elsa, dal sadico Toshiaka all'immancabile bambino obeso, fino ad Edgar il gobbo. I ragazzini finiranno col riportare in vita i propri animali domestici defunti con risultati catastrofici che spingono "Frankenweenie" anche nel territorio della parodia dei
disaster-movie alla "Godzilla".
Il
character design dell'animazione
stop-motion resta sulla falsariga de "La sposa cadavere" (a sua volta frutto dell'evoluzione del tratto stilistico già presente nel mitico "Vincent") e il bianco e nero della fotografia di Peter Sorg è sempre espressionista, con illuminazione e inquadrature che riprendono il cortometraggio in maniera pedissequa. I frangenti che rappresentano un vero e proprio remake sono anche i migliori, una sorta di tuffo nel passato per il cinema burtoniano. L'incipit ad esempio è un colpo gobbo del Burton migliore: ci presenta la visione in 3D del suo "Frankenweenie" attraverso il
mise en abyme della proiezione casalinga del filmino amatoriale di Victor che fa indossare gli occhialini ai genitori: il film non è altro che una
boutade fanciullesca partorita da un giovane Ed Wood e anticipa la svolta del pre-finale, quando Sparky e il piccolo scienziato dovranno salvare la città da una squadra di bestie non-morte.
Se "Frankenweenie" rappresenta per il Burton-autore il parto di un mostro di Frankenstein, sul piano tecnico il regista-Burton sa il fatto suo; tra omaggi e citazioni più o meno esplicite, la rilettura del moderno Prometeo avanza senza un attimo di tregua, attraverso la sapienza nel metaforico uso delle transizioni per analogia e la raffinata parodia dell'horror. Trovando riparo in un habitat del passato, il regista si mantiene in equilibrio tra vecchie e nuove istanze: non è molto, ma è quello che il signor Burton può offrirci oggi.
18/01/2013