Dopo 10 giorni di visioni, concludiamo il nostro aggiornamento in tempo reale. Roy Andersson vince il Leone d'oro, premi importanti anche per Oppenheimer, Koncalovskij e il nostro Costanzo
Leone d'Oro per il miglior film
A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence di Roy Andersson
Leone d'Argento per la migliore regia
The Postman's White Nights di Andrej Koncalovskij
Gran Premio della Giuria
The Look of Silence di Joshua Oppenheimer
Premio Speciale della Giuria
Sivas di Kaan Müjdeci
Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile
Adam Driver per Hungry Hearts di Saverio Costanzo
Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile
Alba Rohrwacher per Hungry Hearts di Saverio Costanzo
Premio Marcello Mastroianni a un giovane attore o attrice emergente
Romain Paul per Le dernier coup de marteau di Alix Delaporte
Premio per la migliore sceneggiatura
Tales di Rakhshan Banietemad
Premio Orizzonti per il miglior film
Court di Chaitanya Tamhane
Premio Orizzonti per la migliore regia
Naji Abu Nowar per Theeb
Premio Speciale della Giuria Orizzonti
Belluscone, una storia siciliana di Franco Maresco
Premio Orizzonti per il migliore cortometraggio
Maryam di Sidi Saleh
Premio Orizzonti per la miglior interpretazione maschile o femminile
Emir Hadzihafizbegovicper These Are The Rules di Ognjen Svilicic
Leone del Futuro - Premio Venezia Opera Prima 'Luigi De Laurentiis'
Court di Chaitanya Tamhane
Come ogni anno, Ondacinema va a Venezia. E, come di consueto, i film in concorso sono la preoccupazione principale. Eccovi le nostre pillole, aggiornate di giorno in giorno, con le pellicole che si giocano il Leone d'oro.
The Postman's White Nights di Andrej Koncalovskij
Andrej Konchlovskij non è certo un regista provinciale, né legato esclusivamente alla realtà e alla storia del proprio paese: nel corso di una carriera cinquantennale, le sirene degli studios hollywoodiani si sono fatte ripetutamente sentire, e il Nostro ha più volte risposto positivamente al richiamo, affiancando agli adattamenti dei testi della tradizione russa (ad esempio), portati anche sul palcoscenico, progetti economicamente importanti legati alle major d'oltreoceano. Può sorprendere dunque, almeno in parte, trovarlo alle prese con un "piccolo" film, ambientato in uno di quei paesaggi non tanto climatologicamente ostili (siamo in estate, se è vero che i personaggi dormono seminudi), quanto immersi nelle sterminate pianure della Russia verace, "dimenticati da Dio e dall'uomo". (C.Z.)
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Voto: 5,5
Red Amnesia di Xiaoshuai Wang
Storia di fantasmi cinesi. Fantasmi del presente che provengono dal passato. La signora Deng (Lu Zhong) comincia a essere anziana e, per quanto sia infaticabile, sembra poco lucida. Ha ancora sua madre in vita, ma ha perso il marito, la cui immagine, tuttavia, le compare come se egli fosse vivo, vivida a tal punto che la vedova sovente le parla. Deng considera le vite dei figli come fossero affar suo, anche se il maggiore (Feng Yuanzheng) ha una famiglia propria, anche se il minore (Qin Hao) vive una relazione omosessuale che lei giudica strana, incomprensibile. Recentemente però la sua esistenza è tormentata da frequenti telefonate anonime. Lei alza la cornetta, ma dall'altra parte nessuno risponde. Solo qualche vago rumore, qualche sussurro. Finché si accorge che un ragazzo (Shi Liu) le è sempre tra i piedi... (C.Z.)
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Voto: 8
Good Kill di Andrew Niccol
C'è una sequenza molto significativa nel nuovo film di Andrew Niccol presentato in concorso a Venezia 71. È quella nella quale la co-pilota di Tommy Egan (interpretata dalla bella Zoe Kravitz) si rivolge inviperita a un suo collega particolarmente temprato da un brutale fervore patriottico, chiedendogli se con queste efferate operazioni in realtà non stiano creando più terroristi di quanti ne stiano uccidendo. Se Niccol ha dubbi a tal proposito qualcuno gli dica che la risposta è assolutamente sì e che la sua presunta denuncia all'infinita guerra in Medio Oriente e agli aeromobili a pilotaggio remoto (meglio noti come "droni") nel caso specifico, è quanto di più falso, retorico ed egocentrico si possa immaginare. "Good kill" (in italiano, "bel colpo") è una pellicola ambigua e sfuggente per come tratta eticamente e moralmente una guerra quanto mai attuale che non accenna a fermarsi. La figura del protagonista è basata su storie realmente vissute, come quella di Brandon Bryant che dopo aver eliminato 1626 persone in sei anni di servizio alla fine non ha retto e ha dovuto arrendersi al disturbo da stress post-traumatico ("quando ero giovane io la crisi nervosa dovevano ancora inventarla" dichiara compiaciuto il capitano di Egan). Ma se pensate che Tommy stia male perché uccide e fa la guerra vi sbagliate di grosso. A lui piace volare, vorrebbe tornare a schivare le montagne come il Maverick di Top Gun, a rischiare almeno un po' la sua vita invece di starsene in quella stanzetta da codardo e al riparo da tutto. Ecco perché sta male. (M.D.S.)
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Voto: 4
3 coeurs di Benoît Jacquot
Benoit Jacquot fa parte della nutrita presenza di cinema francese in concorso alla settantunesima Mostra di Venezia. Quest'anno è la volta di "3 Coeurs" che si avvale di un ottimo cast. Marc (Benoit Poelvoorde, in concorso anche con il film di Beauvois) e Sylvie (Charlotte Gainsbourg) s'incontrano per caso una notte in una piccola città di provincia. Tra i due nasce un'intesa, ma lui deve tornare a Parigi. Decidono di rivedersi qualche giorno dopo e si danno appuntamento, ma per un contrattempo Marc non vedrà Sylvie. Dopo qualche settimana, lui ritorna in provincia e s'innamora di Sophie (Chiara Mastroianni) non sapendo che è la sorella di Sylvie. Thriller sentimentale accompagnato da una colonna sonora potente e maestosa che allontana ogni tono melenso e sdolcinato. Un mix tra "Sliding doors" e "Prima dell'alba". Incantevole la prima parte nel susseguirsi di suspense e sorprese. Nella seconda Jacquot non riesce a chiudere prima, perdendosi un po' troppo in alcuni passaggi. Il risultato rimane comunque piacevole e meritevole del concorso. (A.C.)
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Voto: 6,5
Pasolini di Abel Ferrara
"Una meditazione sul mio maestro". Così Abel Ferrara confessa in conferenza stampa la sua esigenza di dirigere un film su Pier Paolo Pasolini. Anzi sulle ultime ora di vita dello scrittore, perché a dispetto della semplice magniloquenza del titolo, non siamo di fronte a un colossale biopic (come successo con il Leopardi di Martone) ma di un modo per raccontare la vita, le passioni e il lavoro dello scrittore bolognese. È un film ricco di dettagli quello di Ferrara, che in soli poco più di ottanta minuti riesce a far coniugare (non senza difficoltà e inciampi) le immagini disturbanti di "Salò", gli appunti di "Petrolio", gli scambi epistolari con i suoi amici e colleghi, la sua ultima, profetica (e bellissima) intervista a Furio Colombo de La Stampa, la necessità di un mondo senza morale, libero dal potere e dalle facili mistificazioni; addirittura l'onirica rappresentazione del suo ultimo film mai realizzato, "Porno-Teo-Kolossal". La sceneggiatura tralascia l'inchiesta giudiziaria e sociale ma Ferrara ci mette un po' di tutto, così il risultato è quello di un film di indubbia qualità ma che risulta troppo ambizioso, con licenze poetiche sperimentali riuscite solo per metà, come far recitare Dafoe contemporaneamente in inglese e in italiano. Sicuramente ha ragione Ninetto Davoli: "non basta un film per raccontare Pasolini, ce ne vorrebbero almeno dieci". Noi ne aspettiamo altri nove migliori di questo. Non che la meditazione di Ferrara sul suo maestro sia da buttare, ma le aspettative non sono state del tutto superate. (M.D.S.)
Voto: 6
Tales di Rakhshan Bani-Etemad
Autrice di fondamentali film per la Storia dell'Iran come "Our Times" e "Gilaneh", Rakhshan Bani-Etemad è una delle più importanti esponenti del neorealismo del moderno cinema iraniano. Porta a Venezia un film strutturato in una serie di episodi, senza un'apparente precisione e geometria, e caratterizzato da un andamento ondivago in cui la cinepresa segue le storie dei vari personaggi che si sfiorano tra di loro. Queste storie mettono in scena la gente comune della classe media iraniana, vecchi e giovani senza alcuna distinzione. Hanno come comun denominatore una sostanziale incomunicabilità tra i singoli soggetti. Tale impossibilità a capirsi ha molte sfaccettature: per esempio, l'anziano che cerca di comunicare il proprio problema al funzionario della pubblica amministrazione che non lo ascolta, oppure il marito che non è in grado di leggere una lettera arrivata alla moglie da un amante del passato.
Bani-Etemad vuole lanciare un allarme in cui la responsabilità di una salvezza futura sembra gravare sulle spalle della nuova generazione, spesso ostaggio di droga e malattie. Questo discorso non viene affrontato con alcun tono moralistico né conservatore e senza alcun giudizio. Un buon film capace di aggirare anche le censure interne. (A.C.)
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voto: 8
Sivas di Kaan Mujdeci
Sivas è un villaggio rurale turco alle porte della capitale asiatica Ankara. Aslan (il piccolo Dogan Izci che sfodera un'interpretazione da "grande" in grado di bucare lo schermo in più momenti) è un ragazzino undicenne dall'animo vulcanico e intraprendente. Ma è pur sempre un bambino. Vorrebbe lavarsi da solo ma è ancora la madre a occuparsi di lui. L'occasione per crescere, per diventare "grande", capita in una sera come tante altre nella quale Aslan partecipa a quello che è un avvenimento abituale tra gli abitanti di Sivas: il combattimento tra cani. (M.D.S.)
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Voto: 5
Le dernier coup de marteau di Alix Delaporte
Alix Delaporte torna alla Mostra di Venezia, dove ha ottenuto le prime soddisfazioni artistiche. Il suo "Comment on freine dans une descente" fu Leone d'oro per il miglior cortometraggio nel 2006, mentre il debutto nel lungometraggio "Angèle e Tony", poi consacrato da due Cèsar per gli attori, nel 2010 fu selezionato nella sezione Settimana della critica. La visione di "Angèle e Tony" ci aveva lasciato qualche riserva. All'indubbia capacità di trasmettere umori e di ricreare ambienti si affiancava un adagiamento sui cliché formali del tipico film da festival e una certa titubanza nello scandagliare in profondità le relazioni interpersonali nel loro svilupparsi. L'opera seconda dell'autrice, che ritrova i suoi splendidi attori protagonisti Clotilde Hesme (in una soffertissima interpretazione) e Grégory Gadebois, non solo allontana ogni dubbio, ma tramuta in pregi i limiti lì riscontrati. (C.Z.)
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Voto: 8
A pigeon sat on a branch reflecting on existence di Roy Andersson
Che il nuovo lungometraggio dello svedese Roy Andersson fosse un lavoro fuori dagli schemi in questa 71° Mostra veneziana lo si intuiva sin dal titolo: "un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza". A proiezione ultimata poi, la sensazione non solo si consolida ma si amplifica ulteriormente. Il ramo del piccione in questione si sposta di volta in volta su 39 ambienti diversi che compongono le altrettante riprese fisse utilizzate dal regista per comporre l'intera opera. Una visione statica e d'impasse per scrutare in modo impietoso le azioni di un gruppo di uomini in un imprecisato villaggio nordeuropeo. (M.D.S.)
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voto: 6,5
Fires on the Plain di Shinya Tsukamoto
Mentre l'attenzione degli appassionanti più militanti, di questi tempi, è quasi esclusivamente rivolta a un cinema popolato da lunghi, austeri piani-sequenza e tempi dilatati (come nel caso, buon ultimo, della recente opera di Roy Andersson, anch'egli in concorso a Venezia con "A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence"), Shinya Tsukamoto va in controtendenza e, pur ricorrendo anch'egli scarsamente ai dialoghi (risolti con rapidi campo/controcampo), punta decisamente sull'alta frequenza del montaggio, su nervosi movimenti di macchina, su immagini a fortissimo impatto, baroccamente disturbanti, volutamente eccessive, e su un volume del sonoro che mette a dura prova i timpani dello spettatore. Adattando il romanzo "La strana guerra del soldato Tamura" di Shohei Ooka, già portato sugli schermi da Kon Ichikawa nel 1959 ("Fuochi nella pianura"), Il regista nipponico cerca di rinnovare il linguaggio del film di guerra, variando su quello stile mirabolante che abbiamo avuto modo di apprezzare nel recente thriller "Kotoko". La sfida, estrema, di spostare i limiti dell'umanamente tollerabile è intrigante, ma come vedremo il film, a nostro modesto avviso, è malriuscito. (C.Z.)
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voto: 5
Il giovane favoloso di Mario Martone
Blaise Pascal quasi due secoli prima della nascita di Giacomo Leopardi disse che l'ultimo passo della ragione è il riconoscere che ci sono un'infinità di cose che la sorpassano. La dissertazione di Pascal sulla Ragione e in generale sull'esistenza umana (nonostante le differenti concezioni del mondo tra i due) rappresenta forse la premessa ideale per giungere all'infelice vita di Giacomo Leopardi e, insieme, alla temeraria ultima fatica di Mario Martone. L'impresa è quella di imprimere per immagini la biografia di un giovane favoloso alle prese con un'infinità di cose che travalicano i temi della storia, dell'arte, della poesia. O forse è la semplice storia di un uomo e della sua profonda e fragile esistenza. Un'esistenza che ancora oggi ci è tanto cara e attuale. (M.D.S.)
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voto: 8
Manglehorn di David Gordon Green
David Gordon Green torna, ad un anno di distanza da "Joe", a presentare un nuovo film in concorso alla settantunesima Mostra del cinema di Venezia: "Manglehorn", titolo che contiene il cognome del protagonista, interpretato questa volta da una leggenda del cinema, Al Pacino. Angelo Manglehorn è un anziano fabbro che conduce una vita tranquilla tra casa e bottega. Come unico affetto ha una gatta che accudisce con amorevolezza. Vive nel ricordo di un amore del passato, ormai sepolto da troppi anni, e ha come unico appuntamento settimanale l'incontro del venerdì con la cassiera della banca (Holly Hunter). Non potrà esimersi da un bilancio della propria esistenza fatta di errori e rimpianti, ma forse c'è ancora spazio per un riscatto. La metafora del fabbro in grado di aprire tutte le serrature, ma non quella del proprio cuore e dei propri affetti è fin troppo palese. Green sembra a suo agio nel raccontare la provincia americana e alza il tiro con un film ambizioso che vuole scavare nella mente di quest'uomo (e le frequenti dissolvenze incrociate sembrano voler evidenziare questo scavo). Buona la caratterizzazione dei comprimari e della cittadina americana e di sicuro impatto alcune scene madri (quella musical su tutte). Purtroppo le intenzioni non corrispondono al risultato di un film prevedibile e un po' banale. (A.C.)
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voto: 6
The Cut di Fatih Akin
Il taglio del titolo non è solo quello impresso alla gola del protagonista (Tahar Rahim), ma è anche il taglio netto che dividerà i tanti Armeni dalle proprie famiglie e dalle proprie origini. Fatih Akin ripercorre l'Odissea del giovane Nazareth (!) portato via dalla famiglia. Questo viaggio si svolgerà nell'arco di sei anni in un giro dell'oca tra l'Asia e l'America. Il regista tedesco d'origine turca non si muove a suo agio in un genere che non rientra nelle sue corde. Non dice molto sul genocidio degli Armeni, seguendo piuttosto le avventure di Nazareth. L'impianto è troppo classico e didascalico, con un uso massiccio di colonna sonora con tratti di chitarra elettrica. Ne esce fuori un feuilleton d'altri tempi, prevedibile e a rischio di ridicolo in alcuni passaggi e dialoghi. Nazareth perde l'uso della parola e diventa così la metafora di un popolo senza voce, ma non c'è di più. Spiace davvero un impiego così massiccio di forze per partorire un topolino. (A.C.)
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voto: 5
Anime nere di Francesco Munzi
Per girare "Anime nere", Francesco Munzi ha adattato liberamente il romanzo di Gioacchino Criaco, spostando l'azione dagli anni 70 ai giorni nostri. La storia dei tre fratelli che si ritrovano a fare i conti con il passato della propria famiglia nel paese d'origine è raccontata con toni dimessi senza scene madri e con una fotografia buia che esalta le ombre. Bastano poche coordinate per dare identità a luoghi e persone. La morte è in agguato: la tarantella suonata nel paese sarà una tarantella di morte e non di vita. La prima parte rimane troppo convenzionale al genere e i tre fratelli vengono ritratti in troppi luoghi comuni. Appena però la scena passa definitivamente in Calabria, Munzi scegli una strada non convenzionale puntando il dito sulle generazioni passate, icone di un passato da annientare con un finale potente, da meditare. (A.C.)
voto: 6,5
Loin des hommes di David Oelhoffen
Tratto da "L'ospite" di Camus, ambientato nel 1954 nello stato africano colonizzato dai transalpini, "Loin des hommes" narra dello scoppio della guerra civile e dell'insegnante Daru, dalle sembianze europee ma nato in Algeria, a cui viene dato in consegna il prigioniero Mohamed in attesa di essere processato (e giustiziato) per l'omicidio del cugino. L'arabo preferisce questa sorte alla liberazione da parte dei suoi connazionali, poiché la sua morte per mano "esogena" interromperebbe la catena infinita di faide familiari previste dalla tradizione clanica. La strada percorsa fianco a fianco dai due solitari antieroi regala momenti di confronto, memoria, amicizia virile di rara profondità, e sequenze poetiche, toccanti, mirabili quanto a delicatezza, in ultima istanza memorabili, come quella nel bordello di Berzine. Ma il film è stilisticamente irrisolto: punta troppo sulla spettacolarizzazione all'interno di un impianto sostanzialmente realistico. E Viggo Mortensen, inamidato e inespressivo, è fuori parte. (C.Z.)
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voto: 7
Hungry Hearts di Saverio Costanzo
Saverio Costanzo ripristina il rigore dei suoi primi due lavori e firma, in trasferta Usa, un tesissimo dramma familiare. La travagliata storia d'amore tra l'immigrata italiana Mina e l'ingegnere statunitense Jude è segnata dalle manie di Mina, lesive per il figlio neonato, per l’alimentazione vegana e il riparo dai rischi ambientali. E dai molteplici tentativi di Jude, aiutato dalla madre, di salvare la vita del bambino e al contempo il matrimonio. La caratterizzazione del personaggio del padre, primo merito del film, è mirabile per complessità; più schematici appaiono gli altri due protagonisti mentre il figlio – chiamato così e non per nome – è più un oggetto del contendere che un soggetto titolare di diritti. Il punto di vista maschile lambisce lo stereotipo, contrapponendo la razionalità di Jude con l’irrazionalità assoluta di Mina, che non si fida dei medici e crede ai tarocchi. Ma Costanzo è straordinario nel trasferire le ossessioni da un personaggio all’altro, creando un clima claustrofibico grazie a immagini anamorfiche e ubriacanti movimenti di macchina. Perché possa autografare il suo primo capolavoro, gli manca tuttavia il colpo di coda decisivo: la fuga di Mina al mare col bambino e la soluzione della diatriba sono da bignami di sceneggiatura. (C.Z.)
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voto: 7,5
Birdman di Alejandro González Iñárritu
Dopo aver messo in scena il tema della morte fisica e della malattia con le opere precedenti, Alejandro Iñárritu torna negli Stati Uniti senza Guillermo Arriaga e racconta la morte dell'attore in "Birdman (o Le inaspettate virtú dell'ignoranza)", film in concorso e d'apertura alla 71esima Mostra del Cinema di Venezia. Gli anni 90 sono lontani e lontano è il successo di Birdman, blockbuster con vari seguiti interpretati da Riggan Thompson (Michael Keaton, che fa la parodia del suo Batman di Tim Burton). A volte il desiderio di sbalordire lo spettatore rimane fine a se stesso e inutile (come lo stesso finale). Ne esce un film complesso come tecnica (la nomination agli Oscar alla regia è probabile) e pieno di virtuosismi degni di Brian De Palma, ma troppo ridondante nei contenuti. C'è troppo e troppa ambizione. Iñárritu aveva la possibilità di affrontare la crisi dell'attore con profondità e purtroppo il tema viene solo sfiorato. Al netto di queste imperfezioni, rimane memorabile il personaggio di Michael Keaton, maschera segnata dal tempo, alla ricerca del sospirato passaggio dall'essere solo una celebrità all'essere un grande attore. (A.C.)
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voto: 6,5
The Look of Silence di Joshua Oppenheimer
"The Look of Silence" è la seconda parte del dittico di Joshua Oppenheimer incominciato due anni fa con "The Act of Killing". Nella prima parte il regista texano raccontava l'orrore del regime militare attraverso le interviste ai capi degli squadroni della morte che dal 1965 uccisero oltre un milione di persone nell'Indonesia retta da Suharto. Con quest'opera cambia il punto di vista, si passa a quello delle vittime. Il motivo di tale violenza era quello di ripulire il paese dai comunisti che venivano dipinti dalla propaganda come persone prive di morale e non credenti in Dio. La sinestesia del titolo non è altro che l'immagine ricorrente dello sguardo di Adi Rukin, fratello minore di una delle vittime del massacro nello Snake River del 1965. E il fiume viene ripreso dall'alto, all'alba, con il ponte d'acciaio che domina il suo lento flusso. Sembra impossibile che negli anni 60 fosse il teatro di tale mattanza. Poche volte si può scrivere di un capolavoro e questa è una delle poche volte. Oppenheimer racconta tutto ciò con una cinepresa fissa sui volti e con una fotografia dalle luci morbide che permette di evidenziare bene i colori caldi. Il grande merito del regista texano è di dirigere senza mai essere protagonista, lasciando andare avanti i vari intervstati, soffermandosi su di loro anche nelle pause e nei silenzi. Un grande documentario che diventa vera testimonianza di un passato che si vuole oscurare. Un brivido coglie lo spettatore sui titoli di coda: i tanti "anonimi" che scorrono sullo schermo fanno capire che il passato è ancora presente. (A.C.)
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voto: 9
Le rançon de la gloire di Xavier Beauvois
Per la terza volta Xavier Beauvois passa a Venezia e finora senza mai ritirare premi. Solo Cannes nel 2010 premiò "Uomini di Dio" con il Gran Premo. Questa volta Beauvois torna con una commedia, sia pur amara, ma dai toni candidi come fosse una favola. Ginevra anni 70, Eddy (Benoit Pelvoorde) esce di galera e viene accolto da Osman, amico di sempre, che lo ospita chiedendogli in cambio di badare alla figlia Samira, finché la madre è in ospedale per un'operazione all'anca. I due sono senza soldi quando ad Eddy viene in mente un piano assurdo: rubare la salma di Charlie Chaplin, appena scomparso, e chiedere un adeguato riscatto. Il film è raccontato come fosse un film del grande maestro inglese. Pelvoorde recita con gesti e modi da cinema muto, infarcendo la scena con gag (per esempio quella dell'antenna del televisore). E difatti non potrà che incontrare un circo e fare il clown. Le atmosfere chapliniane (e anche molto dei film di Kaurismaki) vengono evidenziate anche da inquadrature semplici e frontali, i personaggi vivono poi in piccole baracche come alcune ambientazioni di Charlot. Si potrebbe dire che è tutto qua, ma è un film ottimista che si fa voler bene. Corredato da una colonna sonora che arrangia alcune musiche dei capolavori di Chaplin che piacerà di sicuro al presidente di giuria. (A.C.)
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voto: 7
99 Homes di Ramin Bahrani
Ramin Bahrani sceglie di raccontare l'origine della grande crisi degli ultimi anni, quella del settore immobiliare americano. L'opera può essere divisa in due parti: la prima è il resoconto cronachistico di una famiglia che non riesce più a pagare le rate del muto. Il giovane padre (Andrew Garfield) viene sfrattato insieme al figlio e alla madre (Laura Dern) da un cinico agente immobiliare al soldo della banca. La scena è raccontata con molta violenza senza risparmiare alcun passaggio e con una colonna sonora martellante che aumenta tensione e ritmo. Qui i toni sono più da documentario, nella seconda parte invece Garfield per non perdere tutto incomincia a lavorare per l'agente immobiliare in loschi traffici. E il genere passa al thriller senza però mai perdere quel legame alla realtà che è un po' la cifra di tutto l'impianto narrativo. Tutti i personaggi rimarranno coerenti con la propria origine, non basterà il profumo dei soldi per far perdere i propri principi morali. Bahrani lancia un monito duro sulla crisi economica ma soprattutto sulla perdita dei propri valori, sullo sfondo di un'America impaurita e sotto assedio sempre con il fucile puntato fuori dalla finestra. (A.C.)
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voto: 7
FUORI CONCORSO E SEZIONI COLLATERALI
Fuori concorso
La trattativa di Sabina Guzzanti
Prendendo spunto da un cortometraggio del 1970 di Elio Petri ("Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli"), Sabina Guzzanti presenta a Venezia il suo settimo lungometraggio incentrato sulla presunta convivenza tra Stato e mafia. Un gruppo di attori teatrali, capitanati dalla regista romana, si apprestano a recitare una storia che è frutto di testimonianze dirette, libri, articoli, verbali, ore e ore di registrazioni processuali. Il documentario si fonde con la finzione, il dramma con l'ironia più aspra, propria della satira politica. Le ricostruzioni teatrali si avvalgono di disegni animati, immagini di repertorio e altre di pellicole famose ("Salvatore Giuliano" di Rosi). Accusata da alcuni critici qua al Lido, subito dopo la prima proiezione, di voler propinare forzatamente la verità allo spettatore, "La trattativa" è invece uno dei lavori meglio riusciti della Guzzanti, capace di rappresentare un fenomeno di enorme proporzioni attraverso una messa in scena fruibile da tutti, senza solipsismi e tecnicismi. Opera destinata per natura allo scandalo (molte informazioni sono solo una sottolineatura di quanto si sa già, altre sono inedite come il terrificante aneddoto raccontato dal pentito Gaspare Mutolo su Borsellino) e al probabile sequestro delle autorità, "La trattativa" è una pellicola assolutamente da vedere che per i temi trattati e solo da un punto di vista cinematografico, qua a Venezia71 è secondo solo a "Belluscone" di Maresco. (M.D.S.)
Voto: 7,5
Fuori concorso
Burying The Ex di Joe Dante
"I film dell'orrore permettono di esorcizzare i nostri demoni. Soprattutto se sono fortemente ironici". Joe Dante interviene alla conferenza stampa del Lido attraverso Skype e riassume così la sua scelta di girare uno script di Alan Trezza incentrato su una zombie comedy (altrimenti detta zom com, genere portato sul grande schermo da Edgar Wright col suo "Shaun of the Dead"). "Burying The Ex" è una storia romantica abilmente amalgamata da venature dark punk e horror, pellicola tanto divertente quanto intelligente nel saper fondere una demenzialità grandguignolesca all'interno di un contesto piuttosto abituale in un rapporto di coppia. Niente bugie, le parole e le azioni dovrebbero andare di pari passo con i sentimenti...
Il film è costellato di citazioni e riferimenti cinematografici tra cui spiccano Romero e Poe, soprattutto nostrani come Bava (il poster di "Terrore nello spazio"). "Quando faccio un film di genere cerco di metterlo in un contesto. Credo che questo sia un film retrò anche se gli attori sono giovani. Le citazioni provengono da un cinema di genere di molto tempo fa. Voglio colmare il divario tra i vecchi film e quelli che i giovani guardano oggi". Operazione riuscita alla grande anche per merito dei tre protagonisti, Anton Yelchin, Ashley Greene e Alexandra Daddario qua in versione dark lady. Dante è resuscitato, ed è pure in gran forma! In realtà non avevamo dubbi. (M.D.S.)
Voto: 7,5
Orizzonti
Belluscone - Una storia siciliana di Franco Maresco
La domanda che tormenta il pubblico della 71a Mostra veneziana: perché la pellicola di Franco Maresco è all'interno della categoria Orizzonti quando potrebbe, anzi dovrebbe, essere in concorso per il Leone d'Oro? Una domanda d'obbligo se poi si considera che il regista di CinicoTv ha sempre rinnegato la partecipazione al Lido se non per concorrere alla sezione principale. Eclatanti furono i casi di "Lo zio di Brooklyn" e di "Totò che visse due volte", in collaborazione col collega di lunga data Daniele Ciprì, entrambi presentati a Berlino dopo essere stati rigettati dai selezionatori ufficiali a Venezia. (M.D.S.)
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Voto: 8
Orizzonti
Hill of Freedom di Hong Sang-soo
Il giapponese Mori, giovane insegnante disoccupato, si reca a Soul alla ricerca di Kwon, la donna che ama e che lo aveva soffertamente respinto due anni prima. Soggiorna in una piccola pensione a poca distanza dalla casa dell'amata. Qui stringe amicizia con la tenutaria e con il suo figliastro. Ma nel frattempo conosce anche Youngsun, affascinante proprietaria della locanda "La collina della libertà". Esattamente quello che ci si può aspettare da un regista, habitué dei festival, che non brilla per versatilità, ma che qui si rivela in buono spolvero. Per i neofiti: Hong realizza commedie in stile Rohmer, ma innervate da un umorismo tipicamente orientale. La particolarità di quest'ultima opera è la competa destrutturazione della linearità temporale, che trova credibile giustificazione in un espediente: le lettere non datate di Mori, che Kwon sparpaglia facendole cadere inavvertitamente e non è più in grado di ordinare. Pochi applausi in proiezione stampa. Ma, tra le voragini di sceneggiatura (al di là del flipper cronologico), i personaggi si fanno volere bene. E il non protagonista Kim Eui-sung è uno spasso. (C.Z.)
Voto: 7
Venezia Classici
Giulio Andreotti - Il cinema visto da vicino di Tatti Sanguineti
Chissà cosa avrà pensato il buon vecchio Giulio nel momento in cui, agli inizi degli anni 80, Drive In e in genere tutta la tv commerciale nel suo boom mediatico incarnava il nuovo credo post riflusso fondato sulla disinibita provocazione sessuale femminile. Proprio lui che, dopo un passato da membro dell'Assemblea Costituente e dopo esser divenuto improvvisamente il sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri del quarto governo De Gasperi, prese parte a quella che oggi chiameremmo commissione di vigilanza e che nel secondo dopoguerra incarnava semplicemente le forme della cara e vecchia censura. Il documentario di Sanguineti, in collaborazione con l'Istituto Luce, descrive la figura pluridecantata di Andreotti in relazione al cinema (e al suo tanto amato Dottor Jekyl stevensoniano) mettendolo di fronte all'evidenza dei suoi tagli da censore-giudice delle più rinomate opere cinematografiche (interessanti gli aneddoti riguardanti De Sica e il suo "Umberto D.", esilaranti quelli sul pesce democristiano di Totò) nel periodo in cui fu rappresentante della Democrazia Cristiana. Tempi bui per l'agognata libertà di espressione. Una composizione documentaristica quella di Sanguineti ilare e vivace che sottolinea la figura intrinsecamente cristiana di Andreotti capace di far suscitare compassione e tenerezza agli occhi dello spettatore se messo di fronte ai suoi errori del passato ma che, al di là del superamento del tabù della donna oggetto avvenuto nel corso dei decenni e all'oramai esplicito epiteto della donna "puttana" immune alla censura, rischia oggi di esagerare con le "monte equine" in diretta tv del Grande Fratello. Altrimenti detto: Andreotti allora censurava di tutto e di brutto ma anche noi oggi diamoci una regolata. (M.D.S.)
Voto: 7
Orizzonti
Senza nessuna pietà di Michele Alhaique
Mimmo è il nipote di un boss della malavita laziale. Di lavoro fa il muratore, ma part-time estorce denaro per conto dello zio strozzino. Il lato delinquenziale della sua esistenza lo mette a disagio. L'occasione per un ripensamento arriva grazie all'incontro con Tanya, giovane prostituta che Mimmo deve solo condurre dal violento cugino, ma che si ritrova a ospitare per una giornata intera. Lo schema di partenza - un ambiente oppressivo da cui è difficile uscire, due persone emarginate/problematiche che solidarizzano - è risaputo, e il debuttante Alhaique lo svolge mettendo insieme fiction Rai e noir americano di medio livello, abusando di antiestetici primissimi piani, "gonfiando" con la musica le scene madri. Se riesce, o quasi, a scampare il naufragio è per una certa abilità nello schivare gli scivoloni (nessuna sequenza è da mani nei capelli) e per la prova collettiva degli attori, che partono sopra le righe mai poi trovano la misura; dagli scagnozzi Adriano Giannini e Claudio Gioè (che però esagera con la cadenza meridionale), al boss interpretato dal mitologico Ninetto Davoli. Fino ai due protagonisti: un visibilmente ingrassato Pierfrancesco Favino, sempre affidabilissimo, e una sorprendente Greta Scarano, che scommettiamo farà carriera. (C.Z.)
Voto: 5