Andrej Koncalovskij non è certo un regista provinciale, né legato esclusivamente alla realtà e alla storia del proprio Paese: nel corso di una carriera cinquantennale, le sirene degli studios hollywoodiani si sono fatte ripetutamente sentire, e il Nostro ha più volte risposto positivamente al richiamo, affiancando agli adattamenti dei testi della tradizione russa (ad esempio), portati anche sul palcoscenico, progetti economicamente importanti legati alle major d'oltreoceano. Può sorprendere dunque, almeno in parte, trovarlo alle prese con un "piccolo" film, ambientato in uno di quei paesaggi non tanto climatologicamente ostili (siamo in estate, se è vero che i personaggi dormono seminudi), quanto immersi nelle sterminate pianure della Russia verace, "dimenticati da Dio e dall'uomo".
In un minuscolo villaggio - giusto una manciata di abitanti - sulle rive del lago Kenozero, il postino Aleksey Tryapitsyn ci illustra, sfogliando fotografie sullo sfondo di una tovaglia di plastica assai kitsch, la sua fallimentare esistenza segnata da una brevissima relazione sentimentale, dalla morte di qualche caro, dalla battaglia contro la dipendenza dalla vodka. Dopo questo incipit fortemente autoironico narrato dal protagonista, è il regista a intraprendere un autentico, zavattiniano pedinamento del suo non-eroe, non abbandonandolo praticamente mai. L'inseguimento è condotto - scelta insolita - prediligendo largamente la macchina fissa, talvolta collocata, per riprendere gli interni, in modo tale da sembrare nascosta - pure questa è una scelta curiosa -, trovando angolazioni da candid camera.
L'uomo, che oltre alle lettere consegna i beni di quella che è, all'interno della comunità, una produzione minimale e autarchica, ci conduce tra gli abitanti del luogo, che lo accolgono in casa e gli offrono una tazza di tè. Se l'offerta non giunge spontaneamente, il Nostro la reclama con una certa sfacciataggine. Gli incontri con le donne sono poi il lato tragicomico, per questo personaggio che non brilla per bellezza, con quel volto arrossato dall'alcool e e quella corporatura tutt'altro che atletica (vista anche l'età non più verdissima). Aleksey, che cerca sempre di fare il simpatico ma non risulta divertente, non rinuncia alla battuta maliziosa, all'improbabile invito a cena o a ballare rivolto alle donzelle che si trovano in momentanea o permanente assenza del compagno, o del marito...
In una visione caratterizzata da sottotitoli non adeguati (si può tradurre "White Russian", il cocktail, con "Russo Bianco"? La trascrizione con un'unica parola delle bestemmie è una forma di censura? È possibile saltare interi dialoghi?), problema ricorrente in questa Mostra, "The Postman's White Nights" ci è parso un film drammaturgicamente deboluccio, che azzecca giusto qualche trovata simpatica, anche se mai originalissima. Ad esempio, fa tenerezza la nostalgia, palesata senza seriosità, di un passato di presunta gloria, simboleggiato dal funerale della "compagna" che ha attraversato i periodi della collettivizzazione, della meccanizzazione e della guerra, divenendo un'eroina del "socialismo romantico" (sic), o dalla vecchia scuola ormai in stato di abbandono. Ma il film cade anche in ovvietà di scrittura quali l'altrettanto simbolico missile, che irrompe sullo sfondo e alle spalle dei personaggi, metafora di un paese diviso tra miseria e abbandono da una parte e manie di potenza e grandezza dall'altra. Al cospetto di una sequenza simile si può sorridere, ma la sua banalità è innegabile. Infine, la vicenda del rapporto con il figlio di Irina, la donna maggiormente bramata, invano, dal Nostro (abbandonerà il villaggio, lasciandolo al suo destino e seguendo le orme di tanti compaesani), è uno spunto rimasto in abbozzo. Comunque, gli applausi al termine della proiezione stampa sono stati copiosi e convinti.
06/09/2014